Passata una durissima e polemica campagna elettorale e mentre seguiamo con grande attenzione (attenzione interessata) gli sviluppi politici conseguenti al voto del 4 marzo - voto che ha portato risultati che meritano attente riflessioni -, continuiamo a concentrarci nel percorso che ci porterà al Congresso Nazionale, sui problemi concreti che interessano il nostro Movimento, il nostro popolo. La Presidenza Nazionale ha deciso di concentrare l’attenzione, in questo 2018, soprattutto su due temi “storici” per il MCL: il lavoro e l’Europa.
C’è da augurarsi che quest’anno sia quello giusto per il definitivo avvio delle politiche attive del lavoro. Cosa possibile a condizione di ripensare seriamente il grande tema della formazione: tanto presente nei dibattiti politici e sui giornali quanto poco praticato, almeno in termini moderni e innovativi, in buona parte delle realtà aziendali.
Dopo un 2017 che ha visto gli investimenti crescere a doppia cifra, grazie agli incentivi previsti dal piano Industria 4.0, ora è il momento del credito d’imposta sulla formazione, che potrà consentire alle imprese di avere benefici fiscali per le attività di formazione dei propri lavoratori sulle tematiche che caratterizzano il nuovo modello produttivo. La formazione non è un costo: è un investimento che potrà dare risultati nel lungo periodo ma solo se utilizzata al meglio.
Che il nostro Paese abbia bisogno di investire sulla formazione dei lavoratori lo mostra il panorama a tinte fosche dipinto dall’Ocse nel rapporto che analizza le competenze. Allo stesso tempo l’Italia è il Paese Ocse con il più basso livello di investimenti in formazione nelle imprese, sia nel settore dei servizi che in quello manifatturiero e senza differenze per struttura dimensionale.
Sono molte le conseguenze di questo scenario. Prima fra tutte il fatto che se in tutti i Paesi del G7 i lavoratori occupati in attività non routinarie sono maggiori, spesso anche il doppio, di quelli occupati in attività altamente ripetitive, in Italia avviene l’opposto. Una conseguenza particolarmente grave per almeno due ragioni: da un lato le imprese sconteranno livelli di produttività più bassi derivanti da queste attività ripetitive e standardizzate, dall’altro i lavoratori italiani sono quelli più a rischio di sostituzione da parte di robot e sistemi automatizzati che possono svolgere queste attività a costi inferiori e con percentuali di errore e inefficienza più basse. Lavoratori che spesso hanno una formazione che non li prepara al lavoro o, peggio, espulsi a causa delle numerosissime crisi aziendali che abbiamo visto negli ultimi anni (e che ancora vediamo). Espulsioni non accompagnate da una seconda possibilità, ma accompagnate dal peso di competenze obsolete e dalla difficoltà spesso a cinquant’anni di reinventarsi e tornare a studiare, anche perché oggi sono pochi gli strumenti che consentono di riqualificarsi mantenendo un reddito per sopravvivere.
Un ultimo elemento può aiutare a chiudere il cerchio di questo scenario: se le imprese hanno lavoratori poco formati, allora saranno più in difficoltà a fare investimenti in tecnologia poiché mancano quelle figure professionali in grado di governare strumenti complessi. Tutto questo non facendo riferimento ai dati sulla formazione tecnica superiore, o sul rapporto tra scuola e lavoro, che in Italia è ancora particolarmente complesso. Basti pensare al numero di studenti all’interno degli Its, circa 8.000 rispetto agli oltre 700mila dei corrispettivi tedeschi: l’obiettivo deve essere quello di fornire alle imprese uno strumento fiscale per adeguare i livelli di competenze alle tecnologie nelle quali si è investito, così da completare i due livelli necessari per avviare anche in Italia la quarta rivoluzione industriale: il capitale fisico e il capitale umano. Ma non si tratta di un’operazione semplice, si è già avuto modo di vedere con il recente dibattito sull’alternanza scuola-lavoro come non basti collegare formazione e lavoro per ottenere risultati soddisfacenti. Quando l’esperienza di lavoro non è stata proposta e costruita sulla base dei profili dei ragazzi questa è stata fallimentare. Allo stesso modo il rischio si ripropone per quanto riguarda la formazione in azienda: spesso fatta con superficialità.
Non bastano corsi di formazione generalizzati, occorre costruire percorsi personalizzati che partano dalle competenze già presenti nei lavoratori e le riqualifichino. Un percorso lungo, una sfida culturale di imprese e lavoratori. Le prime dovranno iniziare a capire che il mercato del lavoro non può offrire lavoratori dotati di tutte le competenze di cui hanno bisogno, i secondi dovranno iniziare a capire che la formazione non finisce mai: due rivoluzioni che possono solo in parte essere sostenute da incentivi economici.
Ma esiste anche un tema più complesso che rende problematica l’idea della formazione come panacea di tutti i mali: siamo sicuri di riuscire a riqualificare i lavoratori più maturi portandoli verso le competenze digitali necessarie oggi? Si tratta di un nodo sociale fondamentale, di un problema urgente che riguarda la transizione verso un nuovo modello di produzione e che non può permettersi di lasciare indietro le persone.
Insomma, bisogna far decollare “moderne” pratiche attive del lavoro e una vera alternanza scuola-lavoro per cercare di incrociare il più possibile le domande con le offerte delle nuove occupazioni. E’ indispensabile un dialogo, una sinergia sempre più stretta tra imprese, scuole, università ed esigenze del territorio: gli sforzi fatti in questa direzione sono stati spesso ideologici.
Su questo terreno tutti possiamo fare la nostra parte se vogliamo stare in Europa: “aggrappandoci” bene alla ripresa in atto e senza perdere posti di lavoro. E con la consapevolezza che formazione, riqualificazione, bilanci di competenze e, soprattutto, orientamento non risolvono tutti i problemi che abbiamo di fronte, ma sono gli strumenti principali a disposizione dei lavoratori (soprattutto se giovani) per affrontare una carriera che, volenti o nolenti, sarà sempre più discontinua.
Carlo Costalli
Presidente Nazionale MCL