La “zona rossa” della diffusione del virus che, all’inizio, aveva delimitato il territorio di qualche piccolo comune, si è poi allargata, man mano, a qualche regione e provincia, includendo, infine, tutta la Penisola. E, dopo la dichiarazione di pandemia da parte dell’Oms, probabilmente, si estenderà, quantomeno, a tutta l’Europa.
Il governo italiano di fronte al coronavirus, all’inizio, ha tentato di seguirne le tracce, poi, ha capito che occorreva tentare di precederlo, fino all’ultimo decreto con il quale, al fine di stabilire una “quarantena” generale, si sono chiuse tutte le attività del Paese che non rispondano a necessità e urgenza.
Si contrasta, in tal modo, ogni possibile punto di aggregazione non necessario. Più si riuscirà a ridurre i rischi di contagio, prima si uscirà dall’emergenza.
Tutto ciò sta comportano una compressione su tutti gli ambiti e i livelli della società italiana e delle sue stesse istituzioni.
Qualcuno, tuttavia, ha iniziato ad esprimere alcune riserve su taluni riflessi sociali e politici, ma soprattutto istituzionali, per come si stia procedendo. Marco Olivetti - ottime, nel passato, le sue critiche al “liberismo etico” dilagato nella trascorsa legislatura - su Avvenire affronta con coraggio la questione di come i decreti che si sono succeduti negli ultimi giorni abbiano “messo in campo la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione”. Addirittura, l’articolista, si domanda “se le procedure che il governo ha deciso di seguire siano costituzionalmente corrette”. Il professore di diritto costituzionale della LUMSA compie una analisi sui presupposti legislativi sui quali operano tali decisioni, individuandoli nel “sistema di disciplina dell’emergenza”, complessivamente riordinato con “una riforma dei primi giorni del 2018”, osservando come esso sia “del tutto privo di una fase parlamentare nell’esame della dichiarazione dello stato di emergenza“, per concludere che con il decreto legge n. 6 del 2020 si sono autorizzate “limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo si fa in maniera generica, sicché tutte le regole sono delegificate in quanto il loro contenuto è rimesso a decreti del Presidente del Consiglio”. In termini istituzionali, ciò significa che tali provvedimenti “sono sottratti a qualsiasi controllo preventivo dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare”.
Ora questi rilievi potrebbero sembrare capziosi rispetto al livello della gravità della situazione e della necessità delle decisioni a cui si è giunti. Tuttavia, c’è da considerare un elemento essenziale e cioè che le regole per contenere lo sviluppo epidemico richiedono la partecipazione della gente con la convinzione di tutti circa la loro necessità, in sintesi l’adesione e il consenso dei cittadini che, pur sopportando pesanti sacrifici, si possano identificare con le istituzioni che hanno deciso le regole severe. La differenza tra la Cina e l’Italia è tutta qui. Regole analoghe, ma sistemi politici e società del tutto diversi: totalitari a Pechino, nella identificazione tra Stato e Partito comunista, democratiche a Roma dove partecipazione e consenso sono coessenziali.
Il problema quindi, non trascurabile, è quello che Olivetti evidenzia a conclusione del suo articolo e cioè il rischio che “il Presidente del Consiglio” possa apparire come “una specie di dictator, abilitato a stabilire effettivamente quali limitazioni dei diritti fondamentali possano essere adottate”.
Ora questa possibile deriva non deve essere ignorata, ma individuata e contrastata.
Già le tendenze politiche degli ultimi decenni, superando il sistema dei partiti, hanno aperto ad una prospettiva leaderista, adombrando, pur in un sistema politico parlamentare, uno pseudo presidenzialismo ed esaltando la personalizzazione della politica, con partiti autoreferenziali nei quali il dominus è il capo della forza politica o della stessa coalizione. Idea che permane anche in presenza di sistemi elettorali non maggioritari.
Anche la comunicazione adoperata nelle vicende dell’emergenza sanitaria ha mostrato una eccessiva personalizzazione, laddove, invece, sarebbe stato più convincente presentare all’opinione pubblica, scossa e preoccupata, la forza, l’operatività e la garanzia di istituzioni coese e complessivamente coinvolte. I provvedimenti e le decisioni tanto più risultano efficaci se sono il frutto e vengano presentati come il risultato di un coinvolgimento generale: Parlamento, attraverso le sue rappresentanze, comprese le opposizioni - realizzata in qualche modo nei fatti - Governo, Regioni ed Enti locali, sulla base di indicazioni che provengano dallo studio e dall’esperienza scientifica. Una condizione di necessità che unisca, coinvolga e decida con immediatezza ed efficace partecipazione. La logica che deve prevalere è che l’affidabilità dei provvedimenti, richiesta dai cittadini, sia dimostrata da un impegno corale di tutti gli organi costituzionali e rappresentativi. In questi difficili momenti, oltre il bene essenziale della salute e del lavoro, è in gioco il sistema paese e le sue stesse istituzioni, non le persone in quanto tali.
L’Italia attraversa un momento di grande difficoltà. Si profila all’orizzonte il rischio che la solidarietà, senza la quale la convivenza nazionale e la coesione europea non sussisterebbero, lasci spazio ad una sorta di “darwinismo” che favorirebbe la sopravvivenza dei più forti, così nella nostra società, come in Europa. La verità è un’altra: sono la catena, o meglio, il susseguirsi degli egoismi che produrrebbero la catastrofe per tutti. Anche le istituzioni europee devono comprenderlo fino in fondo, senza esitazioni.
Come sempre il male chiama a contrastarlo ciò che non lo farà prevalere.
Pietro Giubilo