In un importante, recente, editoriale Ferruccio de Bortoli afferma che il Paese “tornerà a crescere” soprattutto “se si avrà cura del capitale umano”. A parte il sostantivo al quale preferiamo il termine “fattore”, ci sembra che l’ex direttore del Corriere della Sera abbia centrato il problema.
Priva di materie prime e di grandi capitali, con aree del centro-sud decentrate rispetto al cuore delle forti concentrazioni produttive europee, l’Italia, nel corso della sua storia contemporanea, ha saputo costruire una prospettiva industriale che l’ha sollevata dalle conseguenze dell’ultima guerra e l’ha vista crescere tra “miracoli”, fino ad approdare al ristretto club dei grandi dell’economia mondiale.
Fu il risultato di un insieme di elementi basati sulle capacità del popolo italiano di creare lavoro, di coinvolgere nella politica classi dirigenti di pregio e di elaborare piani di priorità, con un struttura amministrativa adeguata e un sistema universitario in grado di formare nelle facoltà tecniche e umanistiche giovani preparati dei quali molti affermatisi all’estero. Determinante, come dire, fu il fattore antropologico.
Una prima riflessione sulla ripresa di allora, di particolare attualità, ci induce a ricordare come l’uso delle risorse del piano Marshall fu volto, come ha scritto Vera Zamagni, a “privilegiare gli investimenti nell’allargamento della capacità produttiva italiana (acciaio, elettricità, meccanica, raffinazione del petrolio, chimica) e la modernizzazione delle infrastrutture”. L’Italia, cioè, accolse il sostegno americano accompagnandolo con un strategia industriale nella quale operavano aziende pubbliche che, come spiegò nel 2012 Ettore Bernabei a Pippo Corigliano “non erano organismi statali, ma società per azioni, possedute da un ente economico di Stato (come l’IRI) che perseguiva scopi di interesse pubblico”. “Le Partecipazioni statali”, precisava l’ex presidente di Italstat “non seguivano i rigidi criteri della pianificazione socialista, bensì quelli del bene comune degli imprenditori, dei prestatori d’opera, dei consumatori”. Come ha sostenuto Dario Di Vico: “la ricostruzione del secondo dopoguerra, a suo modo rappresenta, il modello virtuoso di patto tra il pubblico e il privato che l’Italia ricordi”, frutto, citando Giuseppe Berta, storico dell’impresa, “di competenze gestionali moderne come la vecchia intellighenzia nittiana o la componente cattolica”, sopravvissute al ventennio, anche se, purtroppo, oggi, “rispetto ad allora la nostra macchina statale è messa molto peggio”.
Non mancò un elemento psicologico e culturale trainante e cioè la convinzione che l’Italia, pur nascendo come Paese povero, fosse tuttavia in grado di accedere ad una condizione migliore, grazie alla innata dedizione e forza di volontà e per la qualità delle proprie capacità lavorative.
Quella strategia di sviluppo, insieme al decisivo apporto del “fattore umano”, produsse un sistema di imprese che, oltre al tradizionale triangolo industriale, si diffuse nelle regioni del Nord-est e nel Centro, fino alle zone di sviluppo agricolo del Meridione, il tutto basato su aziende legate al territorio di piccole e medie dimensioni che mantenevano una relazione con la ruralità e che diede vigore alle città di piccola e media dimensione. Non si puntò solo sulla grande industria e i cosiddetti poli di sviluppo. Si ottenne, infatti, la crescita industriale e la preservazione del pluralismo produttivo, a conferma di un valore storico dell’Italia, cioè la sua molteplicità. Come ha scritto il già citato Giuseppe Berta, in un saggio del 2016 sulla crisi del “capitalismo italiano”, questa articolazione imprenditoriale “è quanto di meglio l’Italia può esprimere, attingendo alle sue risorse, sociali e territoriali e alle sue tradizioni produttive, traendo tutto il possibile dai suoi fattori costitutivi a cominciare dall’imprenditorialità e dalla forza lavoro, due entità che si intrecciano tra loro”.
La costruzione tipicamente italiana di questa realtà ha confermato che sono possibili forme di iniziativa imprenditoriali nelle quali ancor più dei capitali contano le persone. Ancora Dario Di Vico non molto tempo fa ha giustamente sostenuto che nel sistema economico italiano: ”la fabbrica tradizionale si è trasformata nel tempo in un rete in cui viene esaltato il contributo di singole persone, della fornitura, dell’ideazione e del brand”.
Il decisivo legame con il territorio ne è un elemento connaturato e dinamico. Tra il 2008 e il 2014, cioè a cavallo dell’ultima crisi, le imprese dei distretti hanno visto crescere il loro fatturato del 10 per cento, mentre quelle non identificabili con i sistemi distrettuali, sono cresciute solo del 4,1 per cento.
Ora nel costruire un piano industriale attualmente assente nella strategia del governo, dopo gli interventi di natura assistenziale, tardivi e poco rassicuranti, nel passare alla fase propiziatrice della ripresa, per la quale sarà necessario disporre quanto prima anche delle risorse europee, l’obbiettivo primario deve essere quello di sostenere ed estendere la realtà dinamica dell’economia reale delle medie aziende che si sono già dimostrate, negli anni difficili tra il 2008 e il 2015, di eccellente vitalità. Questa economia reale dei distretti richiede una conoscenza dei territori ed una valorizzazione delle peculiarità, con le loro esigenze infrastrutturali anche nel digitale, per le quali è necessario un rapporto ed un coinvolgimento degli enti locali. Se l’impegno solidale dell’Europa richiama concettualmente il Piano Marshall, ora, come allora, occorrono investimenti e una strategia industriale.
E’ indispensabile impedire che la crisi del post coronavirus produca effetti di destrutturazione dell’Italia produttiva. La Cgia di Mestre ha posto l’accento sul rischio che senza una ripresa l’Italia “alla fine del 2020, perderà 100 mila dei suoi artigiani”, oltre che migliaia di piccoli commercianti e di lavoratori autonomi, per mancanza di credito e per la caduta dei consumi e il crollo degli acquisti. E ciò produrrà l’impoverimento delle aree urbane.
Occorre intervenire, per tempo, anche sulla base delle esperienze passate. Fabrizio Pezzani, docente di programmazione e controllo nelle pubbliche amministrazioni, membro del comitato scientifico della fondazione Centesimus Annus, analizzando a suo tempo le necessità per una ripresa economica non contingente, dopo la crisi del 2008, ne indicava le esigenze primarie, di particolare attualità, nelle quali il fattore umano appariva fondamentale. Ne diamo una sintesi: un disimpegno dalla finanza speculativa; l’affermazione del ruolo dell’artigianato legato alla creatività italiana che attragga i giovani; favorire l’orientamento negli studi universitari verso quelle facoltà di preparazione aziendale che favoriscano logiche di lungo periodo e non l’immediatezza dei dividendi; incentivare la costituzione di reti di impresa - secondo il modello distrettuale - con l’obbiettivo di valorizzare l’azienda del territorio che possiede forme di aggregazione sociale e di solidarietà; sostenere direttamente le realtà aziendali valide, evitando quegli interventi finanziari, spesso temporanei, veicolati dal mercato, da parte di soggetti lontani per cultura e finalità; progettare insieme agli enti locali il futuro dei territori nel rispetto delle tradizioni millenarie che poi rappresentano l’essenza delle eccellenze del made in Italy; articolare nelle scuole e nelle università un rapporto tra i giovani e quella imprenditorialità che ha saputo sfidare e vincere la recessione, con la giusta considerazione di quei valori che sono a base di un vivere sociale solidale e costruttivo.
Le risorse in termini di esperienza e di competenza possono giungere, nella crisi della politica, da quei corpi intermedi capaci di aggregare interessi reali e individuare gli obbiettivi. Fondamentale per un percorso del genere resta la convinzione che l’Italia possegga quella che Aldo Bonomi e Giuseppe De Rita definiscono “una operosa società di mezzo” e la determinazione a riprendere a “camminare per territori”, al fine di evitare il rischio esiziale che si presenta all’Italia del dopo Covid 19.
Pietro Giubilo
Vicepresidente Fondazione Italiana Europa Popolare