Nei momenti di crisi economica profonda, come quelli attuali, il dibattito sulla necessità dell’intromissione dello Stato nel sistema produttivo riprende vigore. Stiamo parlando della richiesta di nuove nazionalizzazioni e dell’intervento attivo dello Stato nell’attività produttiva dell’Italia.
La domanda che a questo punto bisognerebbe porsi è se questo processo di ri-statalizzazione dell’economia possa funzionare. La risposta lapidaria è: no! Questo perché il problema del nostro Paese non è la troppa presenza del mercato nell’economia (se l’economia non funziona bene) visto che attualmente circa il 70% del Pil viene generato da un settore produttivo che direttamente o indirettamente è già nelle mani dello Stato. Vediamo meglio. Nel dettaglio - con l’esclusione di FCA, di Generali e di qualche altra impresa di medie dimensioni - praticamente tutte le più grandi imprese italiane sono di proprietà o sotto il controllo diretto e indiretto dello Stato. Il controllo avviene attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (CDP): posseduta all’83% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e di CDP Reti, posseduta dal medesimo al 59%. Mediante quest’ultima, poi, il MEF è azionista di maggioranza di Snam, Italgas e Terna. CDP inoltre possiede il 35% di Poste Italiane, da sommarsi al 29% che è direttamente nelle mani del MEF. E non finisce qui. CDP è azionista col 9,89% anche di Telecom Italia mentre il MEF controlla direttamente: col 23,5% Enel; col 30% Leonardo, la principale azienda aerospaziale italiana; col 100% Ferrovie dello Stato e col 99,5% la Rai.
Ma come viene giustificato un siffatto statalismo imprenditoriale? Il ruolo dello Stato imprenditore sarebbe necessario per garantire il processo di innovazione che è al centro della dinamica economica. Il problema, se vogliamo, alla fine è sempre lo stesso: da una parte c'è lo Stato ideale, fatto da persone prive di difetti, lungimiranti, intelligenti, vogliose di lavorare e, soprattutto, perfettamente a conoscenza di cosa vuole il mercato e di come relazionarsi con esso. Dall'altra, invece, c'è lo Stato in carne ed ossa, costituito esattamente come il settore privato da persone imperfette, a volte non lungimiranti e scarsamente motivate e, infine, con imperfetta conoscenza del mercato e delle sue esigenze.
Ma allora una domanda sorge spontanea: come può uno Stato (spesso in condizioni di monopolio) riuscire ad avviare un processo imprenditoriale ‘necessario’ in modo efficiente ed in tempi brevi? Ipotizzando a priori che riuscirà a non farsi condizionare dalle esigenze clientelari della classe politica. La risposta è che semplicemente non ce la farà per le seguenti ragioni: 1) non conosce a priori qual è la tecnologia economicamente vincente su cui puntare; 2) non potrà determinarla procedendo per tentativi attraverso l’apprendimento per esperienza, come avviene invece nel libero mercato: muovendosi tra successi e fallimenti (la distruzione creatrice di Schumpeter); 3) non potrà eliminare i processi errati perché essendo uno Stato non può fallire e, quindi, rinunciare a percorrere la via industriale sbagliata nella quale si è incamminato. La ripresa oggi, a nostro avviso, passa piuttosto, inevitabilmente, attraverso l'efficienza della pubblica amministrazione ad ogni livello.
Per far ripartire l'economia serve una forte spinta dal basso: vanno ricostruite le reti sociali per una maggiore coesione. Si ha bisogno di un riequilibrio dei rapporti tra Stato, mercato, economia e società civile, in grado di migliorare le performance del sistema Italia. Meno Stato, più società, più parti sociali più partecipazione: questa è la ricetta essenziale. Cioè uno Stato che deve andare incontro ad una profonda razionalizzazione: partendo dal modo di gestire la cosa pubblica, passando per il modo di concepire le istituzioni, fino al numero delle istituzioni necessarie per intermediare i processi decisionali. Bisogna insomma risolvere l'equazione dell’economia sociale di mercato trovando un equilibrio tra le risposte alle seguenti tre domande: (I) quanto "sociale" è necessario? (II) quanto "mercato" è lecito? e (III) quanta regolazione da parte del governo è indispensabile per rendere il sistema di successo?
Nel dibattito in corso su come miscelare mercato, sociale e regolamentazione c'è una diversità di posizioni. Ci sono coloro che si spendono per un ruolo più o meno importante dello Stato; altri per più mercato o per più regolamentazione ed altri ancora per l'aumento della dimensione sociale da inserire in questa equazione. Sta di fatto che nel contesto attuale di globalizzazione segmentata è fondamentale identificare un equilibrio che incoraggi e richieda lo spirito imprenditoriale del mercato e che corregga i suoi fallimenti. E rifiutare, come ha scritto Mons. Mario Toso, economie sia a somma zero sia assistenzialistiche (...) che non valorizzano la libertà e la responsabilità delle persone, [e che trascurano] i valori della solidarietà e del bene comune, che a loro modo sono un prerequisito dell’efficienza economica. Si ha bisogno per questo di forze compensative sotto forma di un forte e rinnovato movimento sindacale, di una società civile diversificata e sana e di partiti politici vigili, che tengano a freno i possibili abusi e lo sfruttamento delle pratiche capitaliste, garantendo un'equa redistribuzione dei benefici del mercato con appropriati programmi sociali. Risulta necessaria, insomma, una politica riformista che contribuisca a rendere più democratici i processi decisionali delle imprese ed a sviluppare un modello di economia sostenibile in termini sociali ed ambientali. Se non ora, quando?
Marco Boleo