“«Fratelli tutti»,[1] scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo [...] egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui». Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita”. Inizia così la nuova enciclica sociale “Fratelli tutti” di Papa Francesco, lettera enciclica “sulla fraternità e sull'amicizia sociale”, un inizio che detta il tenore del messaggio che il Santo Padre rivolge a tutti.
L’enciclica arriva in un momento di profonda incertezza, quando il saliscendi della pandemia, che non risparmia i potenti o i simboli di questo mondo, sembra colpire con rinnovato vigore. Non è possibile leggere le parole di Papa Francesco senza avere nello sguardo le immagini del Santo Padre che, durante l'ultima Via Crucis, affida tutto il dolore del mondo al Crocifisso in una piazza San Pietro deserta e sferzata dalla pioggia. Quelle immagini donano una forza particolare alle parole dell'enciclica, un'enciclica dirompente, complessa nei contenuti eppure così semplice nella sua essenzialità. Questo grande messaggio sociale che prende spunto dalle parole e dalla vita del Santo di Assisi - che si richiama esplicitamente al “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza” del 2019 e firmato con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, che mette a nudo le contraddizioni del mondo moderno che la pandemia in qualche modo ha reso più esplicite - è un inno all’universalità dell’amore fraterno, un amore che deve essere capace di ravvivare la vita sociale e politica, di plasmare le istituzioni.
Se molte e oscure sono le ombre che permangono - dalla cultura dello scarto alla violazione dei diritti umani, dalla paura dell'altro alle varie forme tutte moderne di violenza nella comunicazione - la speranza non è un miraggio, ma qualcosa che possiamo già sperimentare com’è avvenuto in molte circostanze durante la pandemia, perché “Dio infatti continua a seminare nell'umanità semi di bene”. Il nostro sguardo verso “l'estraneo sulla strada” non è un atteggiamento moralistico, ma la posizione che detta la nostra presenza nel mondo, che genera, o meno, una società aperta, capace di abbracciare l'altro, le sue ferite, di promuovere il bene per i più deboli, di accogliere i migranti, di lottare per la pace.
In questa enciclica colpisce il modo in cui il Papa parla della politica, alla quale dedica un intero capitolo, il modo in cui le restituisce dignità e valore. Forse, è questa la parte che più sorprende, perché non siamo abituati a sentire parlare della politica con questa passione e con questo rispetto, non siamo abituati a sentire parole importanti accostate alla politica. Invece, Papa Francesco non ha paura di usare concetti come “tenerezza”, “gentilezza”, “carità”, “perdono”, persino “amore”, che il nostro mondo cinico e triviale ha ridicolizzato.
Il Papa è ben consapevole dell'importanza del ruolo della politica e delle manipolazioni a cui può essere sottoposta, come quando in modo chiaro egli slega il concetto di “popolo” dall'ideologia populista, oppure quando smaschera il liberismo o la tecnocrazia. Queste difficoltà non devono essere degli impedimenti, ma devono aprirci ad un dialogo profondo, consapevole delle difficoltà, ma che sia animato dal sincero interesse per l'altro, dal sincero desiderio di poterlo incontrare e conoscere.
Questa enciclica è molto profonda e complessa, perché tiene insieme diverse dimensioni della vita dell’uomo, mostrandone i legami, e soprattutto perché chiede a ciascuno di noi una conversione, la capacità di volgere lo sguardo verso un cammino apparentemente duro - Papa Francesco mostrando l’essenzialità del perdono non ne nasconde le difficoltà -, ma che in realtà è estremamente desiderabile. Di fronte ad un messaggio come questo, la questione non è farne l'esegesi, ma lasciarsi provocare da esso e, possibilmente, non restare più quieti.
Giovanni Gut