PREMESSA
Rivolgo il mio saluto a tutti i partecipanti al decimo Congresso nazionale MCL. Per la nostra organizzazione è un evento molto importante e perciò siamo grati a tutti coloro che oggi hanno accettato l’invito ad essere presenti.
Cari amici, siamo arrivati all’ultima fase del percorso congressuale che in questi mesi ha visto il Movimento impegnato in un dibattito attento, ricco, complesso, interessante e stimolante.
E’ stato un dibattito vivace, propositivo, inquadrato nella ricerca e nella riproposizione dei valori e degli ideali che da oltre trent’anni ci contraddistinguono.
Abbiamo vissuto dei mesi intensi e interessanti, ci siamo arricchiti e siamo cresciuti: nella mente e nel cuore. Nella mia relazione non toccherò tutte le questioni affrontate nelle tesi e che pertanto vengono assunte come parte integrante della relazione stessa, ma soltanto alcuni aspetti della complessa realtà sociale, politica ed economica, nella quale siamo chiamati a vivere, per testimoniare una presenza nel segno di una rinnovata fede nei grandi valori che scaturiscono dalla Dottrina Sociale della Chiesa e dagli insegnamenti del suo magistero.
LA DIMENSIONE UNIVERSALE
DEL LAVORO
Il lavoro per noi resta il tema centrale del nostro pensare ed agire. Ciò rappresenta l’elemento costitutivo del nostro Movimento, perché scritto in modo chiaro e facilmente decifrabile nel nostro codice genetico.
Allora desidero iniziare questa relazione con alcune domande: il lavoro separa o unisce? Il lavoro produce socialità o la distrugge? Il lavoro spinge l’uomo verso gli altri uomini o lo chiude in se stesso? Il lavoro ha una dimensione universale, oppure particolare? Per rispondere a queste semplici, ma profonde domande ci soccorre come sempre la dottrina sociale della Chiesa.
Prima di tutto perché questa ha sempre affermato che il “lavoro è una vocazione universale” (Laborem Exercens, n. 8). In secondo luogo perché queste domande nascono implicitamente dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa.
Nel Compendio si dice che l’universalità è dell’uomo e non delle cose e che ad universalizzarsi sempre di più, anche tramite il processo di globalizzazione, è la comunità umana e non la tecnica o l’economia che sono, piuttosto, cause strumentali e non fondamentali, dei processi in atto. Ma proprio qui sta il punto.
Quali sono le caratteristiche universali dell’uomo che si trasfondono nel lavoro e ad esso partecipano la propria universalità? Abbiamo bisogno di riscoprirle oggi, soprattutto se teniamo in debita considerazione i risultati di una tecnica e di un’economia che sembrano trasformare il modo di lavorare a tal punto da mortificarne la dimensione universale.
Se esiste un corto circuito tra le autentiche esigenze universalistiche del lavoro umano e gli adempimenti di una tecnica e di un’organizzazione economica che non sempre ne permettono l’espressione, su cosa occorre agire per ristabilire la norma? Cercheremo di rispondere a queste domande, partendo proprio dall’esame di alcuni elementi che oggi sembrano impedire la piena valorizzazione della dimensione universale del lavoro umano.
L’enciclica Laborem exercens, afferma che “la questione operaia ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di solidarietà tra gli uomini del lavoro e, prima di tutto, dai lavoratori dell’industria”. La reazione contro la degradazione dell’uomo come soggetto del lavoro, aggiunge l’enciclica, “ha riunito il mondo operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà”.
Questa solidarietà era uno dei principali segni dell’umanesimo universale del lavoro. Ebbene, oggi questa stessa solidarietà sembra essere sottoposta a gravi minacce proprio dall’evoluzione del mondo del lavoro, il quale sta conoscendo una notevole frammentazione ed individualizzazione. Si lavora sempre più da soli e da soli si cerca di tutelare i propri diritti e di far valere le proprie rivendicazioni.
Non si cerca più la sicurezza nella solidarietà, ma si tende a puntare quasi esclusivamente sulle proprie capacità e sul proprio spirito imprenditoriale. Le tipologie di lavoro e la stessa configurazione contrattuale e giuridica dei nuovi lavori sono oggi le più varie e prefigurano rapporti tendenzialmente sempre più allentati, elastici e flessibili tra lavoratori ed azienda.
A questa diminuzione della solidarietà dentro il mondo del lavoro nei paesi sviluppati, corrisponde anche una carenza di solidarietà tra lavoratori dei paesi sviluppati e quelli dei paesi in via di sviluppo. In molti casi parlare di crisi di solidarietà suona perfino eufemistico, dato che molti lavoratori di aree in crisi nei paesi ricchi considerano propri antagonisti i lavoratori dei paesi emergenti, in un rapporto di vero e proprio conflitto. C’è una forte concorrenza tra lavoratori delle diverse aree del pianeta, che si manifesta attraverso un diverso sistema di tutele, una legislazione del lavoro ed una politica sindacale diversificante.
Questa osservazione ci introduce ad un altro fenomeno che sembra impedire un’autentica universalità del lavoro: la disoccupazione. Anni fa si trattava della preoccupazione principale, oggi l’attenzione è invece maggiormente concentrata su alcuni fenomeni emergenti, mi riferisco, in particolare, alla mobilità, la flessibilità, la riconversione, la formazione. Lo sviluppo economico soprattutto di beni “personali” e “personalizzati”, di beni immateriali postmoderni ha creato nuove possibilità di lavoro, che però spesso conoscono costi molto alti in termini umani e familiari. Il nomadismo lavorativo e la flessibilità esasperata permettono di ridurre la disoccupazione, ma spesso creano ritorni negativi di tipo relazionale. Venti anni fa, in epoca di “posto fisso”, l’accento era posto sul dramma di perdere quel posto; oggi, in tempi di nomadismo lavorativo in cui il posto fisso di tipo tradizionale è ridimensionato, nascono piuttosto i problemi del governo della flessibilità.
Il punto di focalizzazione è cambiato.
L’universalità del lavoro entrava nelle coscienze dei soggetti economici e politici anche e soprattutto tramite la convinzione, ampiamente condivisa, che la disoccupazione è un grave male sociale, portatore a sua volta di altri mali, e che la tendenza alla piena occupazione è un obiettivo da tenere fermo e alto. Dobbiamo constatare che oggi questa consapevolezza sembra essersi affievolita e che se nessuno è disposto a dichiarare accettabile la disoccupazione, molti sembrano accettare forme di lavoro molto precario, che non si chiama disoccupazione per “convenzione” ma che è un fenomeno molto vicino ad essa.
Veniamo ora al terzo aspetto su cui voglio attirare la vostra attenzione in questa parte della relazione. Si tratta di un aspetto del lavoro molto importante per designarne il valore universale.
Mi riferisco alla famosa affermazione della Laborem exercens secondo cui “il lavoro umano è la chiave e probabilmente la chiave essenziale di tutta la questione sociale”. Noi abbiamo voluto incentrare la nostra riflessione congressuale, appunto, sul lavoro “chiave essenziale” per porre l’accento sul suo valore universale.
Oggi sembra che così non sia più. Il lavoro, al singolare sembra non esserci più. Esso sembra essere sostituito dai lavori al plurale, alla cui diversità non corrisponde più un unico status sociale.
Ciò sembra evidente dal fatto che è possibile essere ricchi senza lavorare ed essere poveri lavorando. In questo caso la partecipazione al mondo del lavoro non è in grado di favorire un pieno diritto di cittadinanza. Lo stesso dicasi per i settori informali del lavoro tanto diffusi in giro per il mondo, come opportunamente ricorda il Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Viceversa l’attività finanziaria in borsa produce altri profitti, ma è evidentemente un’attività che non rientra nel senso tradizionale di lavoro.
Questo è uno degli aspetti fondamentali. Il lavoro rischia di non essere più percepito come “chiave essenziale” della questione sociale perché ci sono molti ambiti lavorativi che non sono considerati tali e nel frattempo lavori legati alla tradizionale concezione diventano obsoleti e socialmente marginali.
E come dicevo all’inizio la solidarietà universale del mondo del lavoro, oggi sembra risentire di una certa difficoltà. Sempre meno essa potrà fondarsi sulla contiguità fisica del lavorare assieme come era accaduto ai tempi della fabbrica fordista. Sempre meno essa potrà fondarsi sulla identità di status sociale perché la diversificazione dei lavori, la loro sempre maggiore immaterialità e perfino virtualità in qualche modo decontestualizza il lavoro.
Sempre meno potrà fondarsi sulla rivendicazione collettiva perché i lavori stanno mettendo in crisi la rappresentatività del sindacato e sta contrapponendo lavoratori a lavoratori, come per esempio, quelli del settore pubblico e quelli del settore privato.
Del resto ci sono solidarietà nazionali del mondo del lavoro che contrappongono i lavoratori dei diversi Stati mentre compattano – ma solo in funzione antagonista o rivendicativa o addirittura corporativistica – i lavoratori connazionali.
Credo che la solidarietà possa essere recuperata e forse anche meglio fondata che non in passato, puntando sulla riscoperta del valore soggettivo del lavoro. In altri termini “bisogna continuare ad interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui vive”.
Oggi e nel prossimo futuro, la principale sfida alla solidarietà e quindi un umanesimo universale del lavoro, proviene dalla concorrenza tra paesi sviluppati e in via di sviluppo.
Oggi il mondo è diviso in tre fasce: quella dei paesi ricchi, che tuttavia devono affrontare la concorrenza dei paesi emergenti, soprattutto dell’oriente asiatico; quella dei paesi emergenti che con ritmo di crescita molto forti irrompono sulla scena mondiale portando anche con sé le proprie contraddizioni; e quella dei paesi più poveri che ancora non emergono dalla povertà e dal sottosviluppo.
Non si potrà mai costruire una società fondata su un vero umanesimo universale del lavoro senza che i lavoratori di queste tre fasce ritrovino una nuova solidarietà.
La dottrina sociale della Chiesa pone l’accento soprattutto sul soggetto che lavora, e così facendo, abbraccia l’umanità intera.
La dimensione relazionale del lavoro emerge con maggiore evidenza se ci si concentra sul suo senso soggettivo piuttosto che su quello oggettivo. Portando in luce l’umanità del lavoro si scopre sempre di più anche l’aspetto relazionale del lavoro stesso.
Oggi questo aspetto ha assunto una evidenza assolutamente eccezionale. Il mondo del lavoro è una realtà complessa e integrata.
Non esiste più nessun tipo di lavoro che possa considerarsi individuale. Man mano che aumentano l’importanza del sapere e dell’informazione, il lavoro si fa sempre di più collettivo. Man mano che il lavoro diventa meno manuale e sempre più immateriale aumentano le esigenze di comunicazione e quindi di relazionalità.
E’ in questo contesto che occorre collocare anche la nuova situazione del lavoro nella globalizzazione. “L’universalità – afferma il Compendio della dottrina sociale della Chiesa – è una dimensione dell’uomo, non delle cose.
La tecnica potrà essere la causa strumentale della globalizzazione, ma è l’universalità della famiglia umana la sua causa ultima. Anche il lavoro, pertanto, ha una sua dimensione universale in quanto fondato sulla relazionalità umana”. Le tecniche, specialmente elettroniche, hanno permesso di dilatare tale aspetto relazionale del lavoro a tutto il pianeta imprimendo alla globalizzazione un ritmo particolarmente accelerato. “Il fondamento ultimo di questo dinamismo è l’uomo che lavora, è sempre l’elemento soggettivo, e non quello oggettivo”. (n. 322)
LA NOSTRA EUROPA
Il MCL nasce Europeista. Il nostro impegno si è sempre inserito nel filone di pensiero degli Europeisti “storici” come De Gasperi, Schuman, Adenauer e, poi, Helmut Kohl e Giovanni Bersani.
La nostra passione per l’Europa è sempre stata forte e decisa anche per questo siamo più consapevoli della crisi che sta attraversando il processo di unificazione: preoccupati ma non remissivi, delusi ma combattivi. Anche se non era difficile immaginare che questa costituzione non avrebbe scaldato il cuore degli europei.
E’ una costituzione troppo debole, troppo fragile; una costituzione che non ha avuto neanche il coraggio di dire chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare.
E’ necessario rafforzare ancora di più i nostri rapporti internazionali: UELDC, EZA, Fondazione Schuman (anche se tanto è stato fatto in questi anni) per essere capaci di svolgere un ruolo più incisivo rispetto alle istituzioni dell’UE, le cui decisioni hanno un influsso diretto sul terreno sociale, del lavoro e dell’impresa. Tanto più importanti, perché correlate all’ingresso di nuovi dieci paesi (aspettando Romania, Bulgaria e Croazia), con i problemi che si portano dietro dopo 50 anni di regime comunista, evento che costituisce una grande occasione per dare un nuovo slancio all’integrazione europea, da realizzare lungo le direttrici di crescita indicate a Lisbona.
Il fatto che l’Unione Europea si proponga di realizzare una “società attiva” che impieghi da qui all’anno 2010 almeno il 60% della forza-lavoro femminile e il 70% di quella totale onde poter competere su scala mondiale con le economie più avanzate, nulla toglie alle contraddizioni culturali tuttora persistenti in materia di lavoro.
Anzi si direbbe che il rilancio del workfare nei programmi dell’UE sia proprio dovuto al fatto che emergono dei problemi e dei deficit, nelle motivazioni e nei modelli culturali, oltrechè nelle strutture sociali, che sostengono il lavoro inteso come nuova prestazione funzionale. Il progetto di un mercato più efficiente, competitivo e flessibile è compatibile e sostenibile rispetto ad una prospettiva umanistica dei diritti della persona umana, fra cui il diritto al lavoro. Questo interrogativo scuote oggi le fondamenta dei mercati e delle concezioni economiche che hanno dominato negli ultimi secoli.
Parlare del lavoro è andare al cuore della società moderna, al suo stesso impulso più profondo, alle sue contraddizioni culturali e religiose più intime. Parlare del lavoro è rifare la storia della cultura occidentale, della sua matrice del suo sviluppo. Non ci si deve meravigliare se, riandando alle matrici del problema, si riscopre di rifare anche la storia del cristianesimo, dal momento che le grandi svolte storiche nelle concezioni del lavoro sono state determinate dal pensiero cristiano, nella visione di una società dove si intersecano i diversi bisogni degli uomini in una visione soprannaturale.
PER UNA SOCIETA' ATTIVA
Sono tempi difficili per l’Europa, soprattutto per la “Vecchia Europa”. Bassa crescita economica e scarsa competitività. Bassa dotazione di capitale umano e basso tasso di occupazione.
E come se tutto ciò non bastasse, la concorrenza dei Paesi asiatici, di quelli anglosassoni e anche di quelli neo-comunitari, incalza. Tutti Paesi, questi, più dinamici, più competitivi, più attivi. Ed è proprio su questo concetto, quello di società attiva, che la vecchia Europa si deve basare per il proprio rilancio. Una “società attiva” è una società responsabile: una società padrona di se stessa che governa il futuro e delinea nuove sicurezze. Prima tra tutte il lavoro. Un lavoro di qualità inteso come elemento di sviluppo e anche di coesione sociale. E’ la strategia europea per l’occupazione, elaborata dal Consiglio di Lisbona, ad affermare con forza tale concetto.
L’obiettivo principale della strategia per l’occupazione è, infatti, quello di costituire una economia più competitiva e dinamica, basta sulla conoscenza, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e maggiore coesione sociale. Così come altri Paesi della vecchia Europa, anche l’Italia si trova in una situazione di svantaggio competitivo, dovuto in particolare a una scarsa valorizzazione del capitale umano, attribuibile all’invecchiamento della popolazione, al basso tasso di occupazione, alla bassa scolarizzazione e allo scarso apprendimento continuo.
In questa situazione, dunque, anche l’Italia necessita di una società attiva, che elabori le linee guida per il proprio futuro, caratterizzate da politiche che concilino lo sviluppo economico e sociale e che mirino a ribaltare la situazione precedentemente descritta.
In special modo si dovrà realizzare una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, ma soprattutto un forte investimento in capitale umano, che significa più elevati livelli di istruzione e migliore qualità della stessa, ma anche una formazione e un apprendimento continuo lungo l’arco della vita. Questo aspetto è fortemente legato alla possibilità di un migliore sviluppo economico e sociale, in quanto è risaputo che un più elevato grado di istruzione e formazione implicano una migliore occupazione e una retribuzione più elevata.
Se il lavoro è considerato uno strumento importante di sviluppo economico, ma anche di inclusione sociale, è sicuramente prioritario l’ingresso, la permanenza o un veloce ritorno degli individui nel mercato del lavoro. Se da un lato la domanda di lavoro è fortemente legata alla situazione economica e in particolare ai livelli produttivi, a loro volta dipendenti dalla domanda e dagli investimenti nel mercato, dall’altro la tendenziale scarsa trasparenza del mercato del lavoro e il necessario supporto nell’inserimento al lavoro per alcuni soggetti necessitano di politiche attive per l’occupazione, cioè di misure e di programmi che favoriscano l’inserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro; che adeguino, attraverso la formazione e la riqualificazione, le loro caratteristiche alle esigenze del mercato; che consentano un buon incontro fra domanda e offerta di lavoro per garantire maggiore efficienza dello stesso mercato del lavoro.
Ma perché una società si possa realmente definire attiva, è necessaria una radicale inversione di rotta anche in materia di politiche di occupazione. Se in passato, infatti, in un’ottica di welfare degradante nell’assistenzialismo, hanno sempre prevalso le politiche passive per l’occupazione (cioè il sostegno passivo al reddito, in molti Paesi anche molto generalizzato), recentemente, invece, sulla spinta della stessa “strategia europea per l’occupazione”, che ha posto al centro dell’attenzione la persona del lavoratore, l’obiettivo si è spostato alle politiche attive e in un certo senso anche alla “attivazione” delle politiche passive, attraverso la costituzione di legame delle une alle altre.
Questo ha significato che nella maggior parte dei Paesi europei, ma non ancora in Italia, viene richiesto ai lavoratori in cerca di occupazione e beneficiari di prestazioni sociali di sostegno al reddito, di essere per l’appunto “attivi” nella ricerca di una occupazione, comprendente anche l’obbligo a partecipare a progetti di reinserimento al lavoro, che se disattesi possono ripercuotersi in una decurtazione delle prestazioni sociali.
Con questo non si vuole certo dire che gli Stati debbano abbandonare i cittadini in difficoltà che necessitano di aiuto per il loro sostentamento- in particolare se non in grado di lavorare – ma, al contrario, si vuole affermare che essi devono mirare alla loro responsabilizzazione e attivazione, in perfetta sintonia con l’idea di società attiva.
Una scommessa antropologica, con scenari e progetti concreti che appaiono politicamente trasversali, nei quali si fondono i riferimenti al new labour inglese, con la migliore tradizione riformista italiana, tenendo però ben presente una “tradizione di valori” sulla quale convergono fede e ragione: la centralità della persona, la valorizzazione della famiglia, il ruolo della società civile, esaltato attraverso una costante sussidiarietà orizzontale.
LA PROSPETTIVA DEL WELFARE
PER UN NUOVO PATTO TRA GENERAZIONI
Da oltre venti anni nei paesi sviluppati, e più significativamente in Europa, si discute e si interviene per riformare le prestazioni sociali.
I sistemi di previdenza, di formazione, di assicurazione, di sostegni al reddito verso le famiglie e verso le persone, pur essendo differenziati a livello nazionale, presentano delle criticità comuni, più volte analizzate da numerosi esperti e ormai consolidate anche nel dibattito politico.
Le criticità principali sono legate all’invecchiamento della popolazione, effetto e conseguenze positive anche dei successi del Welfare State, ma che producono uno spiazzamento ed una crescita esponenziale particolarmente della spesa pensionistica e sanitaria.
Fabbisogni di formazione e di aggiornamento dovuti alla rigidità dei mutamenti economico produttivi, ma anche di quelli sociali, a cui corrispondono sistemi scolastici rigidi e costosi.
Crescenti esigenze di mobilità e di flessibilità del lavoro che mal si conciliano con sostegno al reddito che, qualora eccessivamente duraturi e onerosi, finiscono per disincentivare la ricerca del lavoro.
Una natalità decrescente che si riflette progressivamente nella diminuzione della popolazione in età di lavoro e in un aumento dei carichi di dipendenza relativi al numero delle persone che non lavorano rispetto a quelle che lavorano.
Le insufficienze degli interventi di sostegno di diversa natura (finanziaria, pubblica, relazionale) verso la quarta età.
L’onerosità dei sistemi burocratici di erogazione delle provvidenze e dei servizi pubblici.
Questi fattori di criticità hanno dato luogo a un ciclo di riforme nei vari stati europei i cui tratti sono stati solo parzialmente orientati dall’azione comune in sede U.E.. Quest’ultima ha però indicato la piattaforma da cui partire assumendo come base l’obiettivo dell’espansione della base occupazionale. Obiettivo sostanziato da un indicatore, il raggiungimento del 70% del tasso di occupazione, indispensabile per reggere il carico della sostenibilità finanziaria delle prestazioni e delle persone inattive al di sotto dei 20 anni di età e degli over 65.
Il processo è lento, contrastato, assume obiettivi abbastanza comuni, ma certamente non è stato ancora in grado di riposizionare organicamente i sistemi del Welfare ed il patto tra generazioni in essi contenuti. Hanno ancora i contorni, indeboliti, della fase di sviluppo industriale dove i percorsi scolastici, quelli dell’età lavorativa e di uscita dal lavoro erano relativamente definiti ed organizzati.
Le riforme fatte lasciano aperti ed insufficienti i problemi del sostegno alla natalità, a cui si aggiunge anche il tema dell’accoglienza agli immigrati, quelli dell’apertura dei sistemi formativi verso le persone che lavorano e la terza età, l’inadeguatezza degli interventi verso la quarta età, le prospettive di prestazioni previdenziali in progressiva diminuzione per le giovani generazioni.
La condizione italiana (dopo un ciclo di riforme iniziate negli anni ’90), non si presenta affatto migliore. Siamo di fronte alla combinazione di carenze storiche: gli interventi verso le famiglie, la natalità ed il sostegno al reddito, combinati con nuove emergenze derivanti dal fatto che il nostro Paese detiene il record, di per sé positivi ma poco considerati per le loro esigenze, del maggior invecchiamento della popolazione e dell’allungamento dell’età media di vita. E’ necessario inquadrare bene tali problematiche. Nei prossimi 15 anni la popolazione di origine italiana in età di lavoro diminuirà di 4,5 mln di persone. Circa 2,5 mln di persone andranno in pensione.
Il numero delle persone a carico di coloro che lavorano rischia di essere insostenibile, salvo che nel frattempo la popolazione attiva, ed in particolare il tasso di occupazione, non si accresca almeno di 3 mln di unità avvicinando l’Italia all’obiettivo europeo del 70%.
Il nostro Paese si trova di fronte a due sfide gigantesche.
La prima riguarda il come perseguire l’obiettivo di elevare sensibilmente i livelli di occupazione; la seconda di riequilibrare il sistema del Welfare sia per supportare la sfida occupazione, sia per affrontare le nuove emergenze sociali.
ELEVARE IL LIVELLO E LA QUALITà
DELL’OCCUPAZIONE
Il livello dell’occupazione della popolazione in età da lavoro maschile tra i 35 ed i 55 anni è già sopra le medie europee. Non altrettanto vale per i giovani e soprattutto per le donne e per gli anziani i cui tassi di occupazione evidenziano, nell’insieme, una distanza notevole da tali medie stimabile nell’ordine dei 2-3 mln di unità. Tale distanza è rimarcata particolarmente, soprattutto per i giovani e le donne, nel territorio meridionale delineando pertanto le vere priorità delle politiche occupazionali.
Certamente l’obiettivo non può essere colto solamente attraverso interventi ed innovazioni sull’offerta di lavoro. E’ indispensabile una politica di sviluppo più accentuata soprattutto verso i territori del Sud Italia. Ma questo non basterà per ottenere un livello occupazionale più elevato ed equilibrato. Le esperienze europee dimostrano che servono almeno altri tre tipi di intervento: un miglioramento dei servizi di orientamento e di formazione, una diversa e più personalizzata politica dei rapporti di lavoro e degli orari di lavoro, un rapporto più integrato tra politiche di sostegno al reddito e quelle finalizzate alla ricerca del lavoro.
E’ la strada intrapresa dalle riforme del mercato del lavoro dal ’96 ad oggi e rafforzata sia dalla Legge Biagi che dalla Riforma del sistema scolastico.
Una strada che ha già prodotto il risultato di aumentare di oltre 2,2 mln di unità l’occupazione nell’ultimo decennio, delle quali 2/3 a tempo indeterminato. Sono dati che non confortano affatto la tesi portata avanti da coloro che sostengono l’aumento della precarietà nel mercato del lavoro soprattutto per i giovani. Anzi ci distanzia dall’Europa un più basso impiego di questi ultimi e delle donne, anche e proprio in ragione di uno scarso utilizzo del sistema part-time e del lavoro a termine. Questo non significa affatto che si debba proseguire nella strada del miglioramento del sistema delle tutele, come del resto previsto dalla Legge Biagi, soprattutto per i contratti a progetto.
Va tolta l’incrostazione ideologica che separa le discussioni italiane dal resto dell’Europa e che contribuisce a perpetuare i nostri ritardi.
E’ necessario migliorare i livelli di tutela nel mercato del lavoro e non solo nel rapporto di lavoro.
E’ necessario pervenire con gradualità ad un sistema più generale di sostegni al reddito, dignitoso e dimensionato temporalmente, bene integrato con i servizi di orientamento e di formazione, condizionato alla ricerca attiva del lavoro.
La strada già aperta dalla Legge Biagi e Moratti con l’introduzione della Borsa Lavoro, con l’allargamento degli operatori abilitati all’incontro domanda-offerta, con alternanza scuola-lavoro, con i nuovi rapporti di lavoro va perseguita con coraggio.
Ma anche raggiungendo gli obiettivi di recuperare i bacini potenziali di occupazione, presenti in Italia, è abbastanza scontato che essi non saranno sufficienti a far fronte ai fabbisogni economici- produttivi ed agli equilibri sociali.
Problema già evidente e che dall’inizio degli anni ’90 ad oggi ha portato a decuplicare il numero dei lavoratori immigrati in Italia. Numero che, con tutta probabilità, arriverà al raddoppio nei prossimi dieci anni verso una cifra vicina ai 4 mln di unità. Serve pertanto che una buona politica dell’immigrazione che esca dalla contrapposizione sterile, che caratterizza il dibattito politico, tra la negazione del problema ed un buonismo di maniera che, all’opposto, trascura i problemi di accoglienza, sicurezza, stabilità sociale.
Per noi la buona politica dell’immigrazione è fatta di capacità di collegare anche nei servizi l’incontro domanda-offerta lavoro, di organizzare delle reti di accoglienza verso la casa, le prestazioni sociali, la formazione, la capacità di reinserire gli immigrati disoccupati, nel far rispettare le regole che il nostro popolo si è dato, sia pur nel rispetto e nella tolleranza dei diversi orientamenti culturali e religiosi.
LE NUOVE SFIDE DEL WELFARE
Null’altro come la riforma del Welfare costituisce oggi in Italia il crinale tra riformismo e conservazione, tra sviluppo e declino, tra coesione e rottura del Patto sociale.
Le riforme delle pensioni e della sanità perseguite negli ultimi quindici anni hanno attenuato le dinamiche della spesa pubblica ma non hanno analogamente contribuito a riposizionarla verso emergenze che nel tempo si sono accentuate.
La prima emergenza è quella della natalità e dei sostegni alla famiglie. Non siamo affatto certi della convinzione, che tra l’altro sembra trovare consensi, che sia la presente precarietà del lavoro a determinare il ritardo delle scelte di vita dei giovani. Semmai, ben più grave ed influente, è il basso tasso di occupazione degli stessi.
Siamo invece convinti che sia l’esiguo livello di sostegno alle famiglie ed alla natalità ad avere effetti più nefasti e duraturi. I timidi provvedimenti presi dal governo in favore delle famiglie per la nascita di nuovi figli non possono avere il respiro temporale delle finanziarie annuali, vanno resi fiscalmente stabili (ci tornerò “sopra” più avanti).
Così pure vanno rafforzati i servizi ed i benefici verso le persone e le famiglie con particolare attenzione per la disabilità e le persone anziane.
Siamo ormai alla crescita strutturale dei nuclei monocomposti, in gran parte di anziani soli, tema che va affrontato con maggiore rigore.
Problema che trascina quello della quarta età combinato con l’assoluta impossibilità di caricare sulle famiglie i costi del sostegno delle persone in progressiva perdita di autonomia, sia essa finanziaria o fisica.
Riteniamo che l’integrazione familiare di queste persone sia il presupposto del successo di un’azione del Welfare ma ciò deve essere sostenuto anche con il sostegno pubblico e servizi adeguati.
Proponiamo all’attenzione politica l’esigenza di varare un fondo di solidarietà, finanziato con una quota di contributi sociali, anche sulle pensioni medio alte, oltre che dal fisco, per far fronte agli oneri di queste politiche.
Con famiglie e quarta età va aperto un nuovo fronte di interventi sul versante del riposizionamento del sistema formativo.
Ai fabbisogni di qualificazione dei sistemi formativi di base si aggiunge l’esigenza di migliorare sensibilmente quelli collegati al lavoro, di allargare la formazione continua per gli occupati, di affrontare anche per queste vie il tema dell’invecchiamento attivo con programmi mirati per la terza età.
Non ci convince la persistente polemica tra sostenitori della scuola pubblica e quelli della scuola privata. L’offerta formativa deve ampliarsi e diversificarsi ed è impensabile che questo possa avvenire solo in un sistema pubblico, sia pur riqualificato.
Guardiamo con favore all’ampliamento dei soggetti che producono formazione e crediamo in un sistema cooperativo-comparativo che migliori la qualità e la quantità dell’offerta verso i cittadini.
Crediamo che questi investimenti debbano essere al massimo agevolati fiscalmente e che ai cittadini, di ogni genere e di ogni professione, debba essere garantita libertà di scelta.
Infine va affrontato il tema della previdenza per i giovani. Non possiamo chiedere ad essi, nel contempo, di far fronte al problema della natalità, dei costi della crescita della previdenza, della sanità e della diminuzione prospettiva delle loro prestazioni previdenziali.
Sono squilibri eccessivi che vanno rimediati; l’avvio della previdenza integrativa, e la riforma del TFR, vanno anche se in ritardo nella direzione giusta.
Abbiamo indicato quelli che, secondo noi, possono essere i contenuti che caratterizzano un nuovo patto tra generazioni.
Rivedere lo stato sociale è ineludibile, non è un cedimento ad una strategia di abbandono di conquiste storiche: è il solo modo per preservare per le nuove generazioni, i nostri giovani, la sostanza delle acquisizioni.
Vorremmo che su questi contenuti si misurassero i programmi delle coalizioni politiche e l’azione concreta dei prossimi governi.
LE SFIDE: DEMOCRAZIA ECONOMICA,
PARTECIPAZIONE, FORMAZIONE, CONCERTAZIONE,
CONTRATTAZIONE. IL SINDACATO.
Ci sono i primi segnali di una inversione di tendenza sull’andamento dell’economia a livello internazionale, a partire dagli USA: segnali molto più deboli in Europa dove continua a prevalere una interpretazione ancora troppo restrittiva del Patto di stabilità.
Un po’ di ripresa viene intravista anche in Italia. Il Pil sale anche se ancora a livelli insufficienti; si intravedono segnali incoraggianti sui livelli di occupazione.
Questo “discorso” sulla ripresa economica, che è stato al centro di ampio dibattito negli ultimi mesi fra i numerosi profeti del “Partito del declino” che tutti i giorni gridavano allarmati “la barca affonda” (ma anche maliziosamente compiaciuti) e gli “ottimisti ad oltranza”, fedelissimi del Cavaliere, in uno scontro “tutto ideologico”, riguarda in particolare il problema del rilancio industriale che è parte integrante e decisiva di due grandi nodi da sciogliere per ripartire davvero: la politica di sviluppo ed il Mezzogiorno.
Per una politica di sviluppo la “cura” “sembrerebbe” semplice e chiara; l’Italia deve mettere in campo nuove politiche industriali basate sull’interazione tra innovazione, ricerca pubblica e privata, istruzione e formazione. E orientarli su obiettivi precisi di crescita e innovazione. L’Italia se vuole crescere deve affrontare il problema del suo indebolimento industriale. Porre però il problema della crescita, oggi, significa anche aprire una discussione attenta sul capitalismo, (e sul nostro in particolare), sui processi di finanziarizzazione, di delocalizzazione, e sulle trasformazioni dei poteri economici, del commercio internazionale, sul declino e la mutazione innovativa di interi settori produttivi.
La consapevolezza che negli ultimi anni il nostro capitalismo si sia innovato poco, che le nostre imprese hanno giocato sulle svalutazioni competitive e sugli aiuti di Stato e che ora, anche per i vincoli europei, esso si trova, per la prima volta nella sua storia, a competere alla pari, senza particolari protezioni, diventa un grosso problema.
Detentori di capitali ed imprenditori, oggi preferiscono investire nelle rendite finanziarie e immobiliari piuttosto che sul profitto produttivo ed innovativo e in questa logica del “prodotto alto a costo basso”, si inseriscono processi di delocalizzazione come “fuga”, non come posizionamento strategico.
I protagonisti dell’economia, spesso coinvolti in “penosi” scontri frontali fra “nuovi e vecchi” che hanno per obiettivo il mantenimento (o il riposizionamento) del “potere reale”, compreso banche, immobili e giornali, quando invece dovrebbero investire e rinnovare. (Questa estate siamo stati “investiti” da migliaia di intercettazioni telefoniche per scalate, vere o presunte, a Banche e ad un grande quotidiano: Grande ma non indipendente!.)
E lamentarsi meno, per poi scaricare tutte le colpe su Governo e Sindacati.
Per questo crediamo che sia arrivato il momento di intervenire seriamente anche per allineare alla media europea la tassazione delle rendite finanziarie.
Il Mezzogiorno poi è uno dei luoghi dove di intrecciano con maggiore evidenza debolezza e potenzialità dell’Italia. Ed è in questa ambivalenza che si fonda la forza di questa grande area del nostro Paese, che peraltro ha, al proprio interno, aree disomogenee di sviluppo, e, ancora, aree dove la criminalità organizzata imperversa.
Però è subito chiaro che gli attuali livelli di produttività del Mezzogiorno sono troppo bassi perché esso possa provvedere da solo a se stesso e valorizzare le proprie grandi potenzialità. Ecco perché proprio in quest’emergere dell’economia italiana, ci si deve attentamente interrogare, su come la risorsa mezzogiorno possa essere valorizzata, per far crescere l’Italia, su come riportarlo alla ribalta in quanto “centro” di nuove opportunità e di convenienze geopolitiche, economiche e culturali.
E qui nel contesto del sud e del suo sviluppo è importante sottolineare anche al nuovo ruolo che il mediterraneo andrà acquistando. Serve una politica estera che faccia realmente, dichiaratamente e visibilmente del Mezzogiorno il porto dell’Italia e dell’Europa verso i Paesi del Mediterraneo, (tema su cui il MCL si è tanto battuto in questi anni), perché qui fra l’altro si intersecano le relazioni umane culturali fra Europa e Medio Oriente e tutta l’Africa del Nord.
In questo contesto, la collocazione del Mezzogiorno italiano è realmente strategico ma richiede la necessità prioritaria anzitutto di rafforzare le infrastrutture: (porti, trasporti, logistica, anche il Porto di Messina) e di rete e di legarle ad una politica di sviluppo.
Il MCL è comunque convinto che il Mediterraneo rappresenti per l’Italia e per l’Europa una grande opportunità economica, ma anche politica e sociale.
DEMOCRAZIA ECONOMICA E PARTECIPAZIONE
La consapevolezza sempre più diffusa della necessità di coniugare crescita economica, sviluppo e giustizia sociale ci spinge ad accelerare il processo di revisione in atto per modificare il tradizionale modo di intendere l’economia, recuperando quella dimensione “sociale” che naturalmente le appartiene in quanto “mediante l’attività economica l’uomo collabora al progresso di tutta la famiglia umana ed entra in comunione con le altre persone, per un aiuto reciproco in spirito di servizio” (Democrazia economica sviluppo e bene comune).
E’ indispensabile rilanciare un forte impegno sulla democrazia economica e sul significato che si deve dare al ruolo sociale dell’impresa.
Discutere di Democrazia economica non è tempo perso, non è affatto “sognare” ma collocarci sulla terraferma della realtà economica e dell’esigenza che essa sia messa a servizio dell’uomo e non viceversa.
Del resto assistiamo al fiorire continuo di nuove proposte in campo economico, dell’economia sociale, e quella di comunione, dalla finanza etica, all’impresa no-profit, della cooperazione a forme di mutualità sociale, di lavoro, di cura, dalla negoziazione legata ai risultati di impresa all’azionariato dei dipendenti, oppure all’azionariato popolare.
E’ dentro questo movimento di trasformazione partecipativo dell’economia in una vera e propria democrazia economica di mercato che il MCL deve e vuole collocarsi come più congeniale ai suoi percorsi di valorizzazione delle persone che lavorano.
Con un’attenzione particolare per la cooperazione, un’organizzarsi nel sociale che ha un peso importante per il suo contributo all’economia ed allo sviluppo del Paese: ma assume anche un valore emblematico in termini di partecipazione e di democrazia economica.
Il Movimento Cristiano Lavoratori considera la democrazia economica, in tutte le sue eccezioni, una questione decisiva e di straordinaria attualità, indispensabile allo sviluppo.
FORMAZIONE
Se vogliamo costituire una società più forte, più giusta, più sicura è, quindi, verso i segmenti “deboli” delle nostre popolazioni che dobbiamo orientare le politiche educative e le politiche del lavoro.
D’altro canto e ormai evidente a tutti che soltanto una forte integrazione fra politiche dell’istruzione e della formazione e politiche sociali e del lavoro può accelerare i processi di crescita economica rafforzando quella coesione sociale indispensabile per uno sviluppo futuro. Per far conoscere competenze tecnologiche ad una quota sempre maggiore di lavoratori occorrono oggi interventi di natura sociale e lavoristica a supporto dell’acquisizione di competenze in segmenti della popolazione che storicamente presentano livelli bassi di capitale umano. La complementarietà tra capitale umano e istruzione professionale e formazione sul posto di lavoro indica che il successo di questi interventi dipende in larga misura dalla generalizzazione dell’accesso a opportunità di approfondimento fin dai primissimi livelli di istruzione.
La nuova riforma della scuola sembra mettere l’Italia in linea con gli altri Paesi europei. I decreti legislativi recentemente varati attivano un processo riformatore. Dobbiamo affrontarli con moderazione e gradualità, senza pregiudizi ideologici. E così anche la recentissima riforma dell’università; una università, adesso, piena di privilegi: lo sforzo di mettere in movimento il mondo della formazione e della ricerca, dopo anni di immobilismo (e di aspre critiche) cozza contro opposizioni pregiudiziali e il conservatorismo delle corporazioni, invece di spostare il dialogo, il confronto, su proposte alternative concrete.
Il MCL dovrà avere per le “politiche educative” maggiore attenzione: “una società senza educazione o con una cattiva educazione è una società destinata al decadimento ed all’estinzione”, è scritto in uno dei contributi dei nostri giovani a questo Congresso.
E poi: “certo educare è rischioso, talvolta perfino pericoloso. Indottrinare, invece è molto più facile e più sicuro”.
IL LAVORO CHE CAMBIA, LA CONCERTAZIONE
La concertazione, indebolita dall’azione del Governo ed anche dalle divisioni sindacali, resta uno strumento importante per una politica di “crescita governata”, che secondo il Movimento Cristiano Lavoratori, va rilanciato nell’interesse del Paese e dello sviluppo: ma tenendo conto che lo scenario complessivo e del lavoro è cambiato, sottoposto a profonde trasformazioni.
E’ cambiata la situazione politica nazionale ed internazionale, c’è l’Unione Europea allargata, ed una moneta unica, c’è un’economia globalizzata.
E’ cambiato lo scenario della regolazione sociale e politico-istituzionale legata al lavoro stesso; che non marcia più come negli scorsi decenni, su tre riferimenti certi: una organizzazione produttiva e lavorativa di tipo “fordista”, una coesione sociale, garantita da un welfare ambizioso e pervasivo, delle relazioni industriali e sindacali orientate all’omologazione del sistema di tutele, “sostenute” da grandi accordi tra Stato, sindacato e imprese.
Nel mercato del lavoro flessibile è più facile dover cambiare lavoro, trovare un lavoro temporaneo piuttosto che stabile, trovare, mantenere o ritrovare il lavoro se si hanno maggiori capacità di riqualificazione e maggiori competenze professionali (come abbiamo già detto). Mentre i più deboli sono i più esposti agli effetti più pesanti della flessibilità, che rischia di trasformarsi in precarietà, anticamera della disoccupazione.
Occorre pertanto passare con un salto di qualità legislativo e contrattuale, delle tutele esclusive sul posto di lavoro ed una tutela nel mercato del lavoro, assicurando ai lavoratori tutti gli strumenti che migliorano occupabilità e adattabilità come ci indica la strategia Europea per l’occupazione, costruendo una moderna rete di servizi per l’impiego.
Da qui l’esigenza di una più forte attenzione al “mercato del lavoro” e ai nuovi lavori per poter determinare nuove forme di tutele e di formazione capaci di forme differenziate, ma comunque attente alle esigenze delle persone.
Nuove tutele, nuovi diritti, nuove forme di formazione devono essere basate sul pieno e concreto esercizio della rappresentanza, assicurando piena cittadinanza nell’impresa e nella società, ad ogni lavoratore.
Su questa base era stata espressa dal Movimento Cristiano Lavoratori l’attenzione “articolata” alla filosofia contenuta nel Libro Bianco presentato dal Governo nell’autunno 2001.
Non rinneghiamo niente, anzi lo riconfermiamo con forza di fronte ad alcuni “pentiti”, e ad opposizioni ideologiche! Lo stesso atteggiamento che abbiamo tenuto poi sulla Legge Biagi: il MCL non è fra quelli che ne chiedono la revoca!
Il decreto legislativo n° 276 attuativo della Legge n° 30 del febbraio 2003, ha portato a definire parti importanti delle riforme delineate nel Libro Bianco.
L’iter dei due provvedimenti è emblematico della fase di indebolimento della concertazione.
La discussione sul libro Bianco e sulla legge 30 da esso derivate, è stata fortemente influenzata, come di ricorderà, dallo scontro relativo alla normativa sui licenziamenti. Si situa peraltro, in quel periodo, l’uccisione, in un agguato terroristico del prof. Marco Biagi.
I temi del lavoro continuano, purtroppo, a scontare un alto tasso di ideologia e a creare veri e propri scontri tra chi, propugna la flessibilità tout court del lavoro come unica strada per il rinnovamento dell’esistente, e chi chiude gli occhi di fronte ad ogni esigenza di innovazione dimostrando di essere nei fatti il vero propugnatore di un “conservatorismo senza radici”.
Il Patto per l’Italia del 3 luglio 2002, purtroppo senza la firma della CGIL, ha rappresentato uno sforzo coraggioso e responsabile condotto soprattutto dalla CISL, per vincere alcune istanze antisindacali presenti nel Governo, difendendo l’art. 18 (che non è stato più smantellato) e riportando al centro le questioni dello sviluppo e delle riforme necessarie (fisco, Mezzogiorno, ammortizzatori sociali).
In ogni caso il clima conflittuale non ha consentito di concordare tutti i contenuti della legge 30.
Il Patto impegnava tuttavia il Governo al confronto con le parti sociali sui contenuti del decreto attuativo della legge stessa.
Ciò ha consentito di migliorare notevolmente l’equilibrio del testo rispetto alle iniziali proposte dal Governo. Grazie a questa azione ora la legge 30, e decreto delegato di attuazione, pur con alcun punti controversi, s’iscrivono tuttavia nel percorso di riforme indicate dall’unione europea, bilanciando adattabilità e occupabilità, benché offrono un quadro ancora incompleto: infatti, come è noto i due provvedimenti ridisegnano parti importanti delle politiche e del mercato del lavoro.
In particolare nei testi definitivi c’è un’attenzione non di facciata all’emersione del lavoro sommerso che è uno dei grandi problemi dell’Italia: non si può immaginare un nuovo diritto di tutti i lavori se prima non vengono arginate le forme di lavoro nero e irregolare che, come abbiamo ripetuto più volte, condizionano pesantemente il funzionamento del nostro mercato del lavoro.
A questo Congresso viene presentata una importante ricerca dal nostro Ufficio Studi con alcune proposte originali. Inoltre è assegnato un ruolo importante alla bilateralità, in particolare nella gestione di servizi per l’impiego: un’esperienza molto proficua anche come strumento di partecipazione.
Il quadro della riforma è però ancora incompleto. Rimangono infatti fino ad oggi senza seguito la riforma degli ammortizzatori sociali e lo Statuto dei lavori. Si tratta di interventi indispensabili per assicurare tutele a tutto campo in un mercato del lavoro che oramai da anni è più flessibile.
Il vero limite della “Riforma Biagi”, la sua “incompletezza” sta proprio qui: nell’assenza di un quadro di tutele all’altezza dei cambiamenti che da anni caratterizzano il mercato del lavoro; un passaggio fondamentale quello della riforma degli ammortizzatori sociali, la quale è connessa inevitabilmente al problema delle risorse.
Sullo Statuto dei lavori è all’opera una Commissione Ministeriale presieduta dall’amico prof. Tiraboschi. I tempi però non sembrano maturi perché, dobbiamo dirlo con chiarezza, è davvero difficile discutere di un progetto così ambizioso quando non è ancora emerso il necessario consenso sulla “Riforma Biagi”.
La modernizzazione del mercato del lavoro è un processo delicato, più culturale che normativo. Ciò che ancora non è avvenuto nel nostro Paese è il superamento di veti e pregiudiziali ideologiche che rallentano inutilmente le riforme necessarie per evitare fenomeni di destrutturazione e di deregolamentazione strisciante del mercato del lavoro.
IL SINDACATO
Per affrontare i nuovi scenari è indispensabile una riflessione su regole e conflitti. Gli scioperi (anche selvaggi) troppo frequenti soprattutto nell’ambito del trasporto pubblico sono una spia di una questione assai più complessa e preoccupante, connessa alla progressiva lacerazione del nostro sistema di relazioni industriali. Per alcuni la colpa è di chi ha messo in crisi il metodo della concertazione, per altri il problema è dato dalla crisi della rappresentatività del sindacato che ingenera anche fenomeni di esasperata concorrenzionalità tra le stesse sigle sindacali.
Molte delle trasformazioni che hanno investito la società, la politica, l’economia hanno trovato il sindacato impegnato e chiedono uno sforzo culturale e progettuale in grado di definire nuovi comportamenti, nuove forme e modi della sua collocazione sociale e politica. Ci conforta che questi concetti sono contenuti nelle tesi dell’ultimo congresso della CISL, il nostro sindacato di riferimento, e conferma la consapevolezza dell’urgenza di affrontare nuovi scenari: anche il sindacato è chiamato a fare i conti con i cambiamenti ed elaborare strumenti di pensiero flessibili e attenti, ai nuovi scenari.
La CISL è ancora una volta chiamata a farsi carico dell’evoluzione del movimento sindacale italiano in un grande soggetto sociale, capace di leggere il mutamento e starci dentro con un proprio progetto, non negandolo ideologicamente o delegandolo interamente alle responsabilità della politica, ma neppure, semplicemente, subendolo. Un vero sindacato riformista e partecipativo deve incalzare la CGIL sul modello del sindacato affinché superi definitivamente i residui della cultura di un antagonismo ideologicamente subalterno, ormai estraneo all’esperienza del sindacalismo europeo, e nello stesso tempo operare un grande sforzo organizzativo: cioè associativo e culturale.
L’altra vera sfida è quella dell’autonomia: vera, coerente, trasparente, da tutti i partiti politici, da tutti i Governi, da tutti i “centri di potere”.
In una società in cui tende a predominare l’individualismo, è il “fare da sé” che sempre finisce per rafforzare i forti; occorre essere protagonisti di un progetto e di un percorso che recuperi la dimensione del “fare insieme” dell’associarsi, dell’agire solidale; evitando, da parte delle organizzazioni sindacali, l’affermazione di una mentalità “monopolistica” della rappresentanza.
LA FAMIGLIA: LA “PRIMA” DELLE PRIORITà
(PER IL MCL)
Il problema (come più volte abbiamo sottolineato), è quello di appropriarci, o di riappropriarci culturalmente del concetto della famiglia in quanto “valore” laicamente inteso ( anche se per noi cristiani è qualcosa di più). La nostra fede nella democrazia ci obbliga alla tolleranza e la nostra appartenenza alla Chiesa ci spinge all’accoglienza, per cui è inimmaginabile qualsiasi politica discriminatoria fondata su un presupposto moralistico.
Però sia chiaro: per noi la famiglia resta quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, perché è un valore riconducibile alla sfera dei diritti naturali e in quanto tale va costituzionalmente protetto e rafforzato. Pertanto, qualsiasi tentativo di equiparazione dei PACS con il matrimonio va ostacolato perché è del tutto evidente che si vuole scardinare un valore.
Per tutte le situazioni “anomale”, alle quali non siamo assolutamente insensibili ed a cui bisogna dare risposte, per rimuovere ostacoli che impediscono il godimento di alcuni diritti individuali e sociali (mi riferisco in particolare a diritti previdenziali, assistenziali, successori, ecc.), se questo è il problema, è possibile utilizzare gli strumenti giuridici che esistono e che possono essere modificati.
E’ appunto l’appropriazione culturale del concetto della famiglia, ci deve indurre ad agire politicamente non solo per tutelarla, ma anche per sostenerla concretamente.
Non è più tempo di politiche assistenziali, di interventi “tampone” in cui si soccorrono le famiglie sono in quanto povere e bisognose e mai in quanto famiglie.
Non si può andare avanti navigando a vista, senza strategia e piani concreti, con provvedimenti che siano solo di immagine e non incidano sulla realtà delle famiglie italiane.
Occorre far ricorso sistematico al parametro della famiglia nelle politiche fiscali;
- Occorre aiutare concretamente le famiglie con una diffusa ed efficiente politica dei servizi;
- Occorre un’azione efficace a favore di nuove politiche di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Ci avviamo alla fase finale della legislatura,al momento in cui devono tirarsi le conclusioni ( e vedere i frutti delle scelte effettuate), anche rispetto all’impegno concreto e convinto, su questi temi, da parte di ciascuna forza politica…….
Ci sembra che, aldilà di tanti proclami, non si siano fatti oggettivamente grandi passi in avanti (salvo rare, encomiabili eccezioni). Con la precedente finanziaria qualcosa è stato fatto, ma riteniamo quantitativamente assolutamente insufficienti i segnali positivi per i nuovi nati, per le giovani coppie che acquistano casa e per le famiglie che mandano i figli agli asili nido.
La battaglia continua e noi, come sempre, siamo in prima fila, anche attraverso la nostra qualificata partecipazione nel Forum delle Famiglie, fortemente impegnato su questi temi.
QUESTIONE POLITICA
E RUOLO DEI CORPI INTERMEDI
Su questo punto vogliamo essere, ancora una volta, estremamente
chiari.
Da anni portiamo avanti, insieme ad altri, una battaglia per il riconoscimento di tutto quel variegato mondo dell’associazionismo che costituisce l’anello di congiunzione più importante tra i cittadini e le istituzioni.
La società del ventunesimo secolo è profondamente cambiata, nuovi soggetti sono venuti alla ribalta, sono emersi nuovi interessi che hanno sostituito o modificato i tradizionali elementi aggreganti. Si sta affermando una nuova cultura della partecipazione responsabile, che alimenta un dinamismo sociale consapevole dell’importanza della società civile nei processi di trasformazione in atto nella politica, nell’Economia, nelle istituzioni, nell’Europa, nei rapporti internazionali. Ciò, a nostro avviso rappresenta un dato oggettivo. Non considerarlo è pura miopia politica.
Se la politica non è in grado di intercettare il nuovo che avanza prepotentemente e se i tradizionali strumenti della rappresentanza non sono in grado di riconvertirsi (pur riconoscendo ai partiti una importanza “storica”) modificando mezzi e fini del loro modo di operare (salvo qualche rara eccezione), dimostrando più attenzione al “potere” che ai riferimenti valoriali (peraltro con molta improvvisazione e scarsa “professionalità”), finiranno per estinguersi per un esaurimento “di ruolo”, riducendosi a comitati elettorali, con una inevitabile ricaduta in termini negativi sulla democrazia.
Ebbene, io ritengo che sia giunta l’ora di liberarci da quel complesso di inferiorità che ci rende da una parte “accattoni di considerazione”, rivendicando spazi di rappresentanza sociale, spesso in concorrenza tra di noi, e dall’altra parte subalterni (o collaterali) rispetto ai cosiddetti rappresentanti istituzionali.
Se siamo veramente convinti (come diciamo) di essere il nerbo della democrazia, dobbiamo anche avere il coraggio di rivendicare questa nostra soggettività politica, non “contro”, ma “assieme” ai rappresentanti istituzionali, nel reciproco rispetto dei ruoli e delle competenze.
Il popolo del non-profit, del terzo settore, è una realtà visibile, corposa e fattiva, costituisce a riprodurre quei frammenti valoriali cui anche il MCL guarda, non a caso, con grande attenzione, come i migliori alleati in questa congiuntura sociale. Da qui la nostra motivazione a rimanere nel Forum del Terzo Settore, anche se alcune volte non condividiamo alcune “scelte politiche”. L’importante è che rimanga veramente “Terzo” e non collaterale.
Una riflessione particolare va fatta con riferimento alle associazioni
di ispirazione cristiana e ai Movimenti ecclesiali.
A qualsiasi osservatore attento non è certamente sfuggito il fatto che, almeno da un decennio, la cultura dominante ha innescato un meccanismo strisciante e subdolo, tendente a relegare nella sfera del privato la dimensione religiosa della vita. E’ un fatto che riguarda la coscienza di ognuno di noi, si dice e si ripete continuamente, i problemi di coscienza non possono trovare asilo nella politica. E così via dicendo……
La concezione della vita (leggasi:aborto, procreazione assistita), il senso della morte. (leggasi: eutanasia), il ruolo della famiglia (coppie di fatto e/o omosessuali), sono riconducibili alla sfera personale dell’individuo: ognuno agisce e giudica secondo coscienza.
In questo senso i cattolici possono essere portatori di valori che si esprimono in uno stile di vita, ma non possono avere cittadinanza politica in uno stato laico.
Pertanto se è fuori discussione la legittimità politica dei cattolici (e non potrebbe essere diversamente) non è altrettanto fuori discussione il diritto dei cattolici di esprimere politicamente i valori di cui sono portatori. Non a caso si è gridato, allo scandalo e si accusano i vescovi di indebite ingerenze nella politica, quando si esprimono su questioni fondamentali.
E’ successo, con particolare “violenza”, in occasione del referendum sulla procreazione assistita. (E anche sui PACS).
La Chiesa fa il suo mestiere e noi abbiamo il dovere di intervenire politicamente per affermare i valori in cui crediamo, anche con atti concreti come le leggi.
In questo senso rivendichiamo un nostro specifico ruolo politico e per questo sul Referendum, che non abbiamo voluto ma che non abbiamo temuto, fin dal primo giorno che è stato attivato, ci siamo impegnati come associazione, facendo in modo civile, la nostra parte: per l’astensione. Gli italiani hanno bocciato sonoramente le proposte di “stampo zapaterista” dei radicali e dei loro sostenitori che sono andati incontro, nonostante il grande schieramento mediatico, ad un clamoroso “flop”. Da questo Referendum è uscito vincente il buon senso degli italiani, la loro anima solidale, cattolica e laica che esprime rispetto per la vita. Escono sconfitti quanti hanno voluto politicizzare il dibattito, e non hanno fatto una questione di partito, aggredendo volgarmente e strumentalmente la Chiesa e i cattolici; pretendono di dividere addirittura gli italiani attraverso nuovi improbabili steccati.
Insomma gli italiani hanno dimostrato di essere “veramente adulti”. E per l’anticlericismo residuale è rischioso contare sul declino del cattolicesimo, limitandosi a censire le percentuali dei ragazzi che si autodispensano dall’ora di religione. Il rapporto fra religione stato e società è assai complesso e non può essere affrontato con gli schemi frettolosi del resoconto politico.
Non si tratta comunque di imporre una visione della vita in modo integralistico e fondamentalistico, ma semplicemente di affermare valori condivisi e condivisibili da tutti. Si tratta di valori laici, sui quali si può e si deve sviluppare un sereno dibattito e confronto che investe il tipo di società che si vuole costruire attraverso lo strumento della politica.
Per questo anche noi, associazioni di ispirazione cristiana e movimenti ecclesiali, dobbiamo, con forza, rivendicare, nel contesto del più ampio e variegato associazionismo un preciso e autonomo ruolo politico, fortemente motivati, che la politica (con la P maiuscola) è una nobile espressione della carità.
Noi del Movimento Cristiano Lavoratori lo faremo sicuramente.
Allora, ripeto, usciamo allo scoperto, senza complessi di inferiorità: né rispetto alle altre culture (senza fare confusione fra difesa di identità, “valori forti”, e predisposizione al dialogo: perché è proprio difendendo valori ed identità che possiamo aprirci al dialogo), né rispetto alla politica; ponendoci come soggetto autonomo di progetti e proposte politiche, avendo ben presenti i nostri mezzi e le necessarie sinergie ed alleanze fra i diversi movimenti ed associazioni, che comunque rappresentano una ricchezza per la Chiesa e la società.
Questo è “il problema” che hanno di fronte le organizzazioni cattoliche, dopo le tante speranze dei mesi scorsi: non “vacui” ed inutili appelli all’unità ma terreni fertili e concreti su cui misurare realmente la disponibilità a lavorare insieme, nella prospettiva di ricompattare un impegno politico fondato sulla condivisione di valori comuni.
Certo questi ragionamenti non valgono per coloro che hanno già scelto percorsi e alleanze, comunque, a priori…………
A questo punto, (l’ho detto altre volte, in queste settimane), ci dobbiamo porre, con serenità e tranquillità, un’altra questione.
E cioè se questo modello bipolare, consente o meno l’esercizio di quelle politiche fondate sui valori, che hanno bisogno di una larga concertazione (qualche volta anche bipartisan) che noi auspichiamo; tenendo anche presente che più volte ci siamo pubblicamente espressi, anche negli anni precedenti, (in tempi non sospetti) ,per un sistema elettorale “proporzionale” nella convinzione che ciò era, ed è, utile per aggregare le identità.
Se guardiamo alla legislatura che si chiude possiamo dire che il modello bipolare abbia funzionato? Si in termini di stabilità di governo ma “valorizzando” le forze più “radicali” dei due schieramenti a danno di quelle più moderate; spesso ha funzionato una specie di “potere di ricatto”.
A questo punto, in questo modello bipolare (ma con un sistema elettorale proporzionale) dobbiamo individuare un percorso di confronto articolato con le coalizioni per rappresentare loro bisogni, interessi e priorità dei nostri associati? Che è scelta diversa che schierarsi a priori con l’uno o l’altro polo, che significherebbe affidare a questa o a quella coalizione le nostre strategie, rischiando di compromettere la propria autonomia per essere poi, a seconda dei risultati elettorali, i fiancheggiatori del governo o dell’opposizione.
Oppure alimentare un confronto pre-elettorale con i singoli partiti, rispettosi delle reciproche autonomie politiche, per cercare di contribuire a costruire i programmi con il confronto, nell’ottica di quella politica concertativa che noi vogliamo trasformare da metodo in sistema, necessaria per “governare” con il contributo ed il consenso di una democrazia diffusa e partecipativa?
Con alcuni punti fermi: un no netto, deciso, non trattabile, alle posizioni ultra laiciste e ferocemente anti-cattoliche dei radicali (ed a chi li aiuta); ai quali “brucia” ancora la sconfitta referendaria.
E’ un “passaggio” difficile nell’attuale crisi della democrazia partecipativa: soprattutto per delle forze riformiste. Iperliberisti e sinistra radicale sono entrambi, per opposti motivi contrari alla cultura della partecipazione sociale. Comunque occorre che si rivedano le “strutture” dei programmi elettorali. Sono inutili i programmi elettorali blindati e onnicomprensivi.
Sono convinto che una democrazia pluralista, che intende valorizzare il sociale e la partecipazione, ha certamente bisogno di programmi, ma ha soprattutto bisogno di un’idea forte, capace di indicare orientamenti di massima con una forte valenza valoriale (e poi eventualmente, fare una selezione delle priorità).
Se è vero, come sembra, che il Paese ha bisogno di una “nuova ricostruzione” è necessario che i soggetti più vivaci della rappresentanza sociale sappiano anche declinare proposte ed atteggiamenti condivisi sui grandi temi che riguardano il futuro del Paese.
Lanciamo da questo Congresso un appello affinché su questo terreno si possano riscontrare convergenze con gli altri movimenti ed associazioni per valutare insieme le reali propensioni “a progettare e a proporre”; e non a subire in modo subalterno, o ad essere antagonista comunque per “partito preso”, (o per collateralismo strisciante): insomma è un altro modo di fare politica e mantenere l’autonomia.
E avendo come riferimento non tanto (o non solo) le prossime elezioni politiche, ma anche (o soprattutto) il prossimo appuntamento della Chiesa italiana, a Verona nell’ottobre 2006.
RILANCIARE LA NOSTRA ORGANIZZAZIONE
Abbiamo cercato fino ad adesso di delineare un percorso intorno ad un progetto inserendoci nelle dinamiche evolutive in atto, in autonomia, ma cercando di rapportarci agli altri. Adesso vorremmo dire alcune cose su di noi e sull’adeguatezza del nostro modello organizzativo.
Dobbiamo prima di tutto tener conto delle dinamiche del cambiamento, delle trasformazioni sociali, economiche, politiche.
Occorre, poi, fare i conti con il rilevante decentramento amministrativo che negli ultimi tempi ha anche assunto una nuova e forte dimensione politica, richiedendo un modello organizzativo coerente con le sfide nuove che il territorio propone.
L’organizzazione dunque, la nostra, ha bisogno di una riflessione profonda, non bastano più i semplici e necessari correttivi che abbiamo attuato negli ultimi tempi.
Anche per il MCL la possibilità di rispondere ad un sistema economico e sociale complesso ed in continua trasformazione, ai bisogni diversificati dei nostri iscritti, attuali e potenziali, e di tutti i lavoratori, è legata alla capacità di non presentarsi come una organizzazione “chiusa”; allontanando il rischio che si possa percepire la nostra associazione appesantita da una burocrazia che disaffeziona.
Occorre, invece, rafforzare l’essere di un movimento moderno, leggero, con tanto volontariato, radicato fortemente sul territorio e nelle sue origini, sempre vivo nella tensione verso la solidarietà ancorato alla nostra matrice cristiana; nella capacità di fare alleanze, nel reinventare percorsi e soluzioni nuove. Non è un processo programmabile a tavolino e verticisticamente guidabile.
Ma non cresce nemmeno da sé, spontaneamente. Un progetto ambizioso? Forse, ma noi ci proviamo lo stesso, con grande passione. In questa prospettiva vorrei richiamare.
ALCUNE PRIORITA' INTERNE PER NOI
DI GRANDE IMPORTANZA
I Giovani. Nel percorso congressuale tutti abbiamo notato quanti siano stati i giovani ad avvicinarsi al movimento in questi ultimi anni. Si tratta di una risorsa importantissima che non possiamo disperdere.
La domanda per noi è: cosa fare? Prima di tutto credo che dobbiamo organizzare bene in ogni struttura provinciale un “gruppo giovani MCL”, inteso come luogo di incontro, dibattito, di elaborazione e di proposte di chi, a quell’età, vive l’esperienza di studio e di lavoro. La Presidenza Nazionale farà la sua parte, a partire da questo Congresso; poi, loro decideranno come organizzarsi all’interno del Movimento.
Le donne. Per adeguare il Movimento ai mutamenti in atto nella società e nel mondo del lavoro, c’è un bisogno oggettivo di avere più donne nell’organizzazione e nei gruppi dirigenti. Dobbiamo subito creare le condizioni politiche ed organizzative perché ciò avvenga. Serve una volontà politica, che si esprima attraverso l’assunzione di precisi impegni capaci di garantire l’effettiva presenza femminile a tutti i livelli. Anche se, in questi anni, qualche passo avanti è stato fatto: sono ormai più di una decina le donne presidenti provinciali MCL; e lo fanno bene!
La Formazione. Globalizzazione, nuove tecnologie, nuovi strumenti organizzativi, cambiamenti nella cultura e nei comportamenti: sono tutti fattori che ci impongono di lavorare con quadri e dirigenti preparati, competenti e motivati. Il Movimento deve essere in grado di dare risposte efficaci alle mutate esigenze sia investendo in formazione sia attraverso una collaborazione maggiore tra formazione e sviluppo organizzativo. La formazione, sempre più, deve diventare leva strategica per l’organizzazione. Negli ultimi anni abbiamo fatto importanti passi in avanti.
Una ripresa di attenzione in questo senso già c’è stata ed il suo rafforzamento va considerato come il miglior investimento che possiamo fare. Le iniziative formative, frutto della collaborazione fra Ufficio Formazione e Ufficio Studi, sono aumentate in quantità e qualità. Abbiamo instaurato rapporti con Università e Centri di ricerche, con associazioni italiane e di diversi paesi europei.
Bisogna seminare ancora di più. Tutti, ognuno in riferimento al proprio ruolo, siamo chiamati a contribuire alla valorizzazione del capitale umano di cui disponiamo. Uno sforzo maggiore lo chiedo alle presidenze provinciali: tutte.
Questo significa investire in formazione: dai Presidenti dei Circoli ai dirigenti che operano sullo scenario internazionale, passando per i quadri e i dirigenti intermedi del Movimento e dei Servizi, prestando particolare attenzione all’investimento verso i giovani e le donne. La Presidenza Nazionale costituirà un nuovo DIPARTIMENTO “ad hoc” che recupererà e coordinerà tutte le attività di Formazione, Ufficio Studi, Società Editoriale, (uno strumento che non abbiamo ancora sfruttato al meglio), ed a cui farà riferimento una nuova scuola di Formazione. Il Dipartimento “risponderà “ direttamente al Presidente del Movimento.
I Servizi MCL. Gli Enti ed i Servizi Nazionali sono “il fiore all’occhiello” del Movimento.
I problemi che in questi anni sono stati affrontati e risolti hanno avuto una importanza vitale per tutto il MCL. Essi hanno riguardato non solo gli aspetti operativi nel contesto di una rinnovata “etica” comportamentale, ma hanno investito anche aspetti offerenti ad un necessario equilibrio organizzativo, al fine di armonizzare e ricondurre ad unità tutte le componenti associative e tutti i servizi. L’obiettivo era ed è quello di coniugare la tradizionale attività con la “nuova” vocazione al servizio realizzando il passaggio da “sistema servizi” al “sistema MCL”. Per questo l’esigenza di realizzare un rapporto ancora più stretto fra l’azione politica sociale del Movimento e l’attività dei servizi, in una logica associativa che vede coinvolti tutti i servizi interessati.
Ci troviamo di fronte ad una sfida: fare un salto di qualità per rispondere alle domande sempre crescenti di servizi, riarticolando la nostra presenza organizzativa.
I nostri Enti a diffusione capillare sul territorio, in particolare il Patronato SIAS, il CAF, l’EFAL, la Feder.Agri., la Flac, devono attrezzarsi a fornire un “avvio di gestione e di orientamento” sulle problematiche del mercato del lavoro. Il nostro sistema dei servizi va perciò potenziato e reso partecipe dell’innovazione sociale, in una logica di rete e di cooperazione sociale.
L’obiettivo raggiunto di un contratto nazionale di lavoro UNICO per tutti i Servizi e le Imprese Sociali del MCL rafforza tutto il “sistema Servizi” e ci rende ulteriormente ottimisti per il futuro.
I Circoli. I nostri circoli, le nostre antenne sul territorio, non potranno essere un autentico strumento di evangelizzazione se non diventano componente attiva della Chiesa locale, mettendo al servizio degli altri la loro esperienza associativa, con tutte le strutture organizzative e con tutta la rete dei servizi che il Movimento offre.
Questo rafforzato impegno non è alternativo ma anzi integra e completa l’impegno ricreativo e assistenziale dei circoli. Ricordo ancora una volta un “messaggio” dell’Arcivescovo di Bologna Mons. Carlo Caffarra al Movimento: “Conservate e promuovete la costituzione dei circoli! sono luoghi che, pur nella loro semplicità, hanno una grande importanza. I Circoli sono luoghi in cui si ha la possibilità di condividere e riflettere anche su grandi temi della Dottrina Sociale della Chiesa”. E’ un impegno da rinnovare e rafforzare e riguarda “in primis” le presidenze provinciali.
LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
Non basta reclamare o proclamare “a parole” i diritti uguali per tutti. Occorre anche impegnarsi per raggiungerli. Farlo vuol dire anche rafforzare il nostro impegno per la cooperazione Internazionale.
La stagione che il nostro movimento sta vivendo, frutto di una scelta complessiva generale, deve caratterizzarsi sempre di più in una dimensione di fedeltà ai valori che sono alla base delle nostre origini, adeguando di conseguenza i nostri comportamenti alla coerenza. Le esperienze di questi anni in tema di solidarietà, dalle iniziative per la raccolta di fondi per la remissione del debito nei paesi del terzo mondo, a quelle per sostenere i progetti del CEFA, alle altre molteplici azioni di aiuto per interventi specifici promosse dalle Chiese locali, dall’Africa alla Romania, alla Bosnia, devono considerarsi soltanto un punto di partenza.
La nuova stagione che si apre, infatti, deve essere ricordata per una costante, concreta e convinta azione di solidarietà,a tutti i livelli. Un Movimento come il nostro, infatti, deve avere “ogni giorno” l’obiettivo di fare qualcosa per chi è meno fortunato.
I NOSTRI LAVORATORI ALL’ESTERO
A questi amici un grazie particolare. Ai nostri gruppi in Brasile, Argentina, Uruguay, Venezuela, Stati Uniti, Canada (Toronto e Montreal) e nella vecchia Europa, dai “gruppi storici” in Germania, Belgio, Svizzera ai più recenti in Gran Bretagna, Slovenia, Croazia e Romania il riconoscimento di un impegno costante, coerente, appassionato per tenere alti cultura e tradizioni del nostro Paese, issando la bandiera MCL. Dobbiamo rendere più organico il nostro impegno, anche applicando integralmente lo Statuto del Movimento, e non solo sul piano dei Servizi ma anche, (e soprattutto) sul piano del sostegno per tenere alta la nostra cultura e la nostra lingua: in particolare, adesso che si sta avvicinando la scadenza del voto (un risultato inseguito per decenni). Appuntamento a cui il MCL ha intenzione di essere concretamente presente: ne abbiamo titolo per quello che abbiamo fatto per arrivare a questo risultato, per la rete che abbiamo in tantissimi paesi.
Per tornare al tema del rilancio dell’organizzazione, abbiamo l’urgenza di fare, della nostra, un’organizzazione a rete, che lavori nella consapevolezza che nessuna “struttura” riesce da sola a rispondere all’insieme delle richieste; far crescere la reciproca conoscenza delle iniziative e soprattutto la loro diffusione all’interno di tutto il movimento, al fine di cogliere il valore aggiunto che ne può derivare, rafforzare il loro utilizzo nella formazione a tutti i livelli, sviluppare il senso di appartenenza e la percezione dell’identità del MCL, fuori e dentro di esso.
Si tratta di iniziare un percorso nuovo di rivisitazione interna che abbia le finalità di una riflessione sul modello da ridefinire tenendo presente, come già detto, il necessario “decentramento” e quindi l’esigenza di rafforzare, in particolare, le strutture Regionali; il rafforzamento deve essere sostenuto da un intervento di “bilanciamento economico” e consapevoli della maggiore “debolezza” nelle grandi aree Urbane del nord, per le quali appronteremo iniziative specifiche.
CONCLUSIONI
Cari amici siamo alla conclusione del mandato congressuale un periodo particolarmente impegnativo per i cambiamenti in corso, per la crescita del MCL, per i nostri iscritti che vogliamo rappresentare. Ho detto più volte nei mesi scorsi che “questa organizzazione non ha mai perso una sua identità culturale e politica: questo si è un vero miracolo”. La caratteristica di questa organizzazione è la sua grande capacità di leggere ed interpretare tempestivamente i segnali di un contesto sociale e politico in continua trasformazione (o come ha ricordato il vice presidente Di Matteo in un recente articolo: “quella dimensione di movimento d’anticipo, che da più parti ci viene riconosciuto)”: con umiltà, ma senza mai rinunciare alle nostre promesse di valore. Spero che anche in questi ultimi anni, di essere stato all’altezza di queste caratteristiche: questo noi vogliamo continuare ad essere.
Non spetta a me elencare le cose fatte in questi anni anche se la crescita del nostro Movimento (in Italia, ed all’estero) è sotto gli occhi di tutti, soprattutto la crescita di considerazione, e la crescita del consenso sulle cose che diciamo e che facciamo: in Italia ed in Europa.
Ricordo (e un po’ rivendico) solo due cose:
1) la nostra iniziativa “La Domenica è festa”, durata un anno, che abbiamo concluso alla fine del 2003 con la consegna di oltre 400.000 firme e di centinaia di ordini del giorno approvati da consigli comunali di tutta Italia, nelle mani del Presidente della Camera dei Deputati. Dopo sono arrivati altri, con altre iniziative. Dopo… (un tema comunque ancora di grande attualità e, per noi, di impegno).
2) L’ingresso nel CNEL. La società civile è entrata nel CNEL, l’importante organismo costituzionale rappresentativo delle categorie e degli interessi economici del Paese, e questa volta dalla porta principale. E’ anche un riconoscimento all’associazionismo cattolico (maggioritario fra le nomine del CNEL). E’ un riconoscimento al MCL, fortemente ostacolato solo tre anni fa...
Mi interessa invece, molto, l’autonomia e l’Unità del Movimento per le quali tanto mi sono “speso” in questi anni.
Sul tema dell’autonomia possiamo dare lezioni a tanti: a destra ed a sinistra. L’autonomia e l’Unità del Movimento sono un bene insuperabile e condizione indispensabile per andare avanti con questa Presidenza.
Abbiamo innescato tante speranze, attese, disponibilità. In questi anni tutto è profondamente cambiato e questo nuovo mondo dove viviamo si rivela così profondamente complesso- e perché col mondo anche tutti noi siamo cambiati- mi preme sottolineare l’importanza di questo Congresso. Ovviamente non si tratta di pensare che in questi giorni cambieranno tutto, ma di pensare a questo dibattito non come alla conclusione di un percorso, o al termine di una pur necessaria definizione programmatica, ma come un nuovo inizio.
Inteso tutt’altro che come rassegnazione a ciò che accade, anzi con ottimismo e passione. Si tratta di mettere in campo invece, uno sforzo vero di presenze nel tempo che ci è dato. Certo, bisognerà vedere se poi ci riusciamo. Ma con la coscienza a posto per averci provato. (ognuno “porta un mattone”, dico spesso).
Il rischio che oggi avverto, che stiamo tutti un po’ correndo – e la ragione prima del nostro dover riformarci- è quello di ridurre le nostre organizzazioni “al suo fare”, ad una buona prassi, senza pensiero fondativo ed orientativo. Perché il fare, ed il fare bene, ci vuole, sicuramente, anche nelle condizioni nuove che sono date.
Ma non basta di per sé a rilanciare, rimotivare le persone, i lavoratori, né richiamare all’impegno nelle nostre file i giovani.
Questo è il momento in cui iniziare a verificare, a progettare, a delineare nuovi percorsi capaci di rilanciarne il significato ideale ed il valore nient’affatto strumentale delle nostre presenze e del nostro agire.
Convinti che solo le forze che affondano memorie, radici e percorsi su “valori forti” possano, attraverso gli strumento dell’associazionismo, della cooperazione e anche dell’amicizia pensare di contribuire alla costruzione di un mondo più umano e più aperto, meno soggetto al primato che tende all’esclusiva, poi dell’economico, dell’interesse particolare, della tecnica, del potere.
Se abbandoniamo, tutti, i vecchi schemi ideologici del passato, (che noi peraltro abbiamo sempre contestato), se ci attestiamo sulla dimensione della persona e assumiamo questa dimensione come unica in se irripetibile, di valore inestimabile, vedremo che tramite questo sguardo si potranno realizzare nuovi intrecci e nuovi incontri tra identità, percorsi, esperienze, narrazioni differenti e tuttavia rese compatibili.
E’ un modo di vedere la vita e di vivere, di leggere e interpretare la realtà,di orientare il fare per provocare dinamiche di cambiamento, per sostenere una certa qualità nei rapporti umani, per provocare giustizia nei conflitti sociali, per definirci, con umiltà, veri ricercatori della non violenza e di percorsi di pace e di nuove solidarietà. Anche senza dovere, necessariamente, partecipare a marce, quasi sempre ideologicamente orientate…..Tutto questo può esser giudicato un’utopia. Ma non ci dispiace. Per noi la questione è agire come se fosse possibile. Non possiamo arrenderci all’idea dei tanti che ripetono “che il mondo è sempre andato così”. E così dicendo non fanno niente per non farlo più andare così…….
Forti di queste convinzioni lanceremo da questo Congresso anche due Campagne di informazione e sensibilizzazione su due temi che a noi stanno molto a cuore:
La Riforma del mercato del Lavoro: che vogliamo completare, ma dire che la riforma Biagi ha creato maggiore precarietà è ingeneroso e falso. Inizieremo domani mattina con la presenza del prof. Tiraboschi e di Natale Forlani.
Una campagna per “l’emersione del lavoro nero”. Un fenomeno che penalizza gravemente l’Italia (ed i lavoratori) e su cui alcuni imprenditori “marciano vergognosamente”. Lo faremo anche con proposte concrete, originali, che troverete nella ricerca del nostro Ufficio Studi.
Abbiamo scritto nell’ultima parte delle tesi congressuali:
“Un movimento dinamico che vuole incidere nella società, che vuole avere un ruolo attivo nella politica, che vuole prestare servizi sempre più efficienti, ma soprattutto un movimento ecclesiale, non può appiattirsi su posizioni conservatrici, nella nostalgia di un passato, certamente carico di gloria, ma che non c’è più. La storia ha dato ragione alle nostre scelte, noi siamo contenti, ma dobbiamo necessariamente guardare al futuro, perché altrimenti la ricca eredità del passato si esaurirà”
E, sottolineando quella che è la caratteristica fondamentale di questa organizzazione, né “movimentista” né “burocratizzata”: la sua grande capacità di leggere ed interpretare tempestivamente i segnali di un contesto sociale e politico in continua trasformazione, con umiltà (dico sempre) e senza rinunciare mai, lungo il corso degli anni, alle nostre premesse di valore.
Valori e radicamento sociale ci permettono di non sottrarci alle sfide del cambiamento, di riprogettare e costruire un ruolo del Movimento dei lavoratori in grado di vivere queste sfide tenendo insieme sviluppo, giustizia e libertà.
Con questo spirito e con queste motivazioni ringrazio tutta la Presidenza Nazionale, per il lavoro che ha fatto, il supporto ed il sostegno, spesso immeritato, che mi ha dato, poi il Comitato Esecutivo Nazionale, il Consiglio Nazionale, i dirigenti e collaboratori di tutti gli Enti e servizi, gli iscritti al Movimento.
Cari amici in questi anni, è stato un lavoro faticoso, ma devo ammetterlo, anche molto entusiasmante.