All’inizio di un ennesimo anno elettorale che vedrà milioni di italiani andare alle urne, è legittimo chiedersi se i cittadini avranno l’opportunità di votare partiti che siano espressione del popolarismo, come accade in tante altre nazioni d’Europa. Ricordiamo che si vota il 26 gennaio per il rinnovo dei consigli regionali di Emilia Romagna e Calabria. In primavera, poi, toccherà ad altre sei Regioni dal cospicuo corpo elettorale: Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia. Se pure il voto in Emilia Romagna ha un valore simbolico superiore, considerato il tentativo leghista di rompere la decennale egemonia della sinistra, sta di fatto che dopo la tornata elettorale di gennaio (dall’esito ancora incerto) e soprattutto dopo l’appuntamento elettorale di primavera, tutto sarà possibile. Compresa una fine anticipata della legislatura segnata dalle alterne fortune (e dai relativi ribaltoni) dei Cinquestelle. Ma queste considerazioni, pur prospettando cambi di scenario significativi, contano poco rispetto all’amara considerazione che anche in questi appuntamenti non sarà possibile effettuare una scelta elettorale che premi una forza squisitamente popolare, come pure avviene in tanti Paesi europei dove l’esperienza del popolarismo ha ancora un seguito consistente e decisivo.
Il derby politico, infatti, sarà giocato, anche in virtù della fisionomia maggioritaria del sistema elettorale regionale, fra coalizioni. E comunque fra un polo di centro-destra a formidabile trazione sovranista e un polo di centro-sinistra che sta ritrovando il suo cardine nel Pd, sempre che gli attuali inquieti alleati nel governo nazionale (Cinquestelle innanzitutto, ma anche Italia Viva e Leu) trovino le ragioni di una coesistenza che al momento, a livello territoriale, appare come un’evidente forzatura. Il caso dell’Emilia Romagna con i Cinquestelle costretti dalla base (via referendum sulla Piattaforma Rosseau) a presentarsi autonomamente, la dice lunga sulla difficoltà di una loro partecipazione ad alleanze nelle regioni.
Ma non di meno, l’unico partito che ancora conserva una memoria del popolarismo, cioè Forza Italia, è alle prese con una forte crisi di identità, oltre che con una resa dei conti interna (sempre negata e sottaciuta) attorno al ruolo del fondatore, che non promette nulla di buono per i pochi moderati rimasti in Italia. Infatti, la cifra effettiva del popolarismo italiano è stata sempre contraddistinta dalla moderazione, interpretabile sia come un farsi carico del bene di tutti (a prescindere dalla collocazione di parte) oltre che da un interclassismo in grado di smussare le tensioni sociali. Per non parlare del tentativo molte volte ben riuscito e talvolta fallito, di contemperare le esigenze del libero mercato (mitigato dalla socialità) con le esigenze di un Welfare in grado di soccorrere i più deboli (anche mediante il bilanciamento della tassazione) e di perseguire una concreta giustizia sociale. Il tutto partendo dal primato della persona, dal rispetto e dalla promozione delle libertà personali e sociali, dalla condivisione dei pregi della democrazia rappresentativa.
La verità è che, per dirla con un linguaggio forse poco politico ma comprensibile a tutti, anche i moderati italiani sono mediamente “arrabbiati”. Giusto per non usare un termine decisamente più forte. E’ come se un’autentica mutazione antropologica avesse colpito tutto il grande corpo del ceto medio italiano, autentica riserva della moderazione politica. Le ragioni sono tante e certamente non può bastare l’allarme suscitato dall’immigrazione non governata. Può esser vero in alcune zone d’Italia, ma non lo è certamente per l’intero Paese.
C’è dunque dell’altro che ha estremizzato i moderati italiani. Di sicuro l’estenuante lotta con la recessione e con l’impoverimento progressivo, oltre all’incertezza sul futuro lavorativo dei propri figli e un diffuso malgoverno. Tutto quello, insomma, che ha alimentato la domanda di un “uomo forte” rivelata dal Rapporto Censis.
Ma c’è forse ancora qualcosa di più profondo. Che va esplorato e se possibile delineato. Un indizio certamente viene dal crollo della pratica religiosa. In questi giorni, da più parti, è stata evidenziata l’immagine delle chiese vuote. In Italia i processi di secolarizzazione (linguaggio abbandonato per pudore dagli stessi uomini di fede) sembrano essere giunti a uno stato avanzatissimo, senza che si manifesti una presa di coscienza adeguata da parte dei cattolici. Ecco, il mondo cattolico ha sempre prodotto moderazione nel senso più alto del termine, ovvero come rifiuto del conflitto e ricerca del bene comune. Nulla a che vedere con il buonismo che è molto più apparentato con il politicamente corretto che con l’ansia di giustizia del Vangelo. Oggi, purtroppo, impazzano la ricerca del conflitto (anche politico) e il diffuso perseguimento del bene di parte. Della mia parte…
E’ dunque palpabile la correlazione fra il crollo della religiosità e l’inabissamento della moderazione politica. In fondo si tratta di un’essenziale questione educativa, a cui la stessa comunità ecclesiale sembra aver spesso abdicato. Ma non dobbiamo disperare, anche perché tutti noi abbiamo cognizione di uno spazio in cui popolarismo e moderazione hanno ancora dignità ed espressione. E’ l’esperienza del civismo che sempre più si fa strada nei territori e che si manifesta nella partecipazione convinta e operosa di tanti cattolici alle liste civiche, molto spesso chiamate a responsabilità di buona amministrazione. Ecco da dove, e con quali uomini e donne, il popolarismo italiano può ripartire. Dando un calcione a tutti gli “ismi” cattivi che ammorbano la vita pubblica: nazionalismo, sovranismo, giustizialismo e populismo.
Domenico Delle Foglie