La difficile condizione del Paese, il riemergere, accentuati dal coacervo legislativo, dei difetti del nostro apparato amministrativo, le incertezze sulle prospettive della ripresa, rischiano, con il crescente smarrimento, di nascondere le sedi nelle quali individuare le responsabilità per tracciare la strada da percorrere per uscire dalla crisi.
Si afferma, giustamente, che la cura ed il controllo definitivi del covid 19 dipenderà dal vaccino del quale si potrà disporre non prima del 2021. C’è, anche, un ulteriore essenziale aspetto esterno, che ci riguarda da vicino e cioè che ci occorrono, a tempi brevi, risorse aggiuntive che l’Europa, in parte, ha già individuato ed altre che si predispone ad approvare ed assegnare, qualora venissero richieste, come ai più appare necessario ed utile.
A queste variabili, in qualche modo indipendenti, si affiancano possibilità e questioni interne, affidate, cioè, alla sola responsabilità di chi è chiamato a governare il Paese, ovvero e meglio, di chi dovrebbe rappresentare una sofferente società che intende riscattarsi ed è costituita dai lavoratori, dai produttori, dai giovani che vogliono formarsi o che hanno studiato e desiderano costituire una famiglia, dai territori con la loro ricchezza civica, ma anche da chi è arrivato nel nostro Paese sperando in un futuro migliore. A tutti coloro che vivono in Italia occorre dare risposte subito. Di queste, le più determinanti non dipendono da altri, ma dalle nostre istituzioni.
Le difficoltà e i problemi scaturiti con l’epidemia, hanno reso più evidente, come una cartina di tornasole, aspetti inadeguati di parti essenziali del nostro ordinamento, piegate ad una prevalente logica di potere piuttosto che di servizio, rappresentanza, partecipazione. Emblematico è stato l’emergere di una drammatica degenerazione di una parte della magistratura che si è presentata con il volto di un importante ex componente del CSM che ha raccontato come tutta la sua attività fosse volta a costruire e realizzare accordi e mediazioni di potere tra le associazioni rappresentative per l’assunzione degli incarichi di vertice, con il corollario del rapporto non episodico con esponenti di partiti.
Ci sono ritornate in mente le dure, ma profetiche parole pronunciate da Francesco Cossiga nel gennaio del 2003: “quello della giustizia è il più grave dei problemi del nostro Paese”, aggiungendo “il principale ostacolo alla soluzione di questo problema è la pervicace ostinazione di una parte dei magistrati nel concepire il proprio ufficio non come servizio, ma come potere”.
Anche nel delicato rapporto tra Governo e Parlamento qualcosa di decisivo non ha funzionato. L’eccezionalità ha aperto all’uso disinvolto del potere. Non siamo certamente nella condizione di prologo della dittatura, teorizzata da Carl Schmitt, anche se voci importanti si sono levate con preoccupazione. Ultima quella autorevole di Lorenzo Ornaghi per il quale l’eccezionalità non può giustificare “atti di comando … incoerenti o contraddittori rispetto alle tavole di valori su cui si fonda la democrazia rappresentativo-elettiva”.
Centralizzazione dei provvedimenti con scarso o nullo dialogo sociale e istituzionale; cancellazione del previsto controllo a priori esercitato dal Presidente della Repubblica, con l’utilizzo abnorme dello strumento amministrativo del Dpcm, rispetto alle leggi e ai decreti ordinari; costituzione di comitati tecnici con l’obbiettivo di declinare responsabilità che attengono alla decisione politica sostituita da una invadenza tecnocratica del tutto priva di connotati sociali; autoreferenzialità della maggioranza di governo con l’uso del voto di fiducia ed il rifiuto della collaborazione emendatrice delle forze di minoranza, nonostante gli appelli del Capo dello Stato ad una maggiore solidarietà istituzionale. La proposta assemblearista degli “Stati generali dell’economia” di Conte è un astuto diversivo. Il vero luogo del confronto costruttivo è nel Parlamento anche con le forze sociali e produttive. C’è il rischio reale di scavare solchi non colmabili tra le diverse articolazioni istituzionali.
La politica complessivamente non è consapevole del suo scadimento nel personalismo, nell’essere ormai solo o quasi comunicazione e non vera decisione partecipata, in un velleitarismo privo di incisività, in un arco chiuso, nel quale si rinserrano larga parte dell’opposizione e della maggioranza tra la protesta e il politicamente corretto, ambedue ossessivamente contrapposti, che i social amplificano e moltiplicano, distogliendo dalla vera questione che dovrebbe porsi e cioè: come e con quali mezzi, con quale strategia e con quali cambiamenti affrontare il nostro futuro per non essere tagliati fuori o degradati rispetto al quadro europeo e internazionale. Si percepisce il danno dovuto al fatto che le migliori culture politiche europee (popolarismo e socialdemocrazia) in Italia sono emarginate.
Manca una strategia industriale, si esprimono dubbi sulla nostra effettiva capacità di spesa dei fondi europei; la logica della convenienza partitica prevale sull’interesse generale, dimostrato da nomine decise in piena pandemia e, soprattutto, non c’è una visione delle vere esigenze del nostro modello civile ed economico–sociale, costituito, come è stato rilevato “da migliaia di piccoli e medi comuni e di una miriade di piccole e piccolissime attività produttive che non possono lavorare in smart working ma che debbono continuare a lavorare in fabbrica e negli uffici…”. Occorre, come ha spiegato Giulio Sapelli, intervenire “sostenendo la creazione di posizioni lavorative di salvaguardia e non distruggendo le comunità di lavoro”, poiché, aggiunge “l’Italia che lavora esiste e deve iniziare a essere riconosciuta per quello che è: l’ultima nostra speranza”. Al contrario incombono le ricette economiche che prevedono solo la tutela e la spinta alla grande dimensione produttiva, l’informatizzazione generalizzata e l’accelerazione delle procedure fallimentari per chi soccombe, in una logica di darwinismo economico, secondo le ipotizzate proposte, anticipate da Milano Finanza, che Vittorio Colao sta preparando da Londra, da cui non si è mai voluto allontanare. E neppure ripartire solo da “auto e acciaio” come sostiene il vice direttore del Corriere della Sera.
L’azione del governo ha dato prova di inadeguatezza nell’esecutività degli interventi nei quali, comunque non si intravede una articolazione sostenuta da una visione complessiva. Clamorose le inadempienze sulla Cassa integrazione e il paradosso di porre sullo stesso piano gli incentivi per i monopattini e per il settore automobilistico. Neppure si prende in considerazione l’opportunità di sostituire i ministri che hanno dimostrato palesi incapacità sulla giustizia, sull’istruzione, sul lavoro. E non solo. Le critiche dei vertici di Banca d’Italia e Confindustria hanno assunto un tono radicale. Sono segnali che preoccupano a prescindere da una condivisione o meno. L’accordo di governo e la sua salvaguardia a priori ha pietrificato ogni identità politica dei suoi componenti. La ragione della continuità ad ogni costo prevale su tutto. Non c’è più traccia dei fermenti innovativi mal posti ma branditi dai pentastellati e neppure di quelle istanze sociali che un tempo animavano la sinistra. C’è da registrare anche una inadeguatezza di parte dell’opposizione. Rispetto alle “sfuriate” di Salvini, si distingue l’operosa capacità di governo di Zaia e il razionale invito ad una governabilità solidale ed alla moderazione dei vertici dei popolari italiani.
Stiamo, peraltro, assistendo ai primi segnali di sollecitazioni ribelliste; un clima più pesante potrebbe sorgere con l’autunno se non si paleserà la ripresa economica del Paese, in coincidenza con lo svolgimento delle elezioni amministrative che avranno un evidente carattere politico. La partita decisiva sarà quella.
Sta maturando il tempo nel quale, oltre a più adeguate ricette economiche, si debba intervenire con un diverso quadro politico. Ci si deve domandare, ancora con Ornaghi: “chi governerà la ricostruzione?” ed è “aleatorio” tentare di rispondersi in presenza di “una protratta ed esasperata conflittualità inter- e intrapartitica… sempre più incomprensibile e insostenibile da parte dei cittadini”.
Verosimilmente una unica certezza e necessità: occorre una “ricetta” politica nuova. Qualcuno, usando una efficace metafora, ha detto uno spartito, una musica, orchestrali e direttore nuovi.
Pietro Giubilo
Vice Presidente Fondazione Italiana Europa Popolare