Ma il 23 novembre, con un nuovo DPCM, il Premier Conte annuncia la suddivisione del Paese in aree identificate per colore. Il nuovo tricolore che riveste il nostro bel paese è rosso arancione e giallo. Ogni colore raggruppa determinate regioni. Rosse sono Calabria, Val d’Aosta, Piemonte e Lombardia; Arancioni sono Puglia e Sicilia; Gialle sono Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Toscana, Molise, Marche, Sardegna e Friuli Venezia Giulia.
Questa una differenziazione è stata creata per non coinvolgere tutto il Pese nell’imposizione di norme troppo restrittive dettate dal drastico aumento delle vittime da Covid19 in determinate regioni. La volontà era quella di non paralizzare un Italia già sofferente. Da qui partono le polemiche, le regioni non si dicono soddisfatte, subito si parla di corruzione e i presidenti regionali iniziano ad accusarsi fra loro. Molte regioni come Lazio e Campania vengono accusate di essere state “declassate” per le rivolte popolari vissute nelle settimane scorse; si crede quindi che il Premier sia stato più indulgente per evitare ripercussioni. Non tarda ad arrivare la risposta di Conte che chiarisce che la suddivisione è stata effettuata dall’Istituto superiore di sanità e dal Comitato tecnico scientifico in modo “oggettivo” analizzando i dati dei contagiati, dei morti e dei pazienti in terapia intensiva, dei ricoveri, il numero di casi dei sintomatici e quello di focolai; non quindi per simpatia o antipatia nei confronti delle varie regioni.
Ma le polemiche infuriano e con esse anche i furbi e coloro che cercano di uscire dalle regioni rosse; in quest’ambito interviene il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca che chiede al governo “un piano straordinario di controllo da parte delle forze dell’ordine per il rispetto delle ordinanze, che rischiano di diventare inutili”.
Ma il problema più grande restano le restrizioni vigenti aggiunte a quelle ancor più ferree inflitte alle regioni rosse ed arancioni che stanno vivendo un altro lockdown e come lo Stato avrà intenzione di sostenere i suoi lavoratori. Ci sono oltre 150 mila persone in tutta Italia che aspettano da febbraio i soldi della disoccupazione o della cassa integrazione; l’Inps non riesce a colmare i ritardi ma mette delle proroghe per continuare a consegnare le domande. Domande che aumentano e soldi che non arrivano; manifestando i grandi problemi tecnici e strutturali dell’istituto nazionale di previdenza sociale. Una realtà che si scontra con la puntualità nei pagamenti del reddito di cittadinanza. Una contraddizione che aumenta il suddetto malcontento popolare: l’inps riesce a soddisfare chi non ha mai lavorato ma non riesce ad aiutare chi ha sempre lavorato, anche in smartworking, ed ha sempre versato contributi.
Un solo esempio pratico per capire con il reddito di cittadinanza ampliato ulteriormente, visto il perdurare della pandemia, se richiesto oggi da chi ha i requisiti attraverso gli istituti di Patronato, il soggetto beneficiario riceverà la somma di circa 700 euro già il mese prossimo, purché non occupato. Il lavoratore invece che ha con un normale contratto di lavoro è che è stato posto in cassa integrazione a maggio o giugno scorso non ha ancora percepito l’intera indennità spettante con notevoli danni economici.
Ecco che nascono incertezze sulla essenza è la bontà delle scelte governative che spesso per placare le tensioni sociali finiscono per danneggiare i titolari di diritti reali e che non tutelano chi veramente lavora magari anche da diversi anni con notevoli sacrifici.
Questo lo scenario di un’Italia divisa per colore e reddito, sempre più amareggiata.
Michele Cutolo
Vice Presidente Nazionale MCL