Da sempre eccessivamente interessato al tema degli schieramenti e assorbito dall’andamento dei sondaggi elettorali, il confronto tra le forze politiche e nei media tende a ignorare il significato dell’appuntamento di settembre per il voto confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari che si svolgerà unitamente al rinnovo di cinque assemblee regionali e dei relativi governatori.
Eppure, nella difficile condizione in cui versa il rapporto tra elettorato, partiti e istituzioni, l’adeguatezza del sistema politico e degli organi rappresentativi dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni e delle valutazioni delle forze politiche e non solo.
La fiacchezza del confronto sotto il profilo della cultura politica la si evince dalle stesse argomentazioni sostenute dai favorevoli al taglio dei parlamentari, indicate nel risibile risparmio o nell’ipotizzato, ma indimostrato, miglioramento della qualità dei parlamentari dovuto, come per magia, alla sola riduzione del numero.
Per la verità il professor Sabino Cassese, nel suo recente libro-intervista (“Il buon governo. L’età dei doveri”), rileva che le superficiali motivazioni ne nasconderebbero “un’altra, inconfessata: non ridurre i parlamentari, ma ridurre il Parlamento (già all’Assemblea costituente venne osservato che, quando si vuole ridurre l’importanza di un organo, si comincia con limitarne il numero dei suoi componenti)”. Alla base permane una scriteriata e superficiale indicazione di democrazia diretta - caratterizzata da modesti plebisciti di “democrazia elettronica” - contrapposta alla democrazia rappresentativa, elemento fondamentale della Costituzione. La cattiva politica messa in campo da alcuni parlamentari, anche di recente, certamente non si cura con l’antipolitica e l’antiparlamentarismo. Il Costituente fu esplicito nell’idea di rappresentanza da radicare definitivamente nel Paese con un sistema parlamentare. Non vi possono essere vie traverse e dissimulate per intaccare tale principio costituzionale.
Anche l’argomento, più sensato, basato sulla riduzione del lavoro parlamentare per il diffondersi di un policentrismo decisionale con l’istituzione delle Regioni non coglie l’aspetto decisivo. Se è pur vero che rispetto al tempo dell’Assemblea costituente sono entrati nel sistema istituzionale circa 900 consiglieri regionali, ai parlamentari è affidata, a ben vedere, oltre la rappresentanza complessiva, la funzione del controllo dell’Esecutivo con la necessità, come è stato rilevato, di “far sentire la voce del Paese nello Stato e bilanciare i diversi interessi”. Si tratta della principale e infungibile funzione della rappresentanza politica democratica. Ora, con meno parlamentari, è stato calcolato che alcune regioni avranno un numero esiguo, soprattutto nell’ambito della “Camera Alta”, mentre prevarranno ancora di più le scelte delle segreterie dei partiti nell’indicare e far eleggere i parlamentari. Alcuni studi sugli effetti della riduzione, congiunti al sistema misto dell’attuale legge elettorale, indicano che il combinato disposto produrrebbe “una distorsione della rappresentanza politica perché le regioni e le aree più popolose saranno inevitabilmente avvantaggiate rispetto alle aree meno abitate, specialmente rispetto a quelle interne” (Francesco Clementi, docente di diritti pubblico comparato).
Vi è un altro argomento che dovrebbe far riflettere circa il peso del Parlamento nel sistema politico e il possibile venir meno del numero dei suoi componenti ed i riflessi che si determinerebbero, ad esempio, nel lavoro delle commissioni, non solo in sede referente. Da tempo si assiste al fatto che sono i governi a promuovere e attuare la formazione delle norme. Con un possibile minor peso delle assemblee legislative verrebbe a restringersi ancora di più tale funzione parlamentare. A questo proposito sarà necessario approntare ed esaminare una revisione dei regolamenti delle Camere, sia con riferimento alla formazione e strutturazione dei gruppi parlamentari, sia sull’organizzazione dei lavori a partire dalle commissioni.
Quello che preoccupa è l’indifferenza rispetto ai problemi che la normativa determinerà sulla funzionalità del sistema democratico e sulla qualità della rappresentanza. Si ha netta la sensazione che la probabile conferma delle norme approvate costituisca, in definitiva, come è stato rilevato, un passo in avanti verso un “maggior tasso di oligarchia”, nel senso che si affermi un antiparlamentarismo che si tradurrà nella possibilità che il Paese venga governato da un numero ridotto di persone. Già la pandemia ha fatto inflazionare l’uso di uno strumento normativo, il Dpcm, di dubbia costituzionalità e di eliminazione del controllo a priori da parte del Presidente della Repubblica, custode della Costituzione.
Vi è un altro aspetto che mostra l’insufficiente consapevolezza dei riflessi istituzionali connessi al destino della norma dopo il referendum. Il Pd ha orientato la sua posizione e, addirittura, il voto in Parlamento, soprattutto per ragioni di convenienza politica. Il partito di Zingaretti, dopo aver votato contro in precedenza, soltanto nell’ultima votazione ha deciso di appoggiare la proposta, in nome della conferma dell’accordo governativo con il partito di Grillo, nato dalla rottura di Salvini, abbandonando di fatto la sua tesi principale che si esprimeva in un indirizzo che legava la possibile riduzione dei parlamentari alla necessità, e in presenza di una più complessiva riforma costituzionale, del cambiamento della attuale legge elettorale. Infatti, c’è da sottolineare che la questione del numero dei parlamentari, in passato, è stata dibattuta soprattutto nell’ambito delle varie iniziative parlamentari circa una revisione della seconda parte della Costituzione, quasi mai al di fuori di questo logico contesto.
Da queste riflessioni possiamo ritenere che il risultato del referendum del 20 settembre e la probabile conferma del “taglio”, in quanto tali, anche per le scelte di una parte dell’attuale opposizione, non produrranno alcuna soluzione realmente utile al Paese ed al suo sistema istituzionale. In buona sostanza, esso è chiamato a decidere su un falso problema. Ridurre il confronto al tipo di scelta tra il Sì o il No, non aiuta il Paese a comprendere la difficile condizione nella quale si trova. Anzi, è destinato ad alimentare il mito e la dialettica dell’antipolitica che costituisce il terreno fertile del populismo di ogni genere che non riguarda solo le forze politiche cosiddette “sovraniste”.
La questione reale del Paese riguarda da tempo la necessità di affrontare il tema della rappresentanza.
Il Movimento Cristiano Lavoratori da alcuni anni sostiene con iniziative specifiche e seminari formativi - anche l’Assemblea preparata a febbraio, poi annullata a causa del Covid - che hanno visto la partecipazione di centinaia di amministratori locali e quadri dirigenti, che occorra “ricostruire la rappresentanza”, partendo dalle realtà ove essa si realizza più immediatamente, cioè dagli enti locali, per recuperare il necessario rapporto partecipativo, carattere essenziale delle istituzioni democratiche. Si devono altresì offrire spazi e sostegno ai corpi intermedi, ai quali il Paese deve ricorrere per dare senso e stabilità alla sua condizione sociale. Ed anche per recuperare quella capacità di intermediazione, senza la quale le istituzioni finiscono per disattendere gli interessi primari e non offrire punti di riferimento. Queste sono da sempre le linee politiche ed i programmi dei cattolici impegnati nel sociale, in una tradizione, quella popolare, che resta un apporto essenziale per affrontare e conseguire obbiettivi storici: dall’unità politica europea alla difesa e al rafforzamento di una democrazia partecipata.
I tentativi, sempre ricorrenti, di realizzare una governabilità mai pienamente conseguita, a prescindere dalla rappresentanza, hanno percorso l’ingannevole via della continua modifica dei sistemi elettorali, che hanno sempre più ridotto la scelta degli elettori, mentre si è andato accelerando il logoramento di quegli organismi che una avveduta cultura democratica aveva definito come “Costituzione materiale” del Paese, cioè le forze politiche, divenute macchine elettorali con molte singolarità e pochi voti.
Auspichiamo che con questo referendum si chiuda la stagione dei falsi obbiettivi, delle grida protestatarie e delle istituzioni senza popolo. E recuperare un pensiero costituente.
Pietro Giubilo