L’ora del taglio per 230 deputati e 115 senatori è giunta. Il disegno di legge di riforma costituzionale è giunto al termine; infatti, con l’approvazione da parte della Camera, l’8 ottobre scorso, il Parlamento ha dato il via libera ad una riforma costituzionale che al momento potremmo definire pasticciata, vale a dire il taglio lineare del numero dei senatori (da 315 a 200) e dei deputati (da 630 a 400) mantenendo al contempo il bicameralismo perfetto.
La legge di revisione costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, è stata approvata in meno di un anno (per l’esattezza un anno meno due giorni, l’iter, infatti, è stato avviato, con una discussione sull’ordine dei lavori in Commissione Affari Costituzionali del Senato, il 10 ottobre 2018) e in occasione della sua quarta lettura alla Camera l’8 ottobre 2019 ha avuto un appoggio che potremmo definire “bulgaro”, mentre nella terza lettura al Senato avvenuta 11 luglio, prima della crisi imperfetta, non aveva raggiunto il quorum dei due terzi necessario per evitare il referendum confermativo.
Due, almeno nelle intenzioni dei grandi sostenitori, le motivazioni di questa riforma: ridurre il numero dei parlamentari per risparmiare e rendere i lavori parlamentari più snelli ed efficienti.
La prima motivazione viene giustificata col fatto che l’Italia ha il più alto numero di parlamentari eletti tra tutti i Paesi europei (945), ma si omette di dire che tutti questi Paesi hanno una sola Camera politica di natura elettiva, con un numero di deputati analogo a quello italiano (Gran Bretagna 650, Francia 577, Germania 709 in questa legislatura) mentre in Senato siedono rappresentanti delle entità territoriali con funzioni diverse da quelle della Camera.
Per quanto riguarda la snellezza dei lavori, inutile negare che quella dipende dalla razionalità dei regolamenti, a meno che si punti a un minor numero non di emendamenti ma di idee e di approcci ai problemi.
Piuttosto ad oggi si può constatare, non senza preoccupazione, che la sforbiciata così forte di eletti renderà complicato il funzionamento degli organismi bicamerali (vigilanza Rai, Copasir e antimafia), che avranno difficoltà a riunirsi.
Considerata in sé, come punto di inizio della nuova stagione del riformismo istituzionale, la riduzione del numero dei parlamentari non è affatto sbagliata. L’Italia si caratterizza a tutt’oggi per il Parlamento “elettivo”, se considerato nel suo insieme, più numeroso in Europa, e non tanto per scelta esplicita del Costituente, quanto soprattutto a causa della crescita della popolazione registratasi negli anni Cinquanta e di cui la legge costituzionale n. 2 del 1963 prese atto, stabilendo un numero fisso di parlamentari.
È facile, invece, rilevare che le ragioni in nome delle quali la misura in questione è stata propugnata e portata avanti sono tutt’altro che condivisibili; e, anzi, appaiono per più versi minacciare, se estremizzate, i fondamenti della democrazia rappresentativa e della stessa fiducia nelle istituzioni. Non è in nome delle accuse alla “casta” e della riduzione dei “costi della politica” che si può intraprendere una seria azione di revisione del nostro assetto istituzionale.
Ad ogni modo, come spesso accade per le riforme costituzionali, il giudizio sulla riforma dipenderà per larghissima parte dalla sua attuazione. In questo caso, invero, pure dalla sua “integrazione” con il già ricordato abbassamento della soglia per esercitare l’elettorato attivo per il Senato. Ma anche e soprattutto dalla sua attuazione con una nuova legge elettorale che, secondo gli intendimenti della maggioranza, dovrebbe presto seguire.
Molto dipenderà, infine, dalla revisione dei regolamenti di Camera e Senato che una così drastica riduzione dei parlamentari indubbiamente richiede. Le opzioni di fondo contenute nei regolamenti di Camera e Senato, risalenti peraltro al 1920 nella loro impostazione di fondo e al 1971 nella loro architettura, in tema sia di organizzazione (si pensi ai gruppi, alle commissioni permanenti e bicamerali), sia di funzionamento delle Camere (basti pensare ai vari quorum, ma anche alla distribuzione dei carichi di lavoro), vengono ad essere poste profondamente in crisi da un mutamento siffatto. L’intento, in più sedi dichiarato, di riqualificare l’attività parlamentare esige che queste opzioni di fondo si rimeditino in profondità.
Ma nella giornata dell’8 ottobre 2019, che il Movimento 5 Stelle ha definito storica c’è molto di più, infatti tra 11 luglio pre crisi e ottobre 2019 post crisi si evince un cambiamento sostanziale di atteggiamento da parte del centro sinistra, che oggi sostiene il Conte 2.
PD, Leu e Italia Viva su questa riforma hanno fatto una plastica inversione ad U; perché l’approvazione definitiva e nel più breve tempo possibile del taglio dei parlamentari è stata posta come unica condizione da parte di M5S per far nascere il nuovo esecutivo, ed è stata quindi inserita nel Programma di Governo al punto 10, ripetuto in aula di Camera e Senato dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel discorso per la fiducia il 9 settembre.
Il nocciolo politico non è da sottovalutare perché se come riferito da Franceschini in un’intervista al Corriere della Sera la scommessa del Pd e del centrosinistra su un governo con M5S riguardava due obiettivi: arrivare al 2022 per poter eleggere insieme il nuovo Presidente della Repubblica (la cui elezione in caso di urne anticipate e vittoria della Lega sarebbe stata messa in mano di Matteo Salvini), e “istituzionalizzare”, per così dire, il Movimento 5 Stelle ad oggi appare quasi che il secondo obiettivo sia fallito.
È ineludibile una domanda: la sinistra riformista di governo sta compiendo una ritirata tattica sulle riforme istituzionali, oppure anziché “costituzionalizzare” M5S, si farà rubare l’anima e diverrà populista anche essa?
Lo stesso giorno dell’approvazione definitiva della riforma, mentre Pd, Leu e Italia Viva si affannavano a sottolineare l’importanza delle altre tre riforme di contorno e della futura legge elettorale, il capo politico di M5S Luigi Di Maio, ha parlato di “taglio di poltrone”, secondo il più triviale vocabolario dell’antiparlamentarismo, e ha rilanciato l’introduzione del vincolo di mandato, vietato dalla nostra e dalle altre Costituzioni liberaldemocratiche europee.
Riusciremo ad evitare il sacrificio della nostra democrazia liberale?
Non è un allarmismo eccessivo perché non facendosi prendere troppo sul serio il M5S, è riuscito a far passare un voto (con modalità quantomeno nebulose e discutibili) sulla piattaforma Rousseau di proprietà della famiglia Casaleggio, in un momento molto delicato per le istituzioni.
Quello che agli occhi dei più è sembrato più un rito che una forma di democrazia diretta, ha evidenziato tutta l’inettitudine della piattaforma virtuale che dovrebbe decidere e organizzare tutto. Ma a destare allarme dovrebbe essere il fatto che per la prima volta l’iter delle consultazioni e la nascita di un nuovo Governo sono rimasti appesi al filo della decisione del web, seppur dall’esito piuttosto scontato.
Forse a salvare la nostra democrazia non saranno opposizioni attente ed opinione pubblica incidente ma l’inadeguatezza stessa del Movimento 5 Stelle.
Fausta Tinari