L’emergenza legata al Covid 19 ha suscitato - oltre che grave apprensione per il destino sanitario del pianeta - anche grandi riflessioni che, almeno in Europa, sembrano abbracciare molteplici aspetti.
Il lockdown ha reso le nostre città il simbolo di un’impensata solitudine e oggi, assieme agli spazi, spinge a ripensare ai diversi rapporti tra il centro e la periferia, tra le persone e la natura. E poi ci induce a “riflettere” sul lavoro, sul nostro futuro e su quello dei nostri figli e nipoti.
Con la sua lunga e grande storia, l’Europa diventa ancora il centro di una riflessione che non può che ripartire dalle “connessioni” europee e ritornare, alla fine, all’Europa come centro evolutivo di una storia che non si può dimenticare.
Ma come si può pensare oggi alla città di domani se l’ambiente in cui viviamo si carica di nuove povertà, di miseria, di miserie umane… e la crescente disoccupazione di giovani, donne e troppi lavoratori adulti nega con forza la speranza per “quel domani” che da sempre è stata la spinta che ha prodotto crescita, benessere, pace e tanta storia?
Se penso alla nostra Europa di domani credo in una visione che la rende “aperta” al mondo, al nuovo, e che lotta ancora per abbattere i muri - dell’indifferenza, dell’ignoranza e dell’individualismo - per costruire ponti e spazi nuovi.
Il futuro di pace si può sostenere solo attraverso la costruzione di ponti, col dialogo e con la solidarietà. Ma la realtà ci presenta una crisi senza paragoni: l’identità ed il patrimonio valoriale sembrano svanire nella retorica di un crescente nazionalismo. Una crisi di fiducia, una crisi alimentata sempre più anche dalla menzogna.
Ascoltiamo nel dibattito pubblico frasi del tipo “l’Europa è contro di noi”, la Merkel ci vuole fare la “maestra...”. Gli olandesi, gli austriaci, i finlandesi e altri ancora: c’è sempre qualcun altro che è causa dei nostri problemi... Un giorno è tutta colpa dell’euro, un altro giorno tocca alla Banca centrale, un giorno... sempre gli altri e mai una riflessione che induca al “noi”! Sì, proprio noi, con le nostre furbizie, con i nostri trucchi. Noi con le nostre debolezze, noi senza fiducia e senza più valori, noi intenti a vivere alla giornata pensando alle vacanze...
Così la responsabilità è sempre degli altri e così facendo la nostra classe dirigente ci colloca ai margini di un percorso di integrazione che nacque in Campidoglio e che ci aveva sempre visto artefici di una politica di coesione, di solidarietà e di pace.
Noi col nostro debito pubblico - ormai mostruoso! -, noi con la nostra cronica incapacità di riformare il Paese nel segno della modernità.
Oggi, con la Merkel presidente di turno dell’UE, noi auspichiamo che il progetto di accordo sul Recovery Fund venga raggiunto e speriamo che vengano meno le riserve di olandesi, austriaci, finlandesi e svedesi (ma, con onestà intellettuale, dobbiamo anche dire che tali riserve non sono sempre e solo il frutto di un pregiudizio).
Insieme a questo speriamo che il nostro giudizio sul Mes venga liberato da pregiudiziali strettamente politiche che caratterizzano, da ogni parte, gli anti europeisti.
Il ritornello che nega l’utilizzo del Mes continua a coltivare quel clima anti europeista con cui, a turno, si cercano nuovi consensi per i sondaggi e si rinviano poi le decisioni e le scelte necessarie per costruire il nostro domani.
Temporeggiare, già dal tempo dei romani noi ben conosciamo questa arte. Il governo, magari circondato da stuoli di pseudo esperti, rinvia e rimanda quelle scelte che in Europa ci chiedono anche a garanzia di un rinnovamento di stile.
Non riusciamo mai a decidere, poi ci arrabbiamo se altri ci consigliano. La Merkel spesso suggerisce, ma la sua pazienza non potrà essere infinita: entro luglio si deve trovare l’accordo europeo, quell’accordo che la malafede comunicativa ha fatto credere agli italiani che sia stato raggiunto già da più di un mese...
Il Movimento Cristiano Lavoratori, europeista da sempre, chiede ancora e con forza, una stagione di riforme per far tornare i cittadini al centro di quella “città aperta” che tutti noi siamo chiamati a costruire. Da soli, infatti, non c’è speranza di salvezza.
Piergiorgio Sciacqua