Il voto del 20 e 21 settembre che si era andato caricando di un eccessivo significato politico, con possibili riflessi sulla stessa tenuta del governo, ha mostrato, invece, la realtà di un Paese che meriterebbe, da parte dei commentatori politici, una maggiore attenzione per conoscerne le vere esigenze.
Innanzitutto, c’è da sottolineare che, pur in una situazione per molti versi anomala – voto in estate, la pandemia non ancora debellata – gli elettori hanno mostrato, con l’elevata affluenza, quella volontà di partecipazione che sembrava, invece, andare scemando per un accentuato astensionismo evidente nelle consultazioni politiche.
L’esito del referendum, indirettamente, ha mostrato questo aspetto. Infatti mentre il taglio dei parlamentari era stato approvato dalle Camere con una maggioranza del 97%, la conferma referendaria, del resto ampiamente prevista, ha registrato una netta vittoria del “Sì”, ma con un consenso di quasi trenta punti in meno, evidenziando un certo divario tra le scelte dei parlamentari e l’opinione dei cittadini.
Su questo risultato il Movimento 5 stelle ha puntato tutte le sue carte per coprire quello negativo delle Regionali, che si è palesato anche peggiore nelle regioni meridionali, punto di forza del successo elettorale alle politiche del 2018. Luigi Di Maio, che in Campania vede passare il consenso dal 50 al 13%, come scrive Huffpost, si intesta la vittoria referendaria e scarica sugli altri le sconfitte. Potrebbe aprirsi, nel partito di Grillo, quella sempre latente resa dei conti interna, ma evitando contraccolpi sul Governo per mantenere in Parlamento, probabilmente fino alla fine della legislatura, la condizione di maggioranza relativa, pur apparendo ormai sul viale del definitivo tramonto politico. E’ questo il dato più significativo: proseguirà fino al 2023 una rappresentanza che vede i rapporti di forza parlamentari ben diversi da quelli espressi in tutte le consultazioni del 2019 e 2020.
I risultati delle Regionali non hanno premiato le aspettative del centrodestra che aveva ipotizzato di sferrare la spallata e vincere nella “roccaforte rossa” della Toscana. L’insuccesso un po’ a sorpresa in Puglia e la débâcle in Campania sono segnali che questa parte politica dovrebbe prendere in considerazione per evitare inadeguatezze e vecchie logiche. Si sono consolidate, invece, le posizioni al Nord, con lo straordinario successo di Luca Zaia, che si è avvalso di una forte spinta “civica”, balzato ad oltre il 75% ed il consolidamento di venti punti del consenso per Giovanni Toti in Liguria, anche lui con una lista di appoggio senza riferimenti partitici. Il successo del centrodestra nelle Marche rappresenta l’unica novità rispetto agli assetti precedenti; comunque c’è da sottolineare che un’altra Regione, dopo l’Umbria ed il Molise, incrina la compattezza dell’area vasta del tradizionale feudo di consenso della sinistra nel centro Italia.
Il Pd consolida la posizione del segretario Zingaretti, oltre i suoi stessi meriti, avendo scampato il pericolo che gravava sulla Toscana che ha visto vincitore un candidato poco noto come Eugenio Giani e con i successi personali degli arrembanti di Vincenzo De Luca in Campania e di Michele Emiliano in Puglia. Il partito del Nazareno mostra, rispetto alle altre forze politiche, una capacità di contrastare i venti contrari dell’opinione pubblica, con l’utilizzo ancora efficace dei suoi tradizionali serbatoi elettorali. Compensa la perdita del consenso dei suoi riferimenti sociali nel mondo operaio con una forte capacità di adattamento. Ambisce, non senza qualche ragione, a mantenere la sua posizione “centrale” nel quadro politico nazionale.
Al di là delle considerazioni partitiche, lo sviluppo delle liste civiche rappresenta un esito virtuoso della politica. Le autonomie locali, ove si sviluppano questi segni di diretta espressione popolare, rappresentano la possibilità più concreta del recupero della rappresentatività delle istituzioni politiche.
Il consenso ai governatori appare comunque il risultato di un radicamento che merita complessivamente rispetto e corrisponde a molte aspettative sociali. Il loro successo, uno dei pochi elementi chiari di queste elezioni, fa pensare a una prospettiva di maggiore autonomia, sollecitata da un assetto personalista, un cambiamento destinato a valere soprattutto nei territori. Mentre ancora non si intravede un possibile miglioramento del quadro istituzionale regionale nei rapporti con lo Stato centrale che ha mostrato inadeguatezze e conflittualità proprio in occasione dei provvedimenti adottati per contrastare la pandemia.
Il risultato referendario e l’assetto delle Regioni emersi dal 21 settembre, non prospettano soluzioni ai problemi politici e istituzionali del Paese. Non ci sono “svolte” in vista e neppure cambiamenti o novità. Restano molti problemi, tra questi il rebus della riforma elettorale. Questa avrebbe dovuto essere approvata insieme alla nuova composizione del Parlamento, tuttavia è ancora in alto mare e vede i partiti divisi. Inoltre appare destinata ad accentuare il potere delle segreterie dei partiti, impedendo agli elettori di scegliere effettivamente i loro rappresentanti.
Il governo Conte ne esce indirettamente, ma solo apparentemente, rafforzato. Non subirà nessuno shock che, forse, lo avrebbe costretto a cambiare passo. E’ immaginabile che continui il percorso di autoreferenzialità che fino ad oggi ha fatto slittare le scelte più difficili e necessarie per la ripresa. Così come è possibile che proseguano la sostanziale balcanizzazione politica, la forte volontà di mera sussistenza di gran parte dei parlamentari, la difficoltà di intravedere una prospettiva di solidarietà nazionale. Tutto ciò rende preoccupante il difficile cammino della ripresa economica del Paese, pur in presenza delle cospicue risorse europee.
Senza cambiamenti adeguati, cioè senza una riforma della giustizia civile, senza nuove regole sulle procedure per gli investimenti pubblici, senza una riforma fiscale, senza una chiarezza di competenze tra Stato e Regioni, senza uno sfoltimento dell’assetto burocratico, sarà impossibile predisporre progetti realmente adeguati e realizzarli nei tempi e nei modi che le necessità del momento e l’Europa stessa ci richiederanno.
Pietro Giubilo