La pandemia in atto diffusasi dalla Cina con una eccezionale velocità nel globo ed in particolare negli USA ed in Europa ha aperto tre fronti.
Il primo, quello sanitario, è stato di più immediato impatto. Certamente il più drammatico. La insidiosità del Covit 19 con la sua elevatissima capacità di contagio e l’inesorabilità della evoluzione hanno messo in difficoltà l’organizzazione nosocomiale; solo per il grande sacrificio degli operatori sanitari e una adeguata flessibilità delle strutture, l’Italia è potuta intervenire con sufficiente efficacia. Sul piano degli aspetti umanitari, poi, drammatica è stata la impraticabilità di quei modi di accompagno che il costume civile e religioso ha praticato fin dalla apparizione dell’uomo, cioè la vicinanza nella separazione e i riti religiosi.
Il secondo fronte che, per gli effetti della malattia, graverà più a lungo sulle popolazioni è quello economico. Le decisioni che hanno limitato gli spostamenti in quasi tutti gli Stati colpiti, produrranno anche oltre l’immediato, una netta riduzione dell’attività produttiva e del lavoro, degli scambi internazionali, delle stesse relazioni sociali. L’insicurezza che il virus ha introdotto nelle società colpite avrà effetti negativi anche a lungo o, quantomeno, a medio termine. I provvedimenti degli Stati per sopperire sul piano sociale alla ridotta attività ed ai danni connessi appaiono di differente immediatezza e consistenza. Anche in questa circostanza gli USA sono apparsi capaci di una “potenza di fuoco” in grado di intervenire direttamente, mentre l’Europa che paga il mancato progresso della sua integrazione politica, si è divisa e solo dopo qualche incertezza e contrasto, ha trovato una positiva risposta unitaria.
Oltre questi aspetti sui quali si è sviluppata una larga informazione che ha visto scendere in campo oltre alla politica, anche la comunità scientifica e l’intelligenza economica, vi è un “terzo fronte” che, invece, non viene adeguatamente considerato.
Il distanziamento sociale costituisce il cardine dei provvedimenti adottati. Esso, definito il “grande lockdown” è di per sé l’evidenza di una crisi senza precedenti. E’ stato considerato ampiamente sotto il profilo dell’utilità e della necessità rispetto al rischio epidemico, ma non nelle sue implicazioni sociali. Presenta due aspetti: il primo, quello relativo alla riduzione della modalità comunitaria con la quale si svolgevano le attività lavorative, scolastiche, commerciali, sociali in genere. Si è determinata una svolta individualista, ove perfino lo stare a casa non consente una completa frequentazione familiare, pensiamo a figli e genitori non conviventi e non frequentabili. Questa impossibilità dello “stare insieme”, produce un secondo aspetto: quello dello sviluppo di comunicazioni via telematica che ha conosciuto una crescita esponenziale senza precedenti, non solo legate ad attività riconvertite per utilità come quelle scolastiche o dello home working, ma anche quella della semplice comunicazione interpersonale.
Si tratta di una combinazione rilevante che può incidere sul modo di vivere di una comunità e che riguarda in primis i cosiddetti corpi intermedi che ne rappresentano le fondamenta. E’, infatti, un vulnus della socialità e della partecipazione. Ma come se ne esce?
La nomina di Vittorio Colao come manager che guiderà la fase2 dell’emergenza Coronavirus, sembra individuare nella esaltazione del digitale la via di uscita. C’è il rischio che i sistemi telematici sostituiscano radicalmente le tradizionali modalità commerciali, educative, di partecipazione sociale. E’ in arrivo il regno del “like” e dell’acquisto “online”.
Il compito affidato all’ex amministratore delegato di Vodafone - impresa notoriamente a favore del 5G - oltre a coinvolgere non lievi aspetti riguardanti le prospettive stesse delle strategie internazionali sulle tlc, del mondo digitale e dei media, configura un’azione di carattere generale, non solo economica, ma dei modi del vivere. Lo stesso Conte ha spiegato che il manager bresciano interverrà per “modificare le logiche del lavoro sin qui consolidate, di ripensare alcuni radicati modelli organizzativi di vita economica e sociale”. Saremo di fronte a indicazioni di esperimenti di ingegneria sociale su base digitale per indurci ad un suo uso più generalizzato. Si entrerà nel campo della sfera della persona e del suo modo di relazionarsi.
Ora questa è materia che chiama in campo anche quello che Joseph Nye - professore alla Kennedy School of Government dell’Università di Harvard - definisce il rapporto tra l’“autoritarismo digitale e democrazia”, come spiega in un suo recente articolo pubblicato su Aspenia, ove rileva come negli USA il contrasto alle “armi cibernetiche” e le politiche di cyber hygiene, non sia sufficiente e debba essere “incrementato”. Una preoccupazione: l’Italia e per essa il Governo, affronta questa fase senza la più pallida idea, né alcuna capacità di difesa e di resilienza interna, finalizzate alla verifica e al contrasto delle possibili deviazioni autoritarie della “sovranità digitale”.
Non possiamo accettare che si esca dal coronavirus con un mondo ove vengano cancellate le relazioni dirette e primarie, nel quale la comunità ne uscirebbe impoverita. Sarebbe il caso che sugli indirizzi operativi per la fase due, sugli intendimenti del commissario appena nominato e le possibili implicazioni internazionali si apra un dibattito nella sede propria ove si decidono queste cose. Cioè il Parlamento. Diciamolo in inglese, per non passare da provinciali: “It is the democracy stupid”.
Pietro Giubilo