Dunque, dopo aver perseguito l’obiettivo per anni in mezzo a mille giravolte, con una determinazione che più di una volta ha sconfinato nella spregiudicatezza, Boris Johnson è finalmente riuscito a diventare Primo Ministro. In questi giorni sui mezzi d’informazione si è parlato principalmente della vita privata e del carattere esuberante del nuovo Premier: impulsivo, iracondo, guascone, amante dell’alcool e delle belle donne. Ovviamente, non è questo il punto e non sono questi i motivi per cui Boris Johnson alla guida del Regno Unito è una pessima notizia, altrimenti cosa dovremmo pensare di Winston Churchill? Cerchiamo allora di centrare le cose veramente importanti: lo strumento usato da Johnson per arrivare a Downing Street, ossia l’uscita del Regno Unito dall’UE, e le sue premesse sociali e culturali. A ben vedere, infatti, la notizia peggiore è la trasformazione sociale e culturale che ha portato gli inglesi a sostenere Nigel Farage, Boris Johnson e la Brexit.
Al di là delle fosche previsioni economiche formulate da molti esperti circa le conseguenze della Brexit, emerge un problema di natura politica che permarrebbe anche nel caso in cui le previsioni economiche negative fossero smentite. Il Regno Unito è diventato una grande potenza e un modello politico-istituzionale in virtù della sua apertura. La centralità del parlamento si è sviluppata attraverso l’apertura della monarchia alle esigenze dell’aristocrazia e poi della borghesia. L’economia si è sviluppata grazie all’apertura ai mercati mondiali, che anzi l’Inghilterra ha contribuito in maniera decisiva a creare. I settori trainanti di oggi, ossia la fornitura di servizi avanzati, soprattutto in ambito finanziario, e le attività che ruotano intorno al settore della conoscenza, a cominciare dal rinomato sistema universitario, sono quello che sono grazie alla loro apertura sul mondo e al contributo di migliaia di lavoratori stranieri. Il fascino e la forza della Gran Bretagna stanno nella sua apertura. Boris Johnson dovrebbe saperlo bene, avendo studiato a Oxford ed essendo stato sindaco di Londra, dunque fortemente esposto all’apertura che ha fatto grande il suo Paese.
Se però il successo inglese è fortemente legato all’apertura verso il mondo, com’è possibile che una fetta così larga della società inglese sostenga un’agenda di chiusura e di isolamento? Semplice: non tutti beneficiano delle conseguenze dell’apertura. Ci sono aree dell’Inghilterra e interi strati sociali che guardano al dinamismo londinese e alle eccellenze educative come a qualcosa di estraneo rispetto alla loro vita quotidiana, una realtà che scorre parallela e li ignora. Oltremanica l’esclusione sociale, l’atomizzazione della società, l’espulsione dei lavoratori causata dalla trasformazione dei processi produttivi sono problemi gravosi e difficilmente percepibili dall’esterno, ma sono causati dall’Unione Europea? Si tratta di fenomeni complessi, che hanno a che fare con la trasformazione a lungo termine della società britannica, con i processi di globalizzazione dell’economia molto più che con l’Unione Europea e che sono stati ignorati da quell’élite politica ed economica che di quel sistema godeva i frutti e di cui Boris Johnson fa pienamente parte.
Alla fetta del Paese spaesata e frustrata, Boris Johnson e il suo compagno-rivale di sempre David Cameron, autore del più clamoroso suicidio politico che la storia europea degli ultimi sessanta anni ricordi, e che aveva inspiegabilmente affascinato anche alcuni cattolici liberali nostrani, non hanno offerto una vera soluzione, bensì un capro espiatorio. Cinicamente, hanno cavalcato insieme la paura e la rabbia dell’Inghilterra esclusa, prima inseguendo insieme il nazionalismo di Farage e poi Johnson ha proseguito la corsa indicando nell’UE la radice di tutti i mali britannici, propugnando la Brexit anche a prescindere da un accordo con Bruxelles. Incapaci di elaborare soluzioni innovative ed efficaci a problemi complessi e strutturali, i nuovi esponenti dell’élite inglese hanno irresponsabilmente rinunciato al loro ruolo di guida e hanno deciso di assecondare la pancia di un elettorato arrabbiato che stava per sfuggire loro di mano.
La strategia brevemente delineata in parlamento da Johnson, basata sulla rottura con l’UE come se dal giorno dopo il proprio governo non fosse costretto a intavolare lunghi e complessi negoziati con quello che rimane il primo partner economico e commerciale britannico, e su un’imprecisata partnership globale con l’amministrazione americana più erratica degli ultimi decenni difficilmente porterà benefici alla Gran Bretagna profonda. Tuttavia, al di là dei risultati concreti, la scelleratezza maggiore consiste nel metodo: scommettere sulla chiusura, la paura, il ritorno a un passato ormai scomparso invece che sull’apertura, la condivisione e l’innovazione, magari ponendosi alla testa di un processo riformatore che l’UE attende ormai da troppi anni.
Stefano Costalli