Da alcuni giorni il nostro Paese, in particolare la Lombardia e le regioni settentrionali, è stretto nella morsa della paura per il contagio da coronavirus. Ci siamo svegliati, all'improvviso, in un mondo diverso da quello che conoscevamo, in una realtà in cui le nostre piccole certezze sembravano crollate. Su ogni semplice gesto come fare la spesa, andare allo stadio o al cinema, addirittura partecipare alle celebrazioni liturgiche, è improvvisamente scesa una coltre di dubbio e di timore. Dubbio e timore accresciuti ad ogni aggiornamento dei media sulla diffusione del contagio ed amplificati dalla ridda di voci sui social. Abbiamo assistito a scene ingiustificate di panico: lunghissime code nelle farmacie; supermercati presi letteralmente d'assalto (alcuni di essi hanno mandato un messaggio ai propri clienti facendo sapere che non sarebbero diminuite le scorte di cibo); comportamenti psicotici tra le persone; strade solitamente trafficate ormai quasi deserte.
Eppure, lentamente, si sta cercando di trovare una nuova normalità in questo contesto che normale non è, si sta cercando di far prevalere il buon senso di fronte le paure che ci assalgono. Questa è forse la prima questione che l'emergenza del coronavirus sta facendo prepotentemente emergere, ossia se la vita è definita dalle nostre paure oppure da qualcosa d’altro. Possiamo scegliere se essere determinati dalle nostre paure, dal timore dell’altro visto come potenziale portatore di un male invisibile, possiamo scegliere se vivere nell’attesa che qualcosa di brutto possa accadere, possiamo scegliere di chiuderci in noi stessi o abbandonarci a comportamenti superficiali ed irresponsabili (due facce della stessa medaglia). In fondo la paura è un istinto profondo, utile, da non censurare, è un istinto che appartiene alla nostra parte animale. Ma noi non siamo animali.
Allora possiamo scegliere di vivere in modo diverso, di viveri liberi dalla paura, nella consapevolezza di attraversare un momento difficile che richiede la responsabilità di tutti. La prima è quella di attenersi, sopportando qualche piccolo disagio, alle indicazioni delle istituzioni per limitare il contagio, di comportarsi in modo corretto nei confronti degli altri e di se stessi. Allo stesso modo è importante continuare a vivere e andare oltre quell’inevitabile sensazione di attesa, di “vita sospesa” che coglie un po' tutti noi. Così è necessario che ci sia continuità, pur con le dovute accortezze, nei servizi alle persone, nelle attività commerciali, nelle varie attività lavorative: si sta giocando una partita importante per il futuro del nostro Paese, della sua economia, della tenuta del suo tessuto produttivo, e alla fine rischieremo di misurare la “non speranza” a percentuali di PIL perdute.
Un altro aspetto importante è il ruolo che stanno svolgendo gli enti locali, siano essi regioni o comuni. Non si tratta solamente di una questione di suddivisione delle competenze rispetto al potere centrale, ma della realizzazione del principio di sussidiarietà, che in questo caso vede il protagonismo degli enti più vicini alle persone. Si tratta di una questione cruciale perché in situazioni delicate come queste, in cui ci sono in ballo sia la salute che le libertà personali, la condivisione con le persone, la possibilità di confronto con i cittadini e di farsi carico delle difficoltà e delle speranze di una comunità permette di superare molti problemi e di rinsaldare i legami di solidarietà. Emerge così il ruolo decisivo del territorio anche in una questione globale come quella del coronavirus.
In questi giorni si sprecano i (giusti) appelli a comportarci come un comunità, nella (giusta) consapevolezza che potremo venire a capo di questa situazione solo attraverso l'impegno di tutti. Dopo tanta retorica contro i corpi sociali, alimentata il più delle volte da una politica irresponsabile, e dopo tanta retorica sulla supremazia dell’individuo, è bello constatare come di fronte ad un’emergenza vera si riscopra il concetto di comunità, si metta al centro il bene comune. Sarebbe ancora più bello se questa visione di bene comune non venisse tirata fuori durante le emergenze, ma fosse la trama normale dei rapporti e della società. Perché di fronte ad atteggiamenti psicotici o semplicemente egoistici che potrebbero danneggiare tutti noi, non ha valore alcuno il richiamo moralistico ad un bene più grande, ma bisogna mostrare quel bene, far vedere che esiste, che già c'è, bisogna essere educati a saper dove guardare. Alla fine di tutta questa storia, forse, ci scopriremo più comunità.
Giovanni Gut