A sessant’anni dal Concilio Vaticano II, la sfida che attende la Chiesa rimane quella di “…mettere in campo percorsi sinodali capaci di dare voce ai vissuti e alle peculiarità delle nostre comunità ecclesiali, contribuendo a far maturare, pur nella multiformità degli scenari, volti di Chiesa nei quali sono rintracciabili i tratti di un Noi ricco di storia e di storie, di esperienze e di competenze, di vissuti plurali dei credenti, di carismi e ministeri, di ricchezze e di povertà”. Con queste affermazioni il Presidente della Conferenza Episcopale italiana nella prolusione all’ultima Assemblea dei vescovi, raccoglie e rilancia l’obiettivo della sinodalità nella Chiesa, come richiestoci da papa Francesco.
Un cammino sinodale per la Chiesa che è in Italia, che non ha lo scopo di generare, come taluni credono, processi democratici del tipo: “una testa un voto”, quanto piuttosto di affermare il primato della qualità delle relazioni personali di reciproca autenticità nella testimonianza e trasmissione della fede. Un fatto questo che non ha un fondamento solo sociologico, quanto il fondamento Trinitario della rivelazione cristiana, come indicato dal documento conciliare Dei Verbum. Sinodalità dunque quale esercizio della Chiesa-comunione che è tale proprio perché è capace di tenere insieme la dimensione della relazione e dell’ascolto reciproco con il compito della tradizio cristiana: testimonianza-trasmissione della fede. Ciò sarà a condizione che sia eluso il rischio di ridurre quest’ultima ad aspetto marginale, tanto più che la nostra società proprio a questo orienta: la logica dei “diritti rivendicati a maggioranza” applicati alla vita ecclesiale rischierebbe di oscurare la dinamica per sé personalizzante della fede. Quello che immaginiamo sarà una sinodalità capace di promuovere migliori relazioni personali e comunitarie come anche un’autentica trasmissione della fede.
La crisi antropologica nella nostra società secolarizzata investe la trasmissione nella relazione tra le persone a cominciare da quella basilare tra uomo e donna; la crisi della trasmissione della fede è ovviamente connessa a questa crisi antropologica. Il processo di trasmissione che oggi sembra più declinarsi in termini di transizione della società nei suoi molteplici aspetti, transizione che ha la cifra di una emancipazione dalla società cosiddetta “tradizionale” dove la trasmissione del senso della vita e della fede avveniva di “generazione in generazione”. Ciò implica l’espulsione progressiva del fatto religioso come contesto adeguato in cui avviene la trasmissione dei valori e dei significati, in quanto ancorato a un mondo religioso che non avrebbe alcun diritto di cittadinanza nella società laica di transizione. Appare ancor più difficile cogliere il nesso tra trasmissione come fatto antropologico e sociale e quello della fede come fatto religioso. Questa criticità che oggi viene spesso sottaciuta, nella prospettiva sinodale dovrebbe assumere il punto di partenza per un autentico cammino ecclesiale, offrendo anche un orizzonte alla crisi culturale della nostra società, appoggiandosi sulla capacità di mostrare come le relazioni e le dinamiche sociali vissute nella comunità cristiana nella loro qualità più autentica, attingano alla comunione con il Dio Trinità.
La Chiesa di comunione, recepita come la prospettiva più significativa del Vaticano II, mostra il vero volto profetico del Concilio proprio in questa transizione epocale. La sinodalità come “Chiesa in comunione” esige la riscoperta e la ripresa della visione profetica del Vangelo, come pure la dimensione storico–sociale ad essa connessa. Così la Chiesa viva la sua vera missione: testimoniare nella storia l’Evento di grazia di cui è fatta Dono. Recuperare la prospettiva sinodale in un’ottica di comunione significherà allora per la Chiesa italiana non tanto darsi una “sistematina democratica”, quanto cogliere l’opportunità di rinnovare evangelicamente, dal di dentro, le relazioni personali e strutturali della Chiesa, a tutti i livelli. Confidando nella forza dello Spirito.
don Francesco Poli