F. Gerace
dicembre 2002
PREFAZIONE
del prof. Lorenzo Ornaghi
Magnifico Rettore
Universita’ Cattolica Sacro Cuore, Milano
Se il traguardo dei trent’anni di vita rappresenta una soglia importante per qualunque realtà associativa, si può forse affermare che la stessa scadenza assume, per un movimento cristiano, un ulteriore valore simbolico. In un’ottica evangelica, infatti, si tratta dell’età che segna l’ingresso nella fase pienamente adulta della vita e, quindi, di un momento fondamentale per la maturazione di un percorso.
Per diverse ragioni facilmente intuibili, però, il simbolismo non può spingersi oltre, anche perché i primi trent’anni di vita del Movimento Cristiano Lavoratori non possono certo essere definiti trent’anni di “vita privata”. Al contrario, sono stati trent’anni di vita spesi nel tentativo umano e perciò stesso fragile, ma affascinante, di vivere e operare nel mondo del lavoro e dell’impegno sociale, per testimoniare così la fedeltà a quell’Annuncio proposto alle genti del mondo, a partire dai tre anni di “vita pubblica” più importanti della storia.
Ma quali sono state e quali sono le caratteristiche - parafrasando Hans Urs von Balthasar - di questo “impegno cristiano nel mondo”? Rispondere a questa domanda ci pare il metodo più adeguato per comprendere, senza arrestarsi alla superficie sociologica e politologica, la soggettività specifica del MCL e le dinamiche più profonde che hanno condotto i suoi dirigenti, unitamente a tutti coloro che li hanno seguiti, all’assunzione di scelte, prese di posizione e azioni, in più di un caso sofferte, coraggiose, quando non addirittura rischiose.
Del resto, il primo dovere di uno studioso è quello di non escludere aprioristicamente nessuna delle connotazioni con cui un fenomeno si propone. Nella fattispecie, la caratterizzazione del MCL come movimento ecclesiale (formalmente sancita nel primo articolo del suo statuto) non può essere per nulla rimossa dall’analisi della sua concomitante caratterizzazione associativa di tipo “laico”.
In quanto cattolici
In un passaggio importante di questo libro, l’attuale Presidente nazionale nel ribadire la duplice natura del movimento, fornisce un’indicazione sul tipo di rapporto sussistente fra i due aspetti: “Ecclesialità è un termine esigente, che impegna tutti noi a modificare il modo di agire e di vivere la vita associativa nel suo complesso”. Questa semplice affermazione, apparentemente rivolta soltanto all’interno dell’organizzazione, introduce in realtà ai criteri d’azione propri del movimento, per altro ben esplicitati da un’altra proposizione di Costalli, pronunciata quasi per inciso, laddove afferma che: “il nostro ruolo, in quanto cattolici, è quello di coniugare il possibile con il giusto, senza inseguire teorie astratte”. Si tratta, in fondo, della riproposizione in termini genuini di un “realismo” profondamente ancorato nella concezione cristiana della politica e dell’impegno sociale.
In una prospettiva di realismo, l’uomo non è mai visto come un essere angelicato. Conseguentemente, anche il tipo di convivenza che esso organizza e le strutture che costruisce non sono mai considerate e valutate senza tener conto dell’ipotesi ermeneutica (e, per chi crede, della verità di fede) del “peccato originale”. Da questa constatazione non deriva un ripiegamento cinico o anarco-individualista alla Max Stirner (che nella sua opera più nota L’unico e la sua proprietà si battè, non senza ragioni, contro l’irenismo collettivista e utopistico della sinistra hegeliana), bensì viene esaltata la necessità di operare assieme ai propri simili affinché la quotidianità e le circostanze che la definiscono possano migliorare, possano essere meno ostili alla persona concepita nella sua integralità. Il procedere di chi si muove con questa convinzione, è dunque un procedere guidato dalla ”prudenza” e, al di là del temperamento caratteristico di ciascun individuo, è un avanzare quasi per approssimazione, “come a tentoni”. Ecco allora che anche in un’ottica laica, non viziata dall’utopia e dal mito dell’uomo (o dell’umanità) come misura di tutte le cose, il riconoscimento del proprio limite agevola la consapevolezza di avere bisogno degli altri. In altre parole rende possibile un umanesimo solidale.
L’espressione in quanto cattolici, quindi, che in un’ottica distorta da eccessivo laicismo potrebbe apparire come una formulazione di tipo confessionalista, quasi di chiusura, non solo non costituisce in alcun modo un obbligo per l’ipotetico interlocutore ad abbracciare la premessa ideale di partenza, ma è piuttosto un richiamo ai credenti a dare il loro contributo, con umiltà, senza fabbricarsi idoli. Il richiamo alla propria appartenenza ecclesiale, pertanto, si configura come il migliore antidoto al cristallizzarsi della partecipazione in militanza ideologica e dell’organizzazione in un apparato autoreferenziale. Qui si trova, a mio avviso, più ancora che in una pure apprezzabile volontà di aggiornamento, la spiegazione della capacità di stare al passo con i tempi. Si sta davvero al passo con i tempi (che è cosa diversa dall’essere travolti e trainati dalle mode imperanti), se il cuore della propria azione risiede in un punto ideale, ma allo stesso tempo capace di rimanere ben dentro alla realtà.
Tradizione come fattore di attualità
Proprio la capacità di coniugare identità e concrete risposte alle sfide di un mondo in continua e veloce evoluzione, mi pare essere una dote riscontrabile nella storia della realtà di cui stiamo celebrando il trentennale. MCL nacque all’inizio degli anni settanta, in un contesto che oggi sembra lontano anni luce dai nostri giorni. Nacque consapevole di essere l’erede, come spiega bene Costalli, di una storia più lunga: “il nostro è un movimento di lavoratori che viene da una tradizione con radici antiche, cioè dall’inizio del secolo scorso, quando la presenza dei cattolici nella società italiana diventò una scelta in parte indotta dalla Chiesa stessa (i tempi erano maturi) e in parte una necessità, perché i cattolici, allora come oggi, rischiavano di essere schiacciati e cancellati dal laicismo imperante”.
La cosa che più sorprende, nel ripercorrere i momenti salienti della vita del movimento, esposti con agile prosa dal curatore dell’opera, è proprio una pratica equilibrata, tuttavia tenace, della virtù della lungimiranza, della capacità di giudizio storico non condizionato eccessivamente dalla “cronaca” (e dai commenti, magari autorevoli, che la stravolgono).
Sin dagli inizi, in un contesto generale in cui con piglio dogmatico - anche in molti ambienti del mondo cattolico - si propugnava l’assioma secondo cui “tutto è politica” (espressione che sembrava prefigurare un moderno panteismo in cui la “nuova divinità” tendeva a riassumere come sue parti – in fondo prive di autonoma consistenza - tutto il resto, fede, arte, scienze incluse), i fondatori di MCL riuscirono ad affermare, seppure scontando il linguaggio dell’epoca, la possibilità di rivendicare un altro modo di intendere l’uomo, il suo rapporto con il lavoro e, in ultimo, il suo rapporto con la propria realizzazione personale. Il curatore del volume, con legittimo orgoglio, ha riportato in appendice una selezione dei messaggi che i Pontefici hanno inviato al movimento. E' commovente e al tempo stesso molto significativo rileggere le parole che Papa Montini, primo testimone delle inquietudini che allora attraversavano il popolo di Dio, rivolse, in occasione dell’Angelus dell’8 dicembre 1972, ai congressisti che, pochi istanti prima, avevano sancito l’unificazione tra Federacl e Mocli, dando vita al Movimento cristiano lavoratori: ‘’Sappiamo che è presente un gruppo di lavoratori cristiani, fedeli ai loro principi morali e sociali, fiduciosi di portare nella propria vita e nel mondo del lavoro moderno una testimonianza di fede, di solidarietà, di rivendicazioni sociali, di elevazione morale e civile. Vi salutiamo di cuore e ci compiaciamo con i vostri rinnovati propositi d’unione di attività’’. Paolo VI seppe esprimere, con geniale sintesi e in poche battute, tutto un programma d’azione: testimoniare la fede attraverso la solidarietà e l’impegno per il miglioramento sociale, morale e civile dei lavoratori.
Un altro esempio della capacità di precorrere i tempi è riscontrabile nel fatto che, subito dopo la fondazione di MCL, alcuni attivisti emiliani, seguendo l’intuizione secondo cui anche l’impegno sociale non poteva limitarsi a un ambito nazionale, diedero vita a una ONG (il CEFA), impegnata nei paesi in via di sviluppo con lo scopo primario di aiutare e responsabilizzare quelle popolazioni nelle loro terre d’origine. Sull’onda di questa esperienza maturata sul campo, alcuni anni dopo (ma molto prima che l’Italia e gli altri paesi europei si trovassero ad avere a che fare con l’attuale ondata migratoria), MCL propose formalmente al governo allora in carica di incrementare i fondi, giudicati del tutto insufficienti, da destinare a progetti in favore dei paesi più svantaggianti. Solo più tardi, anche altri soggetti si resero conto dell’importanza di questa battaglia e della necessità di farne un punto forte dell’azione della comunità internazionale.
Ancora, non può non destare stupore il fatto che nel marzo 1982 MCL organizzi un convegno dedicato ai temi della pace e intitolato “Superare Yalta”: concepito sette anni prima della caduta del muro di Berlino, il convegno già di per sé dà conto di che cosa si intenda per realismo cristiano e lungimiranza politica. La fedeltà al Magistero della Chiesa ebbe un ruolo importante nel sostenere lo sguardo sul presente. Le parole dell’allora Presidente Lucio Toth sono, da questo punto di vista, assai illuminanti: “una linea che discende direttamente dalla condanna della logica dei blocchi e delle conseguenti egemonie che, senza esitazioni è stata pronunciata da Giovanni Paolo II e che è d’altro canto, patrimonio tradizionale ed inalienabile dello stesso mondo cattolico italiano”. Non è di secondaria importanza sottolineare che questa stessa impostazione fu poi alla base, nei giorni del dilagante entusiasmo successivo al 1989, della consapevolezza che i problemi del mondo non erano certo risolti con la caduta del muro di Berlino, e che anzi la fine del “pericolo comunista” non doveva generare una nuova e pericolosa illusione, proprio perché si aprivano anni di lavoro ancora più serrato verso l’est europeo ed il sud del mondo.
Il libro ripercorre altri momenti importanti della nostra storia che vanno dagli anni bui del terrorismo sino al periodo di Tangentopoli. E certamente colpisce, oggi, rileggere alcuni richiami che la dirigenza del MCL pronunciò nel 1986 circa il ritorno alla politica dei grandi leader popolari europei (a partire da De Gasperi e Adenauer), proposti sia come antidoto alla degenerazione della politica in malaffare, sia come incoraggiamento alla ripresa del cammino verso l’unità europea.
In divenire
Il Movimento Cristiano Lavoratori è una realtà associativa di evidente rilevanza, alla cui vita partecipano migliaia di persone e le cui sedi sono presenti non solo su tutto il territorio nazionale, ma anche - quale sviluppo logico, benché non scontato, dell’intuizione di cui si è detto poco fa - in diverse nazioni europee e dei due emisferi americani. L’attività dell’organizzazione si concreta sempre più in opere di assistenza in molteplici ambiti: lavoratori, pensionati, invalidi, solidarietà internazionale, cooperazione e non profit. Siamo dunque di fronte al frutto maturo dell’adesione di tante persone alla costruzione di un progetto di grande respiro civile. è questa l’età adulta del movimento. Gli attori di una tale adesione sono in primo luogo “cittadini”, ed il loro contributo è una modalità di “partecipazione” attiva alla costruzione della società italiana.
Fortunatamente, stiamo vivendo un momento storico in cui, un po’ per necessità e un po’ per scelta responsabile, Il “sistema istituzioni” sta prendendo atto della necessità di coinvolgere queste forme associative e partecipative nell’esercizio di una nuova governance. Ecco allora che, per i movimenti come il MCL, si aprono nuovi importanti campi di azione e influenza. Per la loro esperienza, il loro patrimonio di relazioni, la loro consolidata organizzazione, essi possono, da un lato, fornire indicazioni importanti ai diversi legislatori (regionali, nazionali, europei) e, dall’altro, esercitare un ruolo di stimolo e di guida per tante realtà auto-organizzate che, nate dal basso, abbisognano di punti di riferimento autorevoli anche all’interno del terzo settore. MCL ha nel proprio corredo genetico quei caratteri necessari per fornire un contributo qualificato, affinché - per rimanere nel panorama italiano - l’avvio della “sussidiarietà verticale” possa tradursi in una concreta apertura ai corpi sociali intermedi che “presidiano” il territorio, nel senso di un concreta attuazione della “sussidiarietà orizzontale”.
Di fronte alla forza gigantesca dei processi internazionali che sembrano guidare l’andamento del mondo, tutto ciò potrebbe sembrare soltanto uno sforzo velleitario. Ma, significativamente, anche la posizione espressa in questo volume sulla globalizzazione non si lascia ingabbiare dentro lo schema facile e ideologico “pro-global” versus “noglobal”. Se la globalizzazione risulta inarrestabile (illusorio e dannoso sarebbe quindi il tentativo di bloccarla), si deve però almeno tentare di governarne i processi più dirompenti. Per farlo - scrive Costalli - “serve un’etica della globalizzazione, in grado di fornire criteri di giudizio e di valutazione (…) per discernere (…) i rischi dalle opportunità”, aggiungendo opportunamente che “senza etica, la globalizzazione porta ad aumentare la concentrazione del benessere nelle mani di pochi (cosa che peraltro sta già accadendo), e ad ampliare l’area di quanti soffrono per la povertà e l’ingiustizia. Noi riteniamo che ciò sia profondamente sbagliato. Ma su questo non ci limitiamo alla lamentela(…)invitando le autorità e le istituzioni a spingere per creare una sorta di ‘governance’ del sistema globalizzato, cioè fare in modo che governi e paesi definiscano un quadro di leggi, di regole e di istituzioni che consentano di governare questo processo”.
Ancora una volta, non è possibile non verificare la consonanza con le parole pronunciate dal Papa, nel corso della recente visita al Parlamento italiano, quando, dopo aver osservato che il: “nuovo secolo da poco iniziato porta con sé un crescente bisogno di concordia, di solidarietà e di pace tra le Nazioni: è questa infatti l’esigenza ineludibile di un mondo sempre più intraprendente e tenuto insieme da una rete globale di scambi e di comunicazioni, in cui tuttavia spaventose disuguaglianze continuano a sussistere”, così ammonisce: “Il carattere realmente umanistico di un corpo sociale si manifesta particolarmente nell’attenzione che esso riesce ad esprimere verso le sue membra più deboli.”
Davvero non trovo parole più adatte, per esprimere quell’ideale di umanesimo solidale che il Movimento Cristiano Lavoratori propone da trent’anni a tutti noi.
Prof. Lorenzo Ornaghi
Magnifico Rettore
Universita’ Cattolica Sacro Cuore, Milano
DA QUI AL FUTURO:
INTERVISTA CON IL PRESIDENTE
CARLO COSTALLI
L’8 dicembre del 2002 il Movimento Cristiano Lavoratori compie trent’anni. Un compleanno importante. Ricco di significati e di ricordi, carico di memorie provenienti dal passato. Aperto agli interrogativi suscitati dal presente e alle incognite del futuro.
In questi decenni il mondo si è evoluto in fretta, la società si è trasformata rapidamente. Anche l’associazionismo non è più lo stesso. L’Italia del nuovo secolo sembra distante mille generazioni rispetto all’Italia di trent’anni fa o di cinquant’anni fa o di sessant’anni fa.
Eravamo un popolo di emigranti in cerca di fortuna lungo le vie del mondo, e ora siamo diventati la meta degli infelici di tanti angoli della Terra, che scappano dalla fame e dalla povertà.
Eravamo un paese stremato dalla guerra che avevamo perso, e ora i nostri soldati spesso e volentieri s’imbarcano armati di tutto punto per intervenire nelle situazioni calde del pianeta a cercare di portare un pò di pace.
Eravamo una nazione che cercava di diventare più unita e coesa dalle Alpi alla Sicilia, e oggi assistiamo a fermenti di disgregazione, a spinte neanche nascostamente secessioniste.
Eravamo una terra ricca di fede e di opere, oggi siamo un paese fortemente secolarizzato, nel quale la fede cattolica fa fatica non ad affermarsi ma semplicemente ad essere colta e visibile, e le opere che dalla fede nascono vanno riducendosi o cambiano di volto.
Eravamo forse l’unica nazione del mondo dove c’era al governo, e c’è rimasto per decenni, il partito dei cattolici. Oggi quel partito è stato spazzato via, e nella politica i cattolici ricoprono un ruolo minoritario nei numeri, insufficiente nei contenuti.
Eravamo trent’anni fa nella Chiesa dell’immediato post-Concilio, guidata da Papa Montini, sofferente per le inquietudini che attraversavano il popolo di Dio e preoccupato per una società che sembrava inseguire orizzonti pericolosi. Siamo adesso, tre decenni dopo, la Chiesa di Giovanni
Paolo II, sofferente per i poveri del mondo, e che ha preso su di sé, sul suo povero fisico di ottantenne, il peso della Storia.
Eravamo un paese che assisteva inquieto al passaggio dagli anni del favoloso boom economico a quelli disgraziati della contestazione finita poi nella stagione del terrorismo. Ma anche quella è passata, nonostante i rigurgiti di violenza che periodicamente insanguinano le nostre strade e le nostre famiglie.
Insomma, eravamo tante cose che non siamo più. E saremo tante altre cose che ancora non immaginiamo, ma che vorremmo conoscere, che certamente desideriamo almeno intuire. Il mistero del futuro, l’ignoto che c’è dietro la porta dei tempi, affascinano e intimoriscono gli uomini, alimentando incertezza e curiosità. Questo accade da che mondo è mondo. Ma accade ancora di più oggi. La caduta del muro di Berlino e la conseguente fine del pericolo comunista, avevano illuso molti che su questa terra tutto sarebbe stato più facile e più sereno. Il diminuire dei conflitti e l’inutilità acclarata degli stessi, si pensava, avrebbero spinto i popoli a tendersi la mano con amicizia e allegria, senza pensare agli schieramenti, abbandonando imperialismi e armamenti, diffidenze e divisioni. Ma presto si è capito che superato un problema, un altro andava ad occuparne la scena con prepotenza, quello della povertà e quello della pazzia che fanno stragi in varie parti del mondo, e inquietano anche la nostra terra. E poi l’11 settembre che ha cambiato tutte le prospettive, ed ha rilanciato insieme alle paure e incertezze, anche le divisioni e la ricostruzione di inevitabili steccati. Mentre instancabile ed eroico Papa Wojtyla corre da un angolo all’altro del pianeta a implorare la pace, a seminare amore.
Sono passati solo trent’anni, e sembrano secoli. Ma se il passato è importante, lo è ancora di più il futuro. Ecco allora che la festa per i trent’anni del Movimento Cristiano Lavoratori è fatta di allegria ed emozione per aver raggiunto un traguardo importante; di orgoglio e fierezza per aver avuto ragione dalla Storia (il tempo, come si dice, è sempre galantuomo); ma soprattutto è fatta di attesa e speranza per quello che sarà, per ciò che bisognerà costruire, per la via da imboccare, e anche per le cose che andranno abbandonate.
Il Movimento Cristiano Lavoratori a trent’anni dalla sua fondazione è una bella realtà associativa, che coinvolge molte migliaia di uomini e donne in Italia e all’estero. Delle origini ha mantenuto la voglia di fare, un grande amore per la Chiesa, la passione sociale, l’attenzione ai deboli, lo spirito altruistico. Quello che all’inizio era solo un manipolo di uomini determinati a difendere le ragioni del loro impegno di lavoratori cattolici nella società italiana, in tre decenni ha allestito una discreta rete di presenza sociale, ecclesiale e politica. Sugli anni delle origini torneremo in un’altra parte del volume, basti qui dire che oggi i circoli e le sedi del Mcl sono diffusi in tutte le regioni italiane e anche in molti altri paesi europei, nordamericani e latinoamericani; che gli aderenti hanno messo in piedi forme di assistenza importantissime per i cittadini, peraltro erogate in gran parte gratuitamente, nel campo delle pensioni, delle invalidità, del lavoro, della cooperazione, del non profit; che sono state costruite e portate avanti con successo varie iniziative di aiuto e solidarietà in favore di altri popoli appartenenti ai cosiddetti paesi in via di sviluppo. Tutte queste iniziative, questo fervore, questo impegno non nascono dal caso, né da un generico altruismo buonista, peraltro assai di moda in questi tempi. No, tutto nasce da una forte e convinta adesione ad una visione cristiana della vita; dall’amore per la Chiesa e per il Papa, soprattutto dalla fedeltà alla Chiesa e al Papa. Il lettore non equivochi, nessuno qui vuole dire che il Mcl sia una congrega di santi e di uomini perfetti, che si sentono circondati da un mondo di cattivi e di peccatori. Niente di tutto questo: quelli del Mcl sono uomini e donne come tanti, che nella loro vita hanno incontrato la fede cattolica, e che nel percorso del quotidiano si trovano a fronteggiare le scelte di tutti i giorni, alla pari degli altri, compiendo errori come tutti. Ma sono anche uomni e donne che hanno detto sì a quella vocazione, assai cattolica, che spinge alla costruzione di opere, alla testimonianza dell’amore gratuito ricevuto insieme con la fede, alla edificazione di un mondo migliore di quello che è stato trovato.
Il Movimento Cristiano Lavoratori nel momento in cui celebra i trent’anni della sua fondazione è affidato alla guida di un fiorentino di 52 anni, Carlo Costalli, che è stato eletto al massimo ruolo del Movimento nel congresso che si è svolto a Roma alla fine di giugno del 2001. Costalli viene da lontano: appartiene infatti a quel drappello di uomini, come ad esempio anche il segretario generale Tonino Inchingoli, figura storica del movimento, che furono protagonisti in prima persona della uscita dalle Acli prima, e della nascita vera e propria del Movimento Cristiano Lavoratori poi. E in tutti questi anni è stato lì a lavorare insieme con gli altri, per difendere le proprie ragioni, per costruire opere, per crescere nella società, per affermare i valori cristiani nel mondo del lavoro. Con Costalli proviamo a capire di più del Mcl di oggi, dei suoi progetti per il futuro.
Allora Presidente, oggi assistiamo ad un proliferare di associazioni e gruppi e movimenti. E’ quello che viene chiamato il ‘terzo settore’, un elemento che caratterizza in modo sempre più marcato le società dei paesi occidentali. Qual è la specificità, la caratteristica più significativa del suo Movimento?
COSTALLI: il nostro è un movimento di lavoratori che viene da da una tradizione con radici antiche, cioè dall’inizio del secolo scorso, quando la presenza dei cattolici nella società italiana diventò una scelta in parte indotta dalla Chiesa stessa (i tempi erano maturi) e in parte una necessità, perché i cattolici, allora come oggi, rischiavano di essere schiacciati e cancellati dal laicismo imperante.
Si trattava tanti anni addietro, e si tratta anche adesso, di riaffermare la giustezza di certi principi e di certi valori, che sono condivisibili anche dai non credenti: la libertà, la solidarietà, la giustizia, la democrazia, la non violenza, il dialogo sempre e con tutti.
Nel corso dei decenni l’impegno sociale delle origini ha cambiato varie volte la forma, e si è confrontato con la realtà della politica partitica. Nel dopoguerra si affermò fra i cattolici la necessità di non lasciare ai soli comunisti e socialisti il monopolio dell’organizzazione e della rappresentanza dei lavoratori. Non dimentichiamo che per formazione e origini, la maggior parte dei lavoratori era di estrazione culturale cattolica, e quindi non li si poteva consegnare a organizzazioni e sindacati che invece nei loro programmi avevano in progetto la totale emarginazione della cultura cristiana e dei valori da essa ispirati; soprattutto non si poteva consentire che i comunisti e i socialisti, che pure erano minoritari, si ergessero a rappresentanti anche di tutti gli altri che non stavano con loro. Insomma, furono anni difficilissimi, ma anche esaltanti. Da una costola del sindacato unico di allora, seppure in contesti e per ragioni differenti, maturarono le condizioni che portarono poi alla nascita di Cisl e Acli.
Le Acli verso la metà degli anni Sessanta furono vittima di una vera e propria ubriacatura ideologica, che le spinse nelle braccia di ideologie assai distanti dalla dottrina sociale della Chiesa. All’inizio degli anni Settanta ci fu la rottura fra di noi: molti, compreso chi parla, capirono che la via ‘politica’ imboccata dalle Acli portava in una direzione diversa da quella dove noi volevamo andare. Ne nacquero polemiche e forti contrasti. Alla fine, non restava che uscire dalla vecchia organizzazione, e proseguire autonomamente per la nostra strada. Così lasciammo le Acli e fondammo appunto il Mcl.
La specificità, anche attuale, del nostro Movimento risiede quindi nella scelta originaria: noi contestavamo alcune scelte radicali e radicaloidi, che poi la storia avrebbe sconfitto pesantemente. Le faccio alcuni esempi: nelle Acli si affermò il principio che la lotta di classe era giusta, che nei confronti dei partiti politici ci doveva essere una pluralità di opzioni tagliando i ponti con la Dc, che la Chiesa andasse in qualche modo ‘modernizzata’ (e lo dico fra virgolette) e portata dalla parte del cosiddetto movimento dei lavoratori. Una parte di noi era a disagio con queste posizioni: eravamo e siamo contrari alla lotta di classe, roba fuori dalla storia, che ha prodotto solo fame, sofferenze, divisioni e lutti a interi popoli; eravamo e siamo ancora molto perplessi quando si afferma che una persona che creda nei valori cristiani possa poi sostenere apertamente, o addirittura militare, dentro partiti che al centro del loro programma hanno la cancellazione o l’emarginazione di quei valori e della Chiesa che ne è custode.
A quei tempi, moltissimi nelle Acli contestavano la Chiesa e i vescovi, spesso in modo ambiguo, si salvavano a volte le apparenze, gli stessi interventi della gerarchia o del Papa venivano visti come ingerenze, interferenze. Sembrava quasi che la Chiesa da Madre, nei nostri confronti, fosse diventata controparte, antagonista. Invece, la nostra posizione sull’argomento era nettissima: il Papa era ed è il nostro Padre, il nostro punto di riferimento, alla Chiesa siamo fedeli. Capirà, quindi, che ieri come oggi l’appartenenza filiale alla Santa Madre Chiesa rappresenta per noi il punto di partenza di tutto. Non siamo bigotti, anzi siamo molto laici e pragmatici. La fede si trasforma in opere, ne abbiamo realizzate molte; e molte altre ne faremo. E saranno il nostro modo di partecipare cristianamente alla costruzione della storia degli uomini, con umiltà.
Presidente, avremo modo di tornare e approfondire questi temi. Proviamo a guardare ancora per un pò al presente. Globalizzazione, giustizia sociale, sviluppo, libertà dalla schiavitù del lavoro e del non lavoro. In che modo il Movimento Cristiano Lavoratori si rapporta a queste problematiche che interessano da vicino il nostro tempo?
COSTALLI: Cominciamo con la globalizzazione. Non lo chiamerei problema, ma fenomeno del nostro tempo. Ed è dovuto ad una serie di concause; gliene dico alcune: nell’Europa occidentale sono stati introdotti il mercato unico, la libera circolazione delle persone, la moneta unica. Ora si guarda ad est, da poco è stato deciso l’ingresso di molti nuovi Paesi nella Ue. Nel frattempo Usa, Canada e Messico hanno realizzato una nuova area commerciale comune, e così è stato pure tra i Paesi del sud est asiatico. La Cina è entrata nel Wto. Lo sviluppo delle telecomunicazioni e internet hanno rivoluzionato i rapporti fra i Paesi e le persone. E poi, ancora, è sparito il blocco sovietico, si è sbriciolato il Patto di Varsavia, la Nato si è allargata addirittura alla Russia, nemico d’un tempo. Insomma, siamo entrati in una fase della storia in cui le distanze si sono accorciate, le potenzialità di sviluppo sono tante, e tante sono anche le forme di ingiustizia che ne possono scaturire.
La globalizzazione è più un destino, che una scelta. Non possiamo certo fermare la storia del mondo, possiamo però contribuire a governare questo fenomeno. Ma per farlo serve un’etica della globalizzazione, in grado di fornire criteri di giudizio e di valutazione, per discernere il buono dal cattivo, i rischi dalle opportunità. E allora da cattolici diciamo no all’idolatria del mercato e della finanza. E sì alla riaffermazione del primato della politica, l’unica che può e deve coniugare lo sviluppo con il benessere collettivo, la democrazia e la libertà con la tolleranza ed il rispetto delle diversità; lo stato di diritto con lo stato sociale.
Senza etica, la globalizzazione porta ad aumentare la concentrazione del benessere nelle mani di pochi (cosa che peraltro sta già accadendo), e ad ampliare l’area di quanti soffrono per la povertà e l’ingiustizia. Noi riteniamo che ciò sia profondamente sbagliato. Ma su questo non ci limitiamo alla lamentela, né ad una inutile protesta di piazza, magari sfasciando vetrine e teste: all’ultimo congresso di Roma nel giugno 2001 abbiamo lanciato al mondo della politica un appello-riflessione, invitando le autorità e le istituzioni a spingere per creare una sorta di ‘governance’ del sistema globalizzato, cioè fare in modo che governi e paesi definiscano un quadro di leggi, di regole e di istituzioni che consentano di governare questo processo. D’altronde, senza regole condivise, i paesi ricchi e forti condanneranno a morte quelli poveri. E anche all’interno dei paesi ricchi aumenteranno le sperequazioni fra chi ha molto e moltissimo e chi non ha niente. Insomma, sviluppo e ricchezza non possono creare nuove povertà.
Proprio di questi temi si parlò al G8 di Genova nel luglio del 2001, ma voi del Mcl non ci andaste. Fu un’occasione persa per sostenere una tesi in fondo condivisa anche da altri gruppi e movimenti della società civile e non tutti necessariamente cattolici.
COSTALLI: su Genova ho molte cose da dire. Ma prima vorrei premettere una brevissima riflessione che forse ai più sfugge: la globalizzazione sta segnando un passaggio di consegne sempre maggiore del potere decisionale dagli Stati ai mercati. Intendo dire che oggi una multinazionale conta molto più di un piccolo Paese. I bilanci di certe aziende sono superiori di gran lunga al’intero prodotto interno lordo di Paesi anche non del tutto poverissimi. Perciò lo spostamento di capitali, l’investimento fatto in un luogo e su un prodotto, anziché in un altro luogo e su un altro prodotto, possono produrre effetti devastanti, e conseguenze a catena. C’è dunque un gravissimo deficit di democrazia. Non è pensabile che l’amministratore delegato di una multinazionale possa decidere il destino di intere nazioni. Ecco perché crediamo nell’idea di una ‘governance’, perché se a regolare il progresso dell’economia e dello sviluppo sarà il primato del bene comune e della solidarietà, attraverso istituzioni democratiche, partecipazione e controllo sociale, allora la globalizzazione dei mercati finanziari, la crescita dell’industrializzazione e della produttività delle campagne, l’evoluzione di scienza e tecnica, perfino l’oculato sviluppo delle biotecnologie, potranno diventare per tutti inedita opportunità di crescita.
E adesso parliamo di Genova: lì fin dall’inizio apparve chiaro che i promotori della contestazione cercavano lo scontro anche fisico; ricordo alla vigilia del G8 dichiarazioni durissime da parte di persone autonominatesi leader e rappresentanti della società civile, sembrava di essere in guerra. Ci furono perfino le trattative con la polizia, le delegazioni che contrattavano dove e come contestare. Poi abbiamo visto come è andata. Noi in realtà, e lo dico serenamente, capimmo fin da subito che quel tipo di manifestazione non ci interessava, che quelle forme di inaudita violenza anche verbale che caratterizzavano il ‘dibattito’ di quei giorni erano estranee alla nostra storia, alle nostre convinzioni. Ma capimmo subito anche che la piattaforma politica di quelle contestazioni si basava su un ritorno indietro, un pericoloso, vano, quasi infantile fermare le lancette della storia. ‘La globalizzazione è cattiva, allora fermiamola’, si disse più o meno. Slogan vuoti, mi spiace che molti si siano fatti strumentalizzare, che la buona fede anche di molti cattolici sia stata usata da gente senza scrupoli in cerca di una vetrina o di un trampolino di lancio per Montecitorio. Peccato che un ragazzo ci abbia rimesso la vita.
Riprendiamo il discorso sulla globalizzazione. Lei citava il caso delle multinazionali capaci di determinare lo sviluppo o la miseria di un piccolo Paese. Ma in concreto, a parte la ‘governance’ cui governi e istituzioni democraticamente elette dovrebbero provvedere, l’uomo della strada, le associazioni, i movimenti, non possono fare nulla?
COSTALLI: No, non credo che tutte le vie siano precluse. Naturalmente, nessuno ha in tasca la ricetta pronta per risolvere i problemi. Ma con la discussione e il confronto fra tutti si può immaginare una corretta via per affrontare i nodi principali, e noi qualche idea ce l’abbiamo. Ad esempio: molti paesi poveri sono tali anche perché non possono esportare i loro prodotti; sui prodotti agricoli la situazione è anche peggiore, perché alla difficoltà di esportazione, si sommano le provvidenze che i singoli paesi ricchi erogano ai loro produttori. Io dico: proviamo a cambiare strada, incentiviamo e sosteniamo, anche dall’esterno, le ong che vanno a creare sviluppo in quei paesi, ad aprire centri di produzione, a varare piani agricoli, e poi apriamo, anche con sostegni economici, le porte dei nostri mercati a quei prodotti. Creiamo cioè un circolo virtuoso. Di certo non ne risentiremo, anzi magari al mercato, anche al nostro mercato, farà bene una scossa. E anche alla libera concorrenza. Su questo orizzonte il nostro Movimento è impegnato da molti anni, 30 appunto. Cioè da quando, subito dopo la fondazione venne creato dai nostri dell’Emilia il CEFA, una ong impegnatissima nei paesi in via di sviluppo. Ce ne vorrebbero centinaia di organismi così.
Lo scenario internazionale vive anni difficili. La pace è sempre in bilico. Rumori di guerra accompagnano i nostri giorni.
COSTALLI: i romani dicevano: se vuoi la pace prepara la guerra. Noi non siamo d’accordo, ma riteniamo pure che il pacifismo tout-court possa essere causa di guerre. Esistono dei diritti fondamentali e inalienabili che appartengono agli individui ed ai popoli in tutte le parti del mondo, qualunque sia la razza, la religione, il paese di rappresentanza. Esiste il diritto alla vita, alla libertà, all’uguaglianza, alla giustizia. Se uno solo di questi diritti viene minacciato, tutti dobbiamo sentirci chiamati in causa e intervenire pacificamente, nel nome di un altro grande valore che è la democrazia. Intervenire democraticamente significa ripudiare la guerra, accettare le diversità, promuovere il bene comune e favorire la tolleranza e la fratellanza. Ma ciò non può e non deve significare l’accettazione, supinamente, di tentativi di egemonizzazione nei nostri confronti. Si tratta di pretendere tolleranza e rispetto da chi è tollerato e rispettato. Perché essere tolleranti con gli intolleranti non porta da nessuna parte. A tutto questo, aggiungo un altro concetto: noi cattolici, ma soprattutto noi che viviamo in paesi liberi e democratici, abbiamo una grande responsabilità nei confronti delle nostre popolazioni, che è quella di fare in modo che questa libertà non sia messa in pericolo, o peggio cancellata, ma al contrario venga custodita e difesa fino in fondo.
Lei ha paura del mondo islamico, lo vede come una minaccia per il mondo cattolico?
COSTALLI: noi non abbiamo nulla contro l’Islam e rispettiamo gli islamici che vivono pacificamene nel nostro paese e professano liberamente la loro religione. Accettiamo usi e costumi, anche se sono diversi dai nostri; accettiamo le loro leggi e i loro metodi di giustizia, anche se non li condividiamo; accettiamo il loro modo di considerare la donna, anche se riteniamo il suo status un atto di barbarie umana e giuridica. Non possiamo però accettare tentativi di egemonizzazione nei nostri confronti e naturalmente condanniamo senza riserve gli atti di terrorismo e di violenza, tanto più quando condotti in nome di una fede religiosa. Gli islamici che sono ospiti in Italia devono esser rispettosi del nostro mondo, come noi siamo del loro.
Presidente uno dei temi decisivi per il futuro è anche quello dell’immigrazione e della società multirazziale. In Italia si confrontano due culture praticamente opposte: una che punta a chiudere tutte le porte a chi viene da fuori, e un’altra che tende a fare esattamente il contrario. Voi come vi ponete nei confronti di questo problema?
COSTALLI: non stiamo con i fautori della politica delle porte aperte ad ogni costo, né con quelli che la pensano in modo contrario. Vorrei solo ricordare che noi italiani dovremmo avere un po’ di memoria in più: ci sono stati anni, all’inizio del secolo scorso e fino agli anni Sessanta, in cui migliaia e migliaia di nostri connazionali hanno cercato la loro strada per le vie del mondo. Siamo stati accolti ovunque, in America, in Argentina (che allora era tanto ricca), in Germania, in Svizzera, in Belgio, in Francia e in moltissimi altri Paesi; sarebbe una forma di ingratitudine verso la Storia dimenticare tutto questo. Quindi la nostra posizione sull’immigrazione è quella delle braccia aperte verso i fratelli che vengono da paesi poveri e che hanno bisogno di aiuto. Ciò premesso, va poi tenuto conto della situazione italiana. La generosità e il senso dell’accoglienza non possono essere senza confini, per ovvie ragioni di spazi, di costi e di salvaguardia della convivenza.
Oggi in Italia ci sono molti posti di lavoro vacanti, che agli italiani non interessano più. Il Paese inoltre ha bisogno di molti lavoratori, specie per l’industria del nord est, e poi anche per le famiglie. Sono dati concreti, di cui tenere conto, uno spazio per gli altri quindi c’è. Si tratta dunque di coniugare al meglio il senso dell’accoglienza e dell’amicizia verso i fratelli poveri, con le esigenze dell’economia nazionale. Quindi, nient’affatto porte chiuse.
Noi siamo invece per una politica di chiusura totale e di rigore estremo nei casi di immigrati che vengono qui per compiere scorrerie e violenze, trafficare droga, sfruttare donne. O che per tali reati vengano condannati. Oggi, temo, è più facile per un povero diavolo essere rispedito al proprio paese, che non per un delinquente. Coloro che invocano un rigore cieco, facendo di tutta l’erba un fascio, a mio avviso sbagliano. Ma c’è anche un’altra cosa che vorrei dire: essere favorevoli ad una politica di apertura ai bisogni degli altri, e al rispetto verso di loro e la loro cultura, non vuol dire che noi si sia disposti a fare un passo indietro, o a tollerare mancanze di rispetto verso la nostra cultura. Il vero dialogo e la vera tolleranza nascono dal riconoscimento reciproco e dalla salvaguardia della propria identità. L’Italia è un Paese con una forte tradizione culturale cristiana e cattolica, e certo non può diventare un’altra cosa, oppure dimenticarlo, sol perché c’è gente di altre fedi che viene qui e qui si stabilisce.
Dal lavoro degli immigrati extracomunitari al lavoro degli italiani: il Movimento cristiano lavoratori pur non svolgendo attività sindacale tradizionalmente intesa, è comunque presente nel mondo del lavoro, non solo attraverso la presenza diretta dei suoi associati, ma anche per tutti i servizi di assistenza e consulenza prestati, che ne fanno un punto di riferimento sia per i lavoratori dipendenti, sia per i liberi professionisti. Da questo privilegiato osservatorio, qual è l’idea che vi siete fatti della realtà del lavoro di questi anni?
COSTALLI: guardi la situazione italiana sembra avere una marcia in meno: i cambiamenti di questi anni sono stati velocissimi, e il confronto con gli altri Paesi sviluppati ha fatto il resto. Da almeno due lustri si avverte una forte esigenza di progettare un nuovo impianto di diritti e doveri, e di intervenire seriamente sul mercato del lavoro. Ci sono temi come la crescita della produttività, la flessibilità del mercato e dei servizi per l’impiego, l’emersione del lavoro nero, gli ammortizzatori sociali, la formazione e la riqualificazione dei lavoratori, le azioni rivolte ad incentivare la domanda di lavoro, la qualità del lavoro stesso, che ci pongono delle domande. Ed esigono risposte che non siano ideologiche, ma concrete e percorribili, cioè che tengano conto che il protagonista è sempre l’uomo, il lavoratore. Ma a questo lavoratore occorre dare meno parole e ideologie, e più opportunità di impiego e di reddito.
Sulla necessità di avviare un dialogo e una riflessione senza preconcetti su questi temi non c’è dubbio; in questo siamo sempre stati d’accordo anche con la Cisl, e lo abbiamo detto in ogni sede. Seguiamo anche con particolare interesse le ‘aperture’ che lo stesso governo ha fatto sulla democrazia economica e sulla partecipazione dei lavoratori. E’ un tema a noi caro. Va approfondito, ma è già molto che sia stato lo stesso governo a metterlo in agenda.
La disponibilità del lavoro per tutti e la qualità del lavoro sono al centro dell’interesse della grande maggioranza delle persone. Il lavoro non è solo fonte di reddito, è il fattore primario dell’identità (non solo sociale) e del senso di realizzazione delle persone. In questi anni assistiamo anche alla tendenza, che caratterizza soprattutto le generazioni più giovani, a relativizzare il peso del lavoro, accentuandone la valenza strumentale. D’altronde lo sviluppo delle tecnologie nel modo di produrre beni e servizi, comporta continui cambiamenti organizzativi e professionali. La flessibilità è anch’essa ambivalente per gli aspetti di novità e per le condizioni di lavoro e, soprattutto, per le possibilità di aumentare l’occupazione. L’innovazione e la competitività insite nell’ informatizzazione avanzata e nei nuovi mercati, ci obbligano a pensare a nuove forme di lavoro, non più ingessate nel posto fisso.
Sta per caso dicendo che siamo diventati prigionieri delle nuove tecnologie, alle quali è stato demandato il compito di cancellare decenni di riflessioni e teorizzazioni sullo sviluppo del lavoro e sul ruolo dei lavoratori?
COSTALLI: no, non sto dicendo questo. Intendo affermare che nostro compito, e soprattutto compito di un sindacato moderno e non ancorato a vecchissime e inattuabili politiche del lavoro, è quello di promuovere una cultura del lavoro che tenga conto delle nuove e, sotto alcuni aspetti, inedite esigenze del mercato, intervenendo per creare le condizioni affinchè flessibilità non significhi disoccupazione, ma nuove opportunità di lavoro, specialmente tra i giovani, e possibilità di conciliare vita e lavoro, impedendo al contempo che dall’altra parte del tavolo si camuffino comportamenti da antichi padroni delle ferriere.
Insomma, il nostro ruolo, in quanto cattolici, è quello di coniugare il possibile con il giusto, senza inseguire teorie astratte. Le faccio un esempio: negli ultimi due anni, cioè nel 2001 e 2002, in tutte le sedi dove siamo intervenuti abbiamo insistito nel riproporre all’attenzione di tutti un fenomeno che non può essere liquidato con un’alzata di spalle, come molti fanno nel sindacato, vale a dire l’impetuosa crescita del numero di persone che lavorano con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i cosiddetti free lance, lavoratori atipici in genere. Sono tanti, centinaia di migliaia, non inquadrati nelle strutture di lavoro tradizionale (cioè quello che prevede un contratto di tipo dipendente, a tempo indeterminato, una sede di lavoro fissa, ecc.). Ebbene, tutta questa gente per buona parte del sindacato è come se non esistesse. Quindi nelle controversie politiche con il governo, come è stata ad esempio quella sull’articolo 18, questa realtà del lavoro non è rappresentata correttamente. Anzi, si è verificato il contrario, cioè che un solo sindacato abbia pensato di poter parlare al tavolo con l’esecutivo in rappresentanza di tutti i lavoratori italiani, quando invece parlava solo degli interessi, peraltro legittimi, dei soli propri iscritti.
Di fronte a questa situazione noi abbiamo invocato e chiesto al governo, anche formalmente, che si mettesse mano ad una carta dei diritti (e dei doveri) per i lavoratori e per i lavori atipici che, lo ripeto, costituiscono in gran parte il mondo del lavoro del futuro, e ai quali vanno date regole certe. Regole che oggi spesso non ci sono, lasciando perciò aperta la strada ad abusi.
Il discorso del lavoro è intrecciato con quello della scuola. E’ sempre aperto il dibattito sul ruolo della scuola non statale e sul come, questa, possa coniugarsi con la scuola pubblica. Qual è la vostra posizione al riguardo?
COSTALLI: noi crediamo che il ruolo della scuola sia indispensabile per la promozione culturale e sociale dei cittadini, in una prospettiva di costruzione dell’Europa oltre che della nostra stessa nazione. Questo compito non si può assolvere se non in un contesto di ampia libertà. Ma ci sembra che vada fatto uno sforzo ulteriore per attribuire risorse sufficienti al pianeta scuola. L’obbiettivo sul quale ci sentiamo impegnati è quello di vedere realizzata una vera parità scolastica nel nostro Paese, facendo sì che ogni famiglia possa realmente scegliere l’insegnamento ritenuto migliore per i propri figli. Lo stesso Giovanni Paolo II nel 2001 ha ribadito che non si tratta di togliere qualcosa alla scuola pubblica per darla alla scuola privata, quanto piuttosto di superare una sostanziale ingiustizia che penalizza tutte le famiglie impedendo una effettiva libertà di scelta. Noi condividiamo totalmente le parole del Papa.
Nel contesto scuola si inserisce anche quello della formazione professionale, che non è secondario ma, a nostro avviso, diventa la scommessa del futuro. Davanti ad un Paese e ad un mondo che avvertono l’esigenza di un costante supplemento formativo per i cittadini, nella loro prospettiva di crescita, noi crediamo che l’esigenza di un più equilibrato rapporto tra istituzioni statali e cittadino, tra pubblico e privato, permetta di incrementare la partecipazione dei lavoratori nella prospettiva del compimento di quello che noi definiamo il ‘concetto di cittadinanza’. In tale ottica, le risorse oggi destinate alla formazione professionale sono chiaramente inadeguate. Il nostro obbiettivo è perciò di riportare l’attenzione su questo tema.
Il ‘concetto di cittadinanza’ ci introduce alla questione dello stato sociale. Voi più volte avete posto il problema, anche in occasione dell’ultimo congresso di Roma del giugno 2001, di come riprogettare lo stato sociale. Qual è la ricetta del Mcl?
COSTALLI: Il nostro impegno, che poi costituisce la motivazione di fondo del nostro stare assieme, si misura non solo con i cambiamenti del mondo del lavoro, ma anche con i più generali cambiamenti sociali. Alcuni di questi cambiamenti sono evidenti a tutti: l’allungamento della durata della vita, con la conseguente rideterminazione della composizione anagrafica della società. Per dirla in breve, pochi bambini e moltissimi anziani. Poi ci sono i mutamenti dei profili familiari e la condizione giovanile, cui si aggiunge l’affermarsi progressivo di una società multietnica e multicultrale. Appare chiaro che dentro a questo quadro, le forme di tutela sociale tradizionalmente intese vanno riviste, o come diciamo noi vanno riprogettate. Lo stato sociale va riprogettato, non per smantellarlo, ma per rafforzarlo, sapendo che il limite è nella disponibilità delle risorse a disposizione.
Noi crediamo che bisogna abbandonare l’idea liberista, in cui un mercato autoregolato promuova, come una mano invisibile, lo sviluppo del benessere individuale; allo stesso modo pensiamo che debba essere messa da parte l’idea statalista di benessere collettivo, erogato e garantito da un sistema pubblico gestore ed interventista. E’ tempo di passare a un’idea nuova di benessere, perseguito attraverso politiche di solidarietà concorrenziale, pluralista e sussidiaria. Si tratta di un benessere che lo Stato non può gestire con l’intervento diretto, in modo esclusivo, e non può progettare senza l’apporto dei corpi intermedi. Serve la promozione di altri componenti della società, il privato sociale, quello familiare e quello spontaneo, con i quali la società civile deve giocare un ruolo complementare, ma necessario. Dove la deregolazione statale non sia da intendere come abbandono degli equilibri ai meccanismi del profitto, ma sia invece una garanzia di diritti e opportunità, attraverso l’animazione di nuove reti di scambio fra tutti i protagonisti della società civile (mercato, terzo settore, reti familiari, forme associative organizzate).
Presidente, come si traduce in concreto questo discorso dei corpi intermedi? che cosa significa che devono avere più spazio?
COSTALLI: vuol dire che a quell’imponente arcipelago del cosiddetto terzo settore, cioè tutta l’area delle associazioni e organizzazioni non profit che svolgono un ruolo di supporto specialmente nei settori deboli della società, dove lo stato non sempre riesce ad essere presente, vanno dati dei riconoscimenti. In particolare, nell’ambito dei servizi alle persone ed alle comunità, e tenendo conto delle specificità dei vari soggetti, rango e funzioni, va riconosciuto il ruolo di pilastro autonomo, distinto da Stato e mercato, ma simmetrico e con pari dignità rispetto ad essi. Dopotutto non lo dice solo l’esperienza diretta; indagini e statistiche rilevano che il 12% delle persone attive pratica una forma di volontariato, di cui l’82% in forma associata; e più del 22% della popolazione adulta svolge attività di assistenza o sostegno a chi ne ha bisogno.
Lei parla di associazionismo e terzo settore, ma Mcl è anche, o forse soprattutto, un movimento ecclesiale. Come si conciliano questi differenti approcci alla realtà?
COSTALLI: Si conciliano perfettamente. Dirò di più: l’impegno sociale resta privo di senso e di prospettive se non è ancorato, almeno per noi, al Magistero sociale e alle indicazioni che il Papa e i vescovi rivolgono a tutti gli uomini e le donne. D’altra parte noi amiamo ed arricchiamo la Chiesa dell’esperienza sociale, ovvero del contatto genuino con i fatti del mondo. Credo che la vita della Chiesa in questi anni dimostri la necessità di un tipo di presenza che da una parte crei un impegno chiaro e ricco; dall’altra contribuisca a fare in modo che la Chiesa non esca dal mondo e dai suoi problemi. Ma vorrei aggiungere qualcosa sull’ecclesialità del Movimento: noi abbiamo voluto caratterizzarci come Movimento ecclesiale, e lo abbiamo formalmente consacrato modificando perfino il primo articolo dello Statuto. Ecclesialità è un termine esigente, che impegna tutti noi a modificare il modo di agire e di vivere la vita associativa nel suo complesso. Un cammino di parole e di impegno politico-sociale sarebbe stato comunque una contraddizione in termini senza la presenza attiva di un sacerdote, indispensabile per assisterci ed accompagnarci nei diversi momenti della nostra vita associativa. Con la nomina, da parte della Cei, di mons. Francesco Rosso, l’assistente nazionale, e punto di riferimento e guida spirituale per tutti noi impegnati a tradurre nella vita personale e associativa i grandi valori dell’antropologia cristiana, abbiamo fatto grandi passi avanti.
Tra i movimenti e la Chiesa non sempre i rapporti sono ottimali. In certi periodi della nostra storia, come Mcl testimonia, sono stati molto tesi, se non peggio. E’ ancora un rapporto difficile?
COSTALLI: Il Papa lo ha detto più volte: le associazioni e i movimenti sono la ricchezza della Chiesa, il segno della vitalità del laicato. Ha detto proprio così, sono parole di Giovanni Paolo II. Io cosa posso dire di più o di diverso? E’ stato il Concilio a produrre la fioritura di nuovi movimenti sia di impegno sociale, sia di testimonianza culturale vissuta più intensamente in sede comunitaria. Del resto le aggregazioni non escludono l’esperienza religiosa personale nell’ambito delle parrocchie. Voglio anche dire che nello spirito del Vaticano II c’è posto per ogni esigenza, perché risponde al cammino della Chiesa, al progetto di Dio. Giudice di questa rispondenza è la Chiesa stessa.
Io vedo, noi vediamo, che è in atto un processo di crescita, pur fra tante difficoltà, più che di frantumazione. Sarà poi la storia e la capacità di coerenza dei militanti a segnare il destino delle associazioni. Esse non si sciolgono, né si aggregano per legge. Attualmente c’è un clima nuovo tra i movimenti e fra questi e la Chiesa. Di maggiore fiducia e collaborazione, anche con i vescovi. Mcl ne beneficia in modo particolare, soprattutto dopo la nomina di mons. Rosso ad assistente spirituale. Per questo vedo con amarezza qualche riaffiorare di protagonismo e gelosie. Ma ho fiducia nell’azione della Cei.
Presidente, torniamo alle origini. Finora in questo nostro dialogo ne abbiamo appena accennato, ma ora è giunto il momento di ricordare e approfondire il passato. Mcl nasce nel dicembre del 1972 da una scissione dolorosa, ma inevitabile, dalle Acli che fino agli anni settanta avevano rappresentato unitariamente i lavoratori cattolici. Lei fu tra i protagonisti di
quei giorni, che giudizio ne dà oggi?
COSTALLI: Ritengo che gli sviluppi della situazione in generale, e dei movimenti cattolici in particolare, abbiano dimostrato che le motivazioni della crisi registrata negli anni settanta erano sostanziali, e non il frutto di valutazioni unilaterali. D’altronde l’evoluzione critica delle Acli, che è durata per oltre un decennio, ne è un esempio evidente.
Per quanto riguarda noi, mi sento di dire che il Movimento ha vinto la scomessa sottoscritta trenta anni fa: pur avendo dovuto percorrere una strada difficile e tutta in salita, la realtà del Mcl è sotto gli occhi di tutti, è una realtà viva, radicata nel territorio, fatta di migliaia di unità di base e di punti di incontro tra offerta e domanda di solidarietà, se mi passa l’espressione.
Al di là di ciò che pensiamo di noi stessi, in ogni caso sappiamo che la storia è maestra di vita e giudice imparziale delle azioni degli uomini, sarà essa a giudicare se il nostro Movimento è stato coerente con la sua ragione d’essere, con il Magistero della Chiesa e con quel ruolo che la Cattedra di Pietro gli ha assegnato, e cioè di portatore del messaggio cristiano in mezzo al mondo del lavoro. Tuttavia una riflessione va fatta sul cammino compiuto, partendo da quel momento in cui uomini liberi, animati da grande entusiasmo e coraggio, solitamente e spesso con l’ostilità da parte di chi si riconosceva in comuni radici ed esperienze, vollero costituire una nuova realtà socio-culturale per testimoniare con forza una irrinunciabile triplice fedeltà: alla Chiesa, al lavoro, alla democrazia. Voglio ricordare che alla fine degli anni sessanta si vivevano tempi in cui la difesa del lavoro veniva interpretata alla luce della lotta di classe, demonizzando l’interclassismo, e confinando i valori della solidarietà dentro i ristretti e stravolgenti confini dell’ideologia marxista. Il diritto di dissentire, sale e lievito della democrazia, veniva spesso inteso come un delitto di lesa maestà verso il ‘popolo’ e si pretendeva l’omologazione alla volontà delle minoranze urlanti.
La via della separazione fra visioni diverse dell’impegno socio-ecclesiale è stata dunque una scelta obbligata; solo la consapevolezza di dover testimoniare verità ed identità ha attenuato la tristezza di una rottura che è stata comunque molto dolorosa. Acli e Mcl dopo trenta anni. Che cosa è successo da allora?
COSTALLI: a partire dagli anni settanta in Italia, oltre alla scissione tra Acli ed Mcl, è subentrata fra i lavoratori cattolici un’autentica diaspora. Acli e Mcl sono tuttavia entrambe espressione di una più qualificata esperienza storica e culturale, ed è assolutamente positivo che i loro reciproci rapporti siano andati progressivamente migliorando, con una forte accelerazione negli ultimi tempi.
L’identità del Mcl sta nell’assoluta centralità della dottrina sociale cristiana, nel giudizio critico e quindi nella risposta ai problemi sociali ed economici dell’epoca che attraversiamo. Questo motivo ispiratore è oggi più valido di trenta anni fa, essendosi rivelata la dottrina sociale cristiana, la sola risposta praticabile alla caduta di solidarietà, che consegue al declino delle ideologie.
Le Acli tra gli anni sessanta e settanta hanno imboccato una strada che avrebbe dovuto ‘portarle lontano’, e le ha invece avviate in un vicolo chiuso, appunto quello delle defunte ideologie, che sembravano il non plus ultra della cultura e della modernità. Per modificare questa linea hanno avuto bisogno di tanto tempo. Al di là di ogni altra considerazione, tuttavia, credo che nel guardare a queste due realtà associative non si possa prescindere da una considerazione fondamentale: Mcl e Acli non sono più due spezzoni di un unico troncone, ma due associazioni autonome, con un profilo ben distinto non solo sul piano organizzativo e giuridico, ma proprio nel contesto storico che viviamo; insomma, sono due realtà che nell’ambito ecclesiale si confrontano.
E con altre grandi realtà dell’associazionismo cattolico, che rapporti avete?
Con la Cisl c’è un rapporto di grandissima amicizia, un legame storico che risale ad anni lontanissimi. Noi e loro avevamo ed abbiamo ruoli diversi, ma le nostre vie si sono sempre intrecciate. Della Cisl abbiamo sempre ammirato la capacità di essere un sindacato vero, autonomo. Un sindacato fondato sulla cultura cristiana, ma capace di tenere insieme anche altre forme di umanesimo. Un sindacato che ha fatto dell’indipendenza la sua bandiera e il suo punto di forza. La Cisl ha saputo resistere alla tentazione di altri, che hanno interpretato il loro ruolo quasi come una cinghia di trasmissione in favore di una parte politica. In tutti questi anni, e specialmente durante il cinquantennio di governi a guida democristiana, la Cisl ha dato prova di operare per il bene comune, con intelligenza e moderazione, senza distinguere in governi amici e governi nemici, preferendo il dialogo all’antagonismo a tutti i costi. Oggi non credo che anche ad altri sindacati italiani possano essere riconosciuto un percorso analogo. E, badi, che non si vogliono qui dare pagelle di buoni e cattivi: ognuno fa i conti con la propria coscienza e con la storia. Guardi a quanto sta accadendo da qualche tempo: uno dei sindacati si è tramutato in una specie di partito; per loro qualunque cosa il governo proponga, non andrà mai bene. E’ una scelta di principio, cavalcare la contestazione, solleticare il conflitto. Liberissimi di farla, questa scelta. Ma a noi sembra molto poco sindacale, tanto più perché effettuata al’insegna della teoria del governo ‘amico’ e del governo ‘non amico’. La Cisl, al contrario, non si è posta il problema se ha davanti un governo ‘amico’ o ‘non amico’, ma ha detto più saggiamente: siamo disponibili al confronto, ci misuriamo sui fatti e sulle scelte, non sul colore politico. Questo fa la differenza, questo porta alla risoluzione dei problemi, a governare i fenomeni sociali, a guidare il cambiamento, a dare risposte positive alle attese dei lavoratori. Lo si è visto anche con il ‘Patto per l’Italia’ stipulato con il governo Berlusconi nell’estate del 2002: la Cgil fin dall’inizio aveva deciso di non firmarlo, e non l’ha firmato. Ma Cisl e Uil che l’hanno sottoscritto, quel ‘Patto’, sono state criminalizzate, nelle fabbriche e in molti altri luoghi di lavoro ci sono stati insulti (alla Cisl di Pisa è stata anche incendiata la sede) perché non si sono piegate ad una linea che veniva indicata come dominante. Non voglio dire che ciò sia dovuto a quelli della Cgil, ma certamente la loro aggressività ha creato un clima non facile; la loro lotta contro il governo, a tutti i costi, sempre e comunque, non solo finisce per far passare in secondo piano i problemi veri, ma crea confusione fra i lavoratori, tutto diventa più complicato.
Bisogna perciò riconoscere che nella vicenda del ‘Patto del l’Italia’ i leader di Cisl e Uil, Pezzotta e Angeletti, oltre ad aver dimostrato coraggio politico straordinario, hanno conservato una grande autonomia di posizioni e soprattutto hanno rivendicato un valore che rischiava di annegare nel conformismo degli schieramenti politici e delle logiche di parte, cioè la libertà di dire si o no.
E del rapporto della Confcooperative che cosa dice?
COSTALLI: Il rapporto fra Mcl e Confcooperative è estremamente positivo. Condividiamo la ‘visione’ dell’esperienza cooperativistica, sociale e solidale portata avanti da quella organizzazione. Dalla cooperazione derivano molteplici effetti positivi, come la grande capacità di formazione umana e sociale. Per noi la cooperativa è buona se ha anche un’anima. Per Mcl e Confcooperative quest’anima si alimenta anche con la dottrina sociale della Chiesa. Condividiamo inoltre la valutazione complessiva della cooperativa, della partecipazione dei soci lavoratori, delle possibilità di crescita personale e sociale del cooperatore, dell’importanza del suo radicamento.
Passiamo sul fronte ecclesiale. Che cosa ne dice dell’esperienza di Cl (Comunione e liberazione) e della Cdo (Compagnia delle opere)?
COSTALLI: Comunione e Liberazione e la Compagnia delle opere sono realtà di grande forza per i giovani anzitutto, e poi per la società nazionale e per la Chiesa, e rappresentano un solido elemento capace di resistere alle varie mode che ciclicamente vanno e vengono. Il giudizio su di loro è dunque sicuramente positivo, e anche i rapporti fra di noi sono ottimi. Per parte nostra, tocca a volte impegnarci per far sì che il loro stesso successo non le isoli troppo dal resto del laicato cattolico. Ma, insisto, non condividiamo affatto l’opinione di chi diffida di Cl e della Cdo, rappresentandoli come una sorta di problema per il mondo cattolico e la Chiesa tutta. Noi siamo convinti che questi movimenti, insieme con gli altri, in una prospettiva di diaologo e apertura, di condivisione delle grandi scelte, di rispetto reciproco e pari dignità, possano anzi debbano rappresentare uno strumento di grande efficacia per affermare la presenza cristiana nella società contemporanea.
Torniamo a parlare del Movimento. Dai tempi della fondazione, tanta acqua è passata sotto i ponti e molti cambiamenti si sono verificati nella società e nella Chiesa. Ritiene ancora pienamente valida la ragione storica per la quale il Movimento nacque trent’anni fa? il suo carisma è ancora attuale?
COSTALLI: certamente, molte cose sono cambiate da allora. E’ indubbio che le stesse frontiere dell’impegno non sono identiche, ma sono convintissimo che restano attuali e irrinunciabili i valori legati alla triplice fedeltà alla Chiesa, alla libertà e alla democrazia. Le faccio un paio di esempi: pensi ai processi di secolarizzazione e alla necessità di riprendere con forza ogni iniziativa di evangelizzazione e di testimonianza, a partire dal mondo del lavoro. Basti pensare, sul piano sociale, alla globalizzazione dell’economia, all’esplodere di un capitalismo rampante e senza regole, dominato dalla logica del profitto con l’uomo in subordine, le cui conseguenze d’ordine morale, prima ancora che politiche ed economiche, interpellano il Magistero della Chiesa. Pensi poi alla grande domanda di diritto al lavoro che sale disperatamente dalle genti del sud. Pensi ancora ai bisogni della famiglia, spesso priva di sostegno sociale; alla solitudine degli anziani e degli emarginati che reclamano a gran voce atti concreti di solidarietà.
Insomma, in questi anni, accanto ad innegabili e giuste conquiste del mondo del lavoro sono esplosi anche egoismi corporativi, difese oltranziste di ciò che si è conquistato solitariamente, tentazioni di fughe in avanti, forme di separatismo in alcune zone del Paese. C’è inoltre la necessità di vigilare in difesa della democrazia contro i tentativi di poteri forti di instaurare situazioni di regime camuffato.
Ecco, sono queste le frontiere sulle quali il Movimento dovrà collocarsi sapendo coniugare nella vita quotidiana, nelle istituzioni e nel mondo del lavoro, la libertà la giustizia e il Vangelo.
Nei duecentomila iscritti del Movimento, nei suoi militanti e dirigenti, è forte il desiderio di crescere e raccogliere la sfida degli anni futuri sul piano della testimonianza di fede e del Vangelo, e di coerente impegno nel politico e nel sociale.
Guardi: Mcl, anche per le massicce resistenze incontrate nei suoi primi anni di vita, nell’ambito della comunità ecclesiale, ed anche in molti ambienti della società italiana, ha potuto esprimere solo in parte la novità sostanziale ed il significato vero delle proprie proposte. Il Movimento è comunque riuscito ad essere anche in quegli anni difficili, al di là dell’immagine, guardando alla sostanza delle cose, un punto di riferimento utile, importante, credibile, per moltissime realtà sociali, in Italia e all’estero (in Europa, America Latina e Africa).
IL RICORDO DEGLI INIZI
Le tappe che hanno portato alla scissione delle Acli e alla conseguente fondazione del Mcl sono numerose. E testimoniano che la scelta di un numeroso gruppo di uomini e donne di andarsene per la propria strada nel lontano 1972 non fu fatta a cuor leggero, ma fu il frutto di una lunghissima e sofferta meditazione, e di un ancora più lungo tentativo di evitare quello che poi è accaduto.
Per i più giovani, converrà qui ricordare che negli anni Sessanta le Acli costituivano non la principale associazione, ma probabilmente l’unica associazione degna di questo nome nel nostro Paese. Costituite nel 1944 grazie anche al sostegno e alla spinta della Chiesa, le Acli erano rapidamente diventate un colosso: 800 mila iscritti che sarebbero diventati un milione nel 1968, una presenza capillare anche nei piccoli centri, un legame forte con le parrocchie, e poi i servizi di patronato, l’assistenza ai poveri. E un fortissimo peso politico, capace di orientare non poco le scelte di milioni di elettori democristiani.
Le Acli avevano il dominio assoluto sull’associazionismo in Italia, sia perché in effetti la maggior parte della popolazione si riconosceva nella cultura cattolica e quindi tutto sommato non era difficilissimo creare proseliti, sia perché in quanto associazione le Acli erano certamente meno ‘impegnative’ di quanto lo fosse l’iscrizione ad un partito (la Dc), ad un sindacato (la Cisl) o ad un’organismo a forte caratterizzazione categoriale (ad esempio la Coldiretti). Un altro motivo che rendeva forti e potenti le Acli era dovuto al fatto che sul fronte laico e su quello marxista non esisteva un’organizzazione capace di raccogliere un consenso popolare genuino e altrettanto significativo.
Le Acli erano un’associazione di lavoratori cristiani, e anche un gruppo ecclesiale, tanto che la Conferenza episcopale fin dall’inizio aveva designato dei sacerdoti a fare da assistenti spirituali sia a livello nazionale, sia a livello diocesano. Ma le Acli erano soprattutto un ‘pensatoio’, nel senso che la vita associativa ed ecclesiale apriva larghi spazi, altrove inesistenti, per l’elaborazione del pensiero, e del pensiero socio-politico in particolare. Nelle Acli si dibattevano i problemi del mondo, nei circoli e in innumerevoli convegni e seminari si ragionava tutti assieme su quali fossero le vie migliori da seguire per affermare una società più giusta, una società più cristiana.
Insomma negli anni Sessanta le Acli svolgevano un gran ruolo nella società e nella Chiesa italiana. I problemi, almeno dal punto di vista dei futuri fondatori del Mcl, cominciarono a sorgere quando alla guida dell’ associazione arrivò Livio Labor. Personaggio straordinario, di grande carisma e intelligenza, Labor era emerso fin dal 1964. Era una bravo condottiero, un trascinatore, sapeva parlare, era preparato. Era anche assai ambizioso, puntava a condizionare la vita politica nazionale dal suo palcoscenico, mettendo paura alla Dc, che solo in ritardo capì che stava per perdere una marea di voti, come in effetti poi accadde, e mettendo i brividi anche al vecchio Pci che guardava a questo signore con rispetto e inquietudine, per come stava traghettando gli oltre 800mila iscritti (e le rispettive famiglie) della più grande organizzazione cattolica dalla sponda democristiana alla sponda della sinistra.
Uomo di grande intelligenza, con notevoli doti di comunicatore, Labor grazie anche alla sua forte personalità politica condusse pian piano le Acli, non senza forzature, sulle posizioni socialiste, verso cui provava una grande passione. Ma non tutti erano disposti a seguirlo e, soprattutto, non tutti capivano il senso di tale scelta. Questo processo fu lento, ma inesorabile. Il travaglio cominciò già a metà degli anni Sessanta e giunse al culmine nel 1970, e si concluderà nel 1972 con la scissione da cui nacque il Mcl.
Ma in che cosa cosa consisteva la cosiddetta scelta socialista? Dietro di essa si celava un insieme complesso di questioni e valutazioni sociali, politiche, religiose. Tre erano le principali: il ‘pluralismo delle opzioni’, il rapporto con la Dc e il rapporto con la Chiesa.
Il pluralismo delle opzioni rappresentava una svolta senza precedenti: nelle Acli infatti si cominciò a teorizzare che non solo dialogo ci poteva essere, ma addirittura compatibilità fra fede cristiana e ideologia marxista. Prima Labor e poi il suo successore Emilio Gabaglio spinsero con forza per affermare il superamento delle divisioni fra cristiani e marxisti. Questo voleva dire libertà di azione politica a tutto il popolo delle Acli, che all’epoca godevano di grandissima considerazione elettorale. Ma voleva dire anche mettere in crisi una certezza che era ed è rimasta intatta per molti: l’assoluta incompatibilità fra la dottrina cristiana e l’ideologia marxista. Essere cristiani, amava dire Labor, non vuol dire essere democristiani.
Il pluralismo delle opzioni avrebbe portato poi alla libertà di voto in occasione del referendum sul divorzio, che rappresentava l’abbassamento della guardia del mondo cattolico nei confronti della società. Ma avviò in generale una libertà d’azione e di comportamento in politica tale da ingenerare una fortissima confusione, le cui conseguenze sarebbero apparse in tutta la loro evidenza nel giro di alcuni anni. Il 12 maggio del 1974 al referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio vinse il fronte divorzista con il 59,3% dei voti. Ufficialmente solo la Dc e il Msi si schierarono col fronte del no, tutti gli altri partiti dal Pci, al Psi, al Psdi, ai radicali e così via erano invece a favore.
La campagna elettorale fu aspra come poche altre e investì trasversalmente la società italiana. Il mondo cattolico subì una forte lacerazione. Il 23 marzo, poco meno di due mesi prima del voto, un gruppo di intellettuali, giornalisti, politici di area cattolica si erano ritrovati in un convegno pubblico a Roma per dichiarare le loro ragioni a favore del divorzio. Fra loro Raniero La Valle, futuro deputato Pci, gli economisti Andreatta e Acquaviva, futuri parlamentari Dc e Psi, il direttore di Civiltà cattolica Padre Sorge e anche l’ex presidente delle Acli Gabaglio. Era anche questo un segnale del disorientamento generale che caratterizzava la realtà cattolica, che doveva fare i conti anche con una campagna mediatica di grande effetto. In occasione del voto, il quotidiano romano Il Messaggero titolò a tutta pagina: ‘Contro il tentativo clerico-fascista di sopprimere la democrazia e l’autonomia dello Stato, No all’abrogazione della legge sul divorzio’. Il 14 maggio, il giorno dopo il voto, l’Osservatore Romano pubblicò un corsivo, intitolato ‘Triste avvenimento’ nel quale ricorda che ’19 milioni di votanti per il no non sono altrettanti cittadini che approvano tutti il divorzio o che lo praticherebbero per se stessi’, sottolineando poi: ’il fatto che 13 milioni di italiani che hanno votato si non sarà stato speso invano. La coscienza del problema è stata ovunque risvegliata. Il richiamo alla responsabilità dei coniugi resta.
Prima di lasciare la presidenza delle Acli, nel 1969, Labor ebbe tempo di lavorare alla creazione di una nuova associazione di impegno politico, l’Acpol, che poi si trasformò nel Mpl (Movimento politico dei lavoratori), soggetto politico che qualche anno dopo presentò sue liste alle elezioni politiche, raccogliendo solo 119 mila voti in tutta Italia, e nessun parlamentare eletto. Doveva essere la concretizzazione pratica delle tesi sostenute in quegli anni; la realizzazione addirittura di un nuovo partito del movimento operaio che tutti gli altri superasse e racchiudesse; l’affermazione istituzionale delle Acli, dal cui seno nasceva il partito-movimento dei lavoratori dal futuro radioso per sé e per l’Italia; doveva essere il sovvertimento di una tradizione: non più gli operai appresso ai partiti, ma tutti appresso agli operai; doveva essere il movimento operaio cattolico che si spostava a sinistra per condizionare la politica dei partiti marxisti. Doveva essere un sacco di cose. Invece fu un fiasco clamoroso, non solo perchè gli italiani non apprezzarono affatto il progetto, ma anche perché gli stessi aclisti della base se ne infischiarono bellamente. E quella manciata di voti raccolti, al posto dei milioni che si attendevano, segnarono non solo la fine del progetto Labor (il quale peraltro successivamente entro nel Psi e fu eletto al Parlamento) ma misero in crisi la struttura stessa delle Acli.
La scelta per il pluralismo delle opzioni e quella per il divorzio furono i segni di una nuova condizione del quadro di valori dentro cui le Acli si erano mosse fino a quel momento.
Il rapporto con la Dc secondo la nuova linea non solo non andava più coltivato, ma doveva essere reciso. La Dc era oltretutto un partito interclassista, mentre nel movimento operaio nazionale al quale la dirigenza delle Acli ormai guardava con trasporto propugnava un più sano (e marxista) classismo. Nei congressi e nelle riunioni pubbliche i quadri allevati da Labor ormai sostenevano a spada tratta la scelta di classe, l’adesione al movimento operaio tout court.
Con la Chiesa andava peggio, l’antico cordone ombelicale non era stato rotto, ma poco ci mancava. Vari appelli verbali con cui la Cei aveva chiesto spiegazioni su certe affermazioni e prese di posizione delle Acli erano addirittura rimasti senza alcuna risposta. Lo stesso Labor vedeva gli assistenti spirituali non del tutto necessari, e teorizzava comunque che le Acli non volevano più essere un movimento di lavoratori critiani e quindi una componente del più grande movimento dei cattolici, ma piuttosto una componente cristiana del movimento operaio.
La Chiesa dunque agli occhi del movimentismo crescente che andava diffondendosi nelle Acli era poco più che un orpello, anzi un impedimento. Veniva salvata la forma, le apparenze talvolta erano rispettate, almeno nelle occasioni pubbliche (ma non sempre) in realtà già la scelta del pluralismo delle opzioni aveva posto in secondo piano il rapporto con la propria natura cattolica ed ecclesiale. Il vero orizzonte dell’associazione era quello di far parte del movimento operaio, divenuta istanza ultima e suprema cui puntare.
In quegli anni era andata crescendo sempre più la preoccupazione nella Chiesa per quanto avveniva nelle Acli: Paolo VI in particolare e il vescovo mons. Giovanni Benelli sostituto della segreteria di stato soffrivano per una situazione che -capivano- stava sfuggendo di mano, e che temevano avrebbe portato allo sbaraglio migliaia di persone. Non si dimentichi infatti che se la maggioranza del gruppo dirigente aveva imboccato questa nuova strada, buona parte degli aclisti erano su posizioni opposte. Insomma, non si può dire che il 99% delle Acli condividesse appieno la linea Labor e quella di Gabaglio. Anzi gli agguerriti leader nazionali che contestavano la linea presidenziale, come Carlo Borrini, Giovani Bersani, Michelangelo Dell’Armellina, Vittoria Rubbi e altri sostenevano che la base vera degli aclisti era con loro, e non condivideva affatto, anzi temeva, la svolta socialista.
Fu proprio il futuro cardinale Benelli, quasi certamente ispirato da Papa Montini, ad incoraggiare, a ispirare e a confortare le scelte di quanti cominciavano ad essere insofferenti della gestione delle Acli di quegli anni. Nel 1970 al tradizionale convegno che si teneva a Vallombrosa, sulle colline toscane, alcuni dei futuri dirigenti del Mcl restarono senza parole quando l’avvio della riunione fu scandito dal canto di ‘bandiera rossa’, l’inno tradizionale dei comunisti. La notizia giunse a Benelli, che ne rimase turbato.
A Vallombrosa veniva suggellata in maniera pressochè definitiva l’idea partita dal congresso di Torino: pluralismo delle opzioni, distacco netto dal mondo politico democristiano e una nuova capacità di dialogo e collaborazione con associazioni e partiti di sinistra. Insomma, si dette vita ad una sorta di collateralismo alla rovescia.
Da quel momento in poi la situazione interna delle Acli diventò esplosiva, ogni occasione era buona per polemizzare fra le due parti, contestazioni, mozioni, documenti. Ma paradossalmente la posizione della linea Labor si rafforzava: le contestazioni studentesche del ’68 avevano portato nuova linfa vitale al movimentismo, all’antagonismo. L’orizzonte socio politico che si coglieva anche nelle iniziative più innocenti era quello dell’affermazione del movimento operaio, della classe operaia, della lotta al sistema (cioè alla Dc), del rinnovamento della classe dirigente del Paese, della modernizzazione della Chiesa, in una visione internazionalista. In pratica, a parere della minoranza di ‘tradizionalisti’ si assisteva alla negazione di un’intera storia. Si era in presenza di un ‘golpe’.
In questo clima gli oppositori di Labor e soci che fino a quel momento non erano organizzati, anzi risultavano sparpagliati in tanti gruppi e gruppetti, cominciarono a pensare seriamente al loro futuro. In numerose occasioni avevano toccato con mano l’intolleranza della maggioranza, che aveva perfino impedito loro di prendere la parola.
Per le Acli sono giorni tristi, per gli aclisti tradizionali sono terribili, si sentono quasi messi alla porta, estranei a casa loro, la rissa fisica viene sfiorata innumerevoli volte.
I tempi sono maturi per qualcosa di nuovo. Da una parte il vulcanico Carlo Borrini organizza un nuovo raggruppamento, in futuro chiamato MOCLI, al quale aderiscono 120.000 militanti circa, soprattutto delle province nelle quali le Acli erano particolarmente radicate, e che si riconoscevano in una linea di impegno sociale e politico legatissima al movimento dei lavoratori, ma aliena dalla lotta di classe e dalla voglia di confluenza nel Pci o nel Psi.
Parallelamente si danno da fare anche Giovanni Bersani e Michelangelo Dell’Armellina, entrambi deputati Dc, chiamando attorno a sé i loro fedelissimi. Soffrono più di ogni altra cosa la lacerazione del rapporto con la Chiesa, la rottura delle forme, la violazione delle tradizione, e decidono di dar vita ad una sorta di corrente che poi sarà chiamata FEDERACL (che contava all’epoca circa 70 mila aderenti).
In Veneto si era costituita spontaneamente un’altra ala dissenziente dalla linea Labor-Gabaglio, chiamata ‘Libere Acli’, e che poi sarebbe confluita nella Federacl.
Nella nascita dei due organismi principali Federacl e Mocli, da cui poi sarebbe nato il Mcl, c’era molto di azzardo e di avventura. E anche di volontà di rivincita e di rivalsa verso le Acli, a cui oramai si guardava come a un’occasione persa, a un’opportunità svilita, a un percorso finito in un vicolo cieco, in definitiva a un pezzo di storia da oltrepassare. Mancavano le fonti di finanziamento, tutto era difficile, persino trovare un posto dove riunirsi. Per i contestatori la presa di distanza dalla linea imperante, infatti, significò l’abbandono di sedi, uffici, punti di ritrovo, disponibilità finanziarie. Ma era forte la voglia di non rassegnarsi, di proseguire anzi sulla via dell’impegno originario.
L’uscita formale dalle Acli prese avvio di fatto a Peschiera del Garda, nel dicembre del 1970, al congresso dei giovani. Un nutrito gruppetto di militanti diede infatti vita a ‘gioventù aclista autonoma’. Fu il primo segnale ufficiale e pubblico che l’insofferenza e il disagio stavano portando a maturazione una scelta più drastica e impegnativa. Il congresso si svolse fra gli insulti, e la minoranza denunciò brogli e intimidazioni durante i precongressi. Come ricorda Pierandrea Vanni nel bel libro ‘Cattolici contro’ del 1987, aprendo i lavori di quella riunione, la presidente di turno Gabriella Baroni esordì dicendo: ‘Chi fosse venuto in questa sede con l’intenzione di porsi fuori da una logica di movimento, non disponibile ad un confronto articolato, partendo dalla precisa collocazione di classe, avrebbe sbagliato sede. Forse non ha ancora capito che fare movimento significa rompere con una posizione interclassista, di compromissione con il potere oggi prevalente, che torna a tutto vantaggio del sistema e a danno dei lavoratori. Per questo mi sento di affermare che una simile presenza non può avere cittadinanza in un movimento operaio, a meno che non s’intenda trasformare le Acli in qualcosa d’altro’.
Un linguaggio forte, più appropriato per una sede della sinistra extraparlamentare che non per un raduno di lavoratori cattolici. Ma di fatto a quell’assemblea la maggioranza dei presenti davvero si richiamava a posizioni extraparlamentari.
Il secondo giorno di congresso fu caratterizzato da una conferenza stampa dei venti delegati di minoranza, insieme con il consigliere nazionale Giuseppe Valli (che avrebbe avuto un ruolo importante nella futura scissione) con la quale venivano denunciate gravi irregolarità e discriminazioni ai loro danni. ‘Siamo contro la violenza, i picchettaggi, la gestione extraparlamentare delle lotte operaie, dissero. Siamo contro un socialismo che neppure la maggioranza riesce a definire, mentre contesta velleitariamente partiti e sindacati, e si permette di affermare che l’Italia repubblicana nata dalla Resistenza è un paese imperialista. Abbiamo rifiutato il collateralismo con la Dc, non vediamo perché dovremmo accettare quello con il partito di Labor o addirittura con il Pci. Noi abbiamo fiducia in questa democrazia. Una democrazia partecipata ma pluralistica, e non certo per l’egemonia di una classe. Quanto alla gerarchia, ci definiamo ortodossi. Rifiutiamo di considerare l’impegno del cristiano alla stregua di una metodologia della rivoluzione’.
La minoranza rumorosa e combattiva ebbe anche l’ardire di distribure un volantino satirico nel quale il Pci era raffigurato nelle vesti di un mago che affermava ‘l’estremismo è il rimedio ideale’.
Nella sua relazione al congresso, citiamo ancora dal libro di Vanni, il delegato nazionale dei giovani Aldo Marzari usò espressioni come ‘l’Italia è un Paese imperialista a pieno titolo’; ‘la Chiesa è sostegno e copertura del potere temporale, e le parrocchie il suo sostegno burocratico’; ‘i sindacati hanno squalificato la lotta a pure mediazioni di vertice’. Dopo l’intervento di Marzari si scatenò una zuffa. Gabaglio intervenne per invitare i suoi alla moderazione, ma confermò che la scelta per la lotta di classe era compiuta. Le sue parole furono salutate da un tripudio di bandiere rosse e ritratti di Che Guevara.
Quanto stava accadendo a Peschiera fu oggetto di un lucidissimo articolo di Giuliano Zincone, pubblicato il 9 dicembre sul Corriere della sera. L’articolo s’intitolava ‘Gli aclisti rossi’. Ecco che cosa scriveva Zincone:’ Se la scissione formalmente non ci sarà, essa di fatto è già avvenuta: i gravi dissidi e le forti ostilità fra i due gruppi sono insanabili sul piano politico e possono essere superati solo a livello dei più inattendibili compromessi. Si tratterà ora di vedere come procederà l’opera di mediazione già brillantemente intrapresa da Gabaglio; ma la presenza a Verona dell’on. Dall’Armellina, uno dei leader della minoranza interna, fa pensare, per analogia con quanto avvenuto nel movimento adulto, ad una specie di rischiosa coabitazione fra coniugi separati.
‘Le ultime battute del congresso sono state piuttosto confuse. Ieri il dibattito è andato avanti fino a tarda notte nel disinteresse generale. L’unico intervento degno di nota è quello del delegato fiorentino Sozzi, il quale, dopo aver affermato la necessità di dare al Pci un valido interlocutore di classe, ha polemizzato con il presidente Gabaglio dicendo tra l’altro che la sinistra Dc, con il suo ruolo di copertura, è un autentico avversario di classe, non un interlocutore. I nostri interlocutori sono quei lavoratori, quei giovani, che proprio l’equivoco storico della sinistra Dc trattiene ancora al di là della linea che divide gli alleati dagli avversari
della classe operaia.
‘Stamattina -scriveva ancora Zincone- fatta la lista dei candidati, il ruolo vacante della minoranza è stato assunto da un gruppetto di ispirazione marxista-leninista. Poi, mentre si incominciava a votare, il delegato uscente Marzari ha fatto la sua replica, insistendo sulle tesi esposte nella relazione. In seguito le operazioni si sono accavallate: è stato approvato un nuovo regolamento interno che andrà in vigore a partire dal prossimo congresso, ma le dichiarazioni di voto sui singoli articoli sono state utilizzate per tornare sui temi ideologici, già ampiamenti dibattuti, della scelta socialista, della lotta anticapitalistica e della socializzazione dei mezzi di produzione.
‘Del documento approvato a larga maggioranza -scriveva ancora il giornalista del Corriere della sera- ci è sembrata interessante l’attenzione dedicata ai due principali schieramenti politici di nuova formazione: il movimento politico dei lavoratori (MPL) è visto come un gruppo che ha il compito di “coinvolgere delle forze tradizionalmente legate nell’area interclassista o inserite nell’area governativa, sperimentando nuove forme di aggregazione e di azione politica, che le pongono in atteggiamento di ricerca di una unità di classe”. Il gruppo del Manifesto invece “sembra attento ad un recupero rivoluzionario di forze inserite nel Pci e all’aggregazione di formazioni tradizionalmente spontaneiste come Lotta Continua e Potere Operaio; ma ci sembra che rischi di non trovare sbocchi ideali per l’impossibilità di coagulo di tali forze”.
Subito dopo il congresso di Peschiera, a Verona da parte dei giovani venne eletto un comitato esecutivo nazionale, presieduto da Roberto Mosca e composto, fra gli altri, da Pier Paolo Saleri, Carlo Costalli, Antonio Di Mambro. Almeno per ciò che riguarda i giovani, dunque, l’8 dicembre 1970 la scissione poteva dirsi compiuta.
Ma forse la vera scintilla che fece scattare in via definitiva la molla della scissione politica definitiva anche da parte degli adulti fu la decisione del Papa, nel maggio del 1971, di sospendere gli assistenti ecclesiastici alle Acli. Una scelta che costò enormi sofferenze a Papa Montini, che le Acli aveva supportato fin dalla loro nascita. Montini si sentiva tradito dalle ultime scelte compiute all’associazione. Togliere gli assistenti fu per lui una decisione difficilissima e meditata. Dagli scissionisti fu letta come una scelta in loro favore, con questo andando al di là delle reali intenzioni del Papa. Il Papa infatti in quel momento aveva in mente le sorti della Chiesa e dell’associazionismo cattolico in generale, e non le questioni di parte.
La decisione del Papa non era giunta a ciel sereno: già il 2 marzo del 1970 infatti il presidente della Cei, cardinale Poma, aveva scritto una lettera al leader delle Acli Gabaglio sollecitando chiarimenti e impegni circa le attività della sua associazione. Rivolto direttamente a Gabaglio, Poma scriveva: ‘ella ben sa quali perplessità, i recenti orientamenti dell’associazione hanno suscitato nei vescovi, nel clero, nel laicato cattolico e nell’opinione pubblica, in ordine alla fedeltà delle Acli ai compiti statutari, dai quali essi ricevono la loro configurazione, che ne giustifia la presenza e l’attività. Anzi, la stessa gerarchia, la quale si è sempre preoccupata di non turbare il travaglio del movimento, rispettandone le autonome scelte, è ora chiamata in causa, come se condividesse i nuovi orientamenti e sostenesse determinate sperimentazioni. D’altra parte non si può negare che tra i dirigenti, nazionali e periferici, si manifestino profonde divisioni, avvertite largamente anche dall’opinione pubblica, con valutazioni diverse e, a volte, contrastanti, che toccano perfino la sostanziale ispirazione del movimento’. Il cardinale infine poneva quattro quesiti: 1) si chiede se le Acli vogliono ancora essere considerate movimento sociale dei lavoratori cristiani, come scritto nell’articolo 1 dello statuto; e se i militanti si sentano impegnati nel cambiamento della società sulla base della dottrina sociale della Chiesa; 2) si chiede se gli scopi originari delle Acli sono ancora considerati validi e si sottolinea la pericolosità di una ‘confusione che potrebbe crearsi tra le Acli e nuove formazioni, non dichiaratamente partitiche ma pur decisamente politiche. E non sembra infondato il timore che l’affermata autonomia delle Acli in campo politico, oltre ad affievolire il pur sempre libero ma comunque impegno civico dei cattolici, si risolva di fatto a vantaggio diretto di forze, dalla cui tendenza eversiva, autoritaria e distruttrice dei valori essenziali della persona, non può attendersi la vera promozione sociale della classe lavoratrice’; 3) si chiede di sapere in che modo i dirigenti aclisti intendano ancora servirsi della presenza dei sacerdoti assistenti; 4) ‘devo infine chiederle, prosegue la lettera del cardinale, se proprio, a voler giudicare con estrema oggettività e ponendoci tutti dinanzi alle responsabilità che oggi la Provvidenza ci chiama ad assumere, il metodo che le Acli sembrano voler seguire per il cambiamento della società e l’analisi stessa che esse fanno dell’attuale società, tengano conto dei valori fondamentali dell’insegnamento sociale del cristianesimo, contenuto nel magistero ecclesiastico, pontificio e conciliare. La prospettiva di opinate collaborazioni e sperimentazioni, l’uso di un linguaggio, d’un sistema e di una impostazione che risalgono a matrici inconciliabili con la visione cristiana della vita e della storia, non possono non lasciarci, ed ella nella sua sensibilità se ne renderà ben conto, perplessi e turbati. In una parola noi temiamo che, ad un certo momento, sia per alcune impostazioni di fondo, sia per il tipo di azione che oggi le Acli tendono a svolgere, possa avvenire una sostanziale trasformazione delle caratteristiche originarie di codeste Associazioni, che non sarebbero più riconoscibili come ‘movimento sociale di lavoratori cristiani’.
Ecco come rispose Gabaglio, citiamo testualmente dal volume ‘Cattolici contro’: ‘Gabaglio, che aveva definito la lettera di Poma un “attacco alla laicità dell’organizzazione” e non tanto al suo confluire su posizioni marxiste, convocò il consiglio nazionale per domenica 22 marzo. In quella sede e in quel giorno, si sarebbe scritta la risposta al documento del presidente della Cei. E difatti lunedì 23 marzo la risposta fu inviata al cardinale Poma, e l’indomani i suoi contenuti apparvero su tutti i giornali. Il corriere della sera la definì ‘una dura critica, con linguaggio marxista, dell’attuale sistema economico-sociale’. Tutti i commentatori giudicarono ormai inasanabile il contrasto con la gerarchia. La replica di Gabaglio consisteva in una memoria di nove pagine fittamente dattiloscritte. Nelle intenzioni non voleva essere una replica definitiva, ma un primo passo per l’apertura di un dialogo con la gerarchia ecclesiale. In realtà era un lungo elenco di punti fermi sui quali era praticamente impossibile un accordo rispetto a quanto Poma aveva scritto, e richiesto, nel suo documento.
Cosa sostenevano Gabaglio e i suoi consiglieri di maggioranza? noi non vogliamo e non possiamo allontanarci da quanto deciso a Torino nel giugno scorso -era questo il senso di un lungo e forbito discorso- perché riteniamo che solo così potremo operare per lo sviluppo integrale dell’uomo e per la radicale trasformazione della società a vantaggio del mondo del lavoro. Sappiamo che ciò comporta dei rischi, ma riteniamo che per un cristiano sia doveroso affrontarli per attuare integralmente la dottrina sociale delle encicliche e dei discorsi pontifici. Nessuno può disconoscerci la qualifica di cattolici e tanto meno quella di cristiani. Vogliamo non solo rimanere nella comunità ecclesiale, ma mantenere un legame con la gerarchia, attraverso gli assistenti ecclesiastici, ferma restando la possibilità riconosciuta dal concilio dei laici, di operare scelte autonome sul terreno temporale circa la materie opinabili. Se tuttavia la gerarchia ritenesse di modificare questo rapporto e ritirare gli assistenti, noi non ci opporremmo.
Per una larga parte il documento di Gabaglio conteneva anche una durissima requisitoria contro il sistema politico ed economico occidentale, e in particolare contro i governanti italiani. Vi si leggevano frasi come questa: ‘le Acli hanno sempre denunciato come ingiuste le strutture capitalistiche prevalenti nella società italiana’. E ancora: ‘i progressi realizzati nell’economia e i pur cospicui vantaggi che ne sono derivati sul piano sociale, non permettono di esprimere una valutazione positiva dell’attuale sistema politico-sociale’. E infine: ‘ di fronte a questa situazione è legittimo e doveroso chiedersi in che misura tutto ciò corrisponda ad una visione cristiana dell’uomo e della vita sociale’.
Fin qui l’analisi in quei giorni largamente diffusa, ma il problema si poneva a Gabaglio quando doveva in qualche modo indicare un’alternativa al presente. Il documento infatti parlava confusamente di una ‘società del lavoro’ che non era quella collettivistica, definita ‘non accettabile’ e pertanto appariva più utopica che rivoluzionaria.
In ogni caso per le Acli, sosteneva il documento, ‘essere cristiani ed essere lavoratori comporta oggi assumere nella sua interezza la condizione operaia e l’iniziativa volta al suo riscatto, e fare quindi una scelta di classe incarnandovi la propria testimonianza cristiana come singoli e come gruppo.
A questo punto, prosegue il racconto di Vanni, le Acli si attribuivano il diritto di operare perché fossero definitivamente superati gli ostacoli storicamente determinatisi fra Chiesa e mondo del lavoro. Da ciò il rischio delle sperimentazioni e la fine di ogni collateralismo nei confronti di qualsiasi partito, la libertà di voto e l’opportunità di un dialogo fatto con sicure e solide convinzioni. Le Acli, sosteneva il documento, ‘esprimono opinioni autonome e originali, spesso in contrasto con quelle degli interlocutori, mantenendo però un ponte con uomini che, anche se non credono in Dio, si sforzano di operare per la giustizia’.
Il tono della lettera di risposta di Gabaglio al cardinale Poma, così come l’intervento che il presidente fece al consiglio nazionale, mandarono su tutte le furie le minoranze delle Acli. La lettera di Gabaglio alla Cei toccava nervi scopertissimi. E la situazione non poteva che peggiorare: a Vallombrosa, dove l’annuale convegno agostano era cominciato al suono di ‘bandiera rossa’, era anche accaduto un altro fatto di ben altro valore simbolico: Labor, non più presidente, aveva chiesto l’aiuto dei suoi fedelissimi per sostenere la proposta di una convergenza delle Acli nel Mpl (movimento politico dei lavoratori), ma la proposta non passò perché in realtà la maggioranza dei presenti avrebbe voluto confluire nel Pci, mentre un altro gruppetto sosteneva addirittura posizioni extraparlamentari. Alla fine il presidente Gabaglio riuscì a non far votare nessuna di queste proposte, e se ne uscì con una mediazione riassumibile nello slogan ‘le acli per il socialismo’. Alla minoranza fu praticamente impedito di parlare.
Ma torniamo per un momento alla risposta di Gabaglio alla Cei: la conferenza episcopale valutò attentamente quella lettera, e si interrogò a lungo anche sul perché di quel suo carattere pubblico. Tanto a lungo, che solo molti mesi dopo, cioè nel febbraio del 1971 fu deciso di dare ancora una chance alle Acli di Gabaglio: con un comunicato la Cei rende noto che le risposte avute dalle Acli un anno prima ‘non sono tali da dissipare le perplessità e le riserve di carattere dottrinale e pastorale che avevano originato il dialogo’. Parole durissime e ferme, ma che lasciano aperto non uno spiraglio, ma un varco gigantesco. Il comunicato della Cei infatti, seppure a tanti mesi di distanza dallo scambio epistolare con Gabaglio, non annuncia sanzioni o interventi di alcun tipo. Si limita a rimarcare la presa di distanza dalle scelte acliste. Capiranno il messaggio, i vertici delle Acli? daranno seguito a questa apertura di credito? troveranno modo di ricomporre una situazione che sta sfuggendo di mano e che rischia di portare al disastro la grande associazione cattolica? fermeranno la loro corsa frenetica?
Purtroppo no, il segnale non viene colto. Nei mesi successivi non solo non accade nulla nel senso auspicato dai vescovi, ma addirittura Gabaglio e i suoi rivendicano l’autonomia della loro organizzazione, la giustezza delle loro posizioni, e vanno avanti per la loro strada. Il 9 maggio del 1971 la Cei comunica ufficialmente che le Acli ‘nella loro piena autonomia’ hanno compiuto scelte programmatiche e di natura politica che finiscono con il compromettere la Chiesa creando difficoltà e turbamenti entro e fuori l’associazione. ‘Pertanto, nel rispetto dell’autonomia rivendicata dalle Acli e della loro libera scelta di essere soltanto un movimento di lavoratori cristiani, i vescovi non ritengono che da oggi le Acli rientrino fra quelle associazioni per le quali il Decreto Apostolicam actuositatem prevede il consenso della gerarchia’. Di conseguenza, vengono ritirati gli assistenti ecclesiastici.
E pochi giorni dopo, cioè il 19 giugno, il Papa in persona deplora che la dirigenza delle Acli ‘abbia voluto mutare l’impegno statutario del movimento’ e qualificarlo in senso politico.
Ma gli avvenimenti hanno già preso una forte accelerazione, il giorno dopo l’intervento del Papa, infatti, la Federacl viene costituita formalmente come componente interna delle Acli. Il suo primo atto è quello di chiedere un radicale cambio di rotta dell’organizzazione, minacciando la scissione. Analogamente si comporta il Mocli, che il 30 ottobre del 1971 si stacca di fatto dalle Acli dando vita ad una nuova associazione. Il Mocli, disse Borrini in quell’occasione, nasce per rendere un servizio alla comunità cristiana. Borrini parlò di ‘contrasto fra due culture. O meglio contrasto fra la nostra modesta ma genuina cultura e l’incultura di chi, forte della presunzione intellettualistica di possedere il crisma di una verità assoluta non suscettibile di essere messa in discussione, finiva con il considerare inutile e improponibile ogni dialogo con chi la pensava diversamente. A pensarla diversamente eravamo noi, per di più costretti a reagire all’atteggiamento di intolleranza e di chiusura di cui eravamo oggetto con il ricorso a forme autonome organizzate di presenza e di iniziative. Al sommarsi di posizioni ideologiche velleitarie e perfino extraparlamentari che rendevano sterile ogni tentativo di dialogo e di confronto, si è aggiunta l’impossibilità di convivere ulteriormente in un movimento che, facendo propri i metodi di una gestione marxista leninista ispirata al principio del centralismo, metteva in atto comportamenti antidemocratici e burocratico-verticistici così pesanti, per cui molti nostri amici si trovavano fuori dalle Acli prima ancora di lasciarle. E’ un fatto comunque che noi esistiamo e che vogliamo continuare ad esistere, trovandoci ormai con questa assemblea alla fase costituente di un nuovo movimento cristiano dei lavoratori. Ma proprio perché esistiamo, e vogliamo continuare ad esistere, dobbiamo coerentemente chiederci che cosa ci proponiamo di voler essere’. Il nuovo movimento per Borrini sarebbe stato cristiano e quindi impegnato in un’azione concreta per partecipare all’azione pastorale della Chiesa.
L’8 dicembre tocca alle ‘Libere Acli’ venete uscire allo scoperto nel processo di separazione dall’associazione, e confluiscono nella Federacl.
Tutti gli osservatori si accorgono che la situazione è in grande fermento, che la bolla sta per esplodere. A Cagliari nella primavera del 1972 si tiene il congresso delle Acli, a porte chiuse. Alcuni dissidenti riuscirono a infiltrarsi non tanto per spiare, quanto per cercare di capire, in un residuo, disperato, quanto vano, tentativo di trovare qualcosa cui appigliarsi per scongiurare il fantasma della scissione, che per tutti, soprattutto per i protagonisti, è un’orizzonte che suscita speranza e timore insieme. A Cagliari le residue speranze di ricostituire un quadro unitario andarono perse per sempre. ‘Nelle Acli -racconta uno che in quei giorni riuscì a non farsi scoprire, e che nel Mcl avrebbe ricoperto un ruolo di grande rilievo- ormai prevaleva un atteggiamento arrogante, si provava un senso di liberazione per il fatto che ce ne fossimo andati. Nemmeno un tentativo timido di ascoltare le nostre ragioni. Avevamo torto e basta. Dentro le Acli c’era di tutto, gente di Lotta continua, di Potere operaio, del Pdup, del Pci. Le Acli erano diventate un’altra cosa rispetto alle origini. Ci rendemmo conto che la nostra antica organizzazione era stata ‘scalata’ al pari di quanto avviene per le società quotate in borsa. In pratica, una cordata politica esterna aveva acquisito il pacchetto di maggioranza della nostra associazione, come una qualunque azienda. E noi eravamo sempre più emarginati. A spingere verso sinistra erano soprattutto i socialisti, convinti di potersi sostituire alla Dc come punto di approdo dei voti aclisti, e convinti soprattutto di poter crescere adeguatamente con l’ausilio di questi voti, e dunque di tenere testa al Pci. Insomma, in questo travaglio socio-politico l’obbiettivo ultimo che si poteva intravvedere era da una parte l’emarginazione della Dc, dall’altro una disputa a sinistra fra Pci e Psi su chi dovesse prevalere. Il tutto utilizzando l’imponente massa socio-politico-elettorale costituita dalle Acli. Insomma eravamo diventati merce per le elezioni’.
Al congresso si parla anche di elezioni, alle porte è la campagna elettorale per le politiche dove esordisce il Mpl di Labor. Il 7 maggio si vota, ma per Labor e i suoi le cose vanno malissimo. Come già ricordato in precedenza, appena 119 mila voti in tutta Italia e nessun eletto. Nelle Acli scoppia la crisi, comincia la riflessione, l’autocritica. Ma non vengono affrontati i nodi veri. Ci si interroga sul perché i voti siano stati così pochi, sul perché gli elettori non abbiano capito il messaggio. Ma nessuno probabilmente si pone la domanda più opportuna, cioè se sia giusto proseguire su quella strada oppure se sia tutto da rivedere.
Il 29 luglio del 1972 la Federacl di Bersani e Dell’Armellina e il Mocli di Borrini concordano su un documento di unificazione dei loro gruppi. L’uscita dalle Acli ormai è fatta. Gabaglio e i suoi capiscono che l’irreparabile si è compiuto. Il presidente in un disperato, quanto inutile e generoso, tentativo di fermare le lancette della storia, presenta le sue dimissioni, quasi una presa d’atto della necessità di un mutamento di linea. Gli subentra immediantamente Marino Carboni, peraltro un suo fedelissimo. Ma forse è tardi. Troppo tardi. Quella scelta andava compiuta probabilmente almeno un anno prima. In quel momento non era sufficiente. Quelli, gli altri, i dissidenti, ormai avevano deciso di andarsene per la loro strada. Anzi, avevano deciso di riprendere da soli l’antica strada, e i fili che li tenevano legati ai vecchi compagni delle Acli erano ormai spezzati per sempre. L’8 dicembre del 1972, a Roma, al termine di un’assemblea pubblica, la Federacl e il Mocli si uniscono e nasce il Movimento Cristiano Lavoratori.