La proposta del premier Giuseppe Conte di “un Patto sociale per coniugare modernità ed equità” merita una risposta, se possibile tempestiva, comunque adeguata alla gravità della stagione che stiamo vivendo. Il presidente del Consiglio è stato esplicito: “In prospettiva è prezioso l’avvio di un tavolo progettuale con le parti sociali”.
Le domande che ci poniamo sono queste: davvero si sta per riaprire una nuova fase di concertazione con esiti vincolanti per le parti? O quella che ci attende è solo una diversa forma di dialogo sociale, costruita su misura per le forze politiche oggi dominanti? Domande non secondarie, perché sono la qualità della politica, la sua forza e la sua capacità decisionale, il suo opportunismo e il suo realismo, il suo tasso ideologico e la sua capacità di visione a determinare l’esito di questa iniziativa. E’ già accaduto in passato e accadrà anche in futuro.
Di sicuro, l’ipotesi della costruzione di un Patto sociale rimanda all’unico precedente che viene considerato vincente. Ovvero, il protocollo del 23 luglio del 1993, fortemente voluto da Carlo Azeglio Ciampi che guidava un governo tecnico in grado di mettere in sicurezza finanziaria il Paese. Il testo, sottoscritto dai sindacati e sancito da un referendum dei lavoratori, fissava gli obiettivi di politica dei redditi. In particolare, si legava la crescita dei salari all’aumento della produzione e degli utili delle imprese. Inoltre si programmava un tasso d’inflazione per contenere la spesa pubblica. Il tutto orientato alla crescita economica e al rafforzamento della competitività e della base occupazionale. La stagione della concertazione contribuì al risanamento dei conti pubblici, ma fu drasticamente chiusa con l’avvento del bipolarismo muscolare che coinvolse politicamente la sinistra sindacale. Ricordiamo come negli anni successivi abbiamo più volte ascoltato i leader politici rivendicare un protagonismo del governo in chiave oppositiva alle forze sindacali, sino al punto di ricercare la rottura con le forze sociali identificate come protagoniste della conservazione, rispetto alla sfida posta dalla modernità.
Ora, la pandemia sembra aver cancellato con un colpo di spugna le divisioni di ieri. Dinanzi alla necessità di rimettere in moto l’economia, garantire l’occupazione e riavviare il cammino dello sviluppo, ecco riprendere quota la necessità del dialogo quale strumento per costruire un Patto sociale in qualche misura vincolante. Una sorta di tregua necessitata, ma che va sfruttata sino in fondo.
Però sarebbe meglio delimitare distintamente il perimetro del Patto sociale, al fine di non scrivere un libro dei sogni come è già accaduto dalla fine degli anni Novanta in poi, identificando una linea di politica economica e di sviluppo sostenibile che tenga conto di alcuni fattori nuovi. Innanzitutto l’ampliamento a dismisura del debito pubblico italiano che si avvia al traguardo da brividi del 155 per cento del Pil entro la fine del 2020. Con lo spettro, già evocato dai falchi di Bruxelles, del ripristino delle rigide regole del Patto di stabilità, una volta superata la fase emergenziale della pandemia.
Tutto questo significa che l’Italia ha bisogno di fare poche scelte e significative, a partire da una rinnovata politica dei redditi che a fronte della salvaguardia dei posti di lavoro e dell’impegno per una spinta alla produttività, garantisca la stabilità del costo del lavoro e un percorso di ridimensionamento graduale ma tenace del debito pubblico. Altre scelte decisive riguardano l’orientamento della spesa pubblica in sanità, infrastrutture, scuola, formazione e innovazione. Ma soprattutto un radicale alleggerimento di tutti i vincoli burocratici che stanno strangolando il Paese. Alla politica che dovrà scegliere e alle parti sociali che dovranno cooperare, suggeriamo di smetterla con l’elogiare il “metodo Genova” e di trovare in tempi brevissimi una sua puntuale applicazione per tutte le opere pubbliche. E soprattutto meno intoppi burocratici per le nuove iniziative, anche digitali, che tutto il mondo privato vorrà mettere in campo facendo leva sulla sua creatività.
Infine una raccomandazione, quanto mai necessaria, a una politica alle volte distratta: questa volta, al tavolo invocato dal premier, dovrà avere un posto significativo anche il Terzo settore. Dovrebbe essere chiaro a tutti, infatti, che questo ricchissimo e variegato mondo non può più delegare ad altri la propria rappresentanza. Soprattutto per il suo ruolo decisivo nella tenuta sociale del Paese di cui ha dato prova eccellente nel corso della pandemia. Ma anche per la sua indiscussa capacità di legare centro e periferia, di innervare di valori sociali condivisi i territori, di preservare lo spirito solidale del popolo, di rammendare socialmente laddove più forti sono i divari, di scoprire e mettere in moto energie sopite. Il suo impegno nel seminare pacificazione e costruire consenso sociale motivato da valori forti è un patrimonio indispensabile nella fase di ricostruzione che ci aspetta. E di cui l’Italia, a giusta ragione, può legittimamente vantarsi anche dinanzi ai partner europei, forse oggi più disposti a riconsiderare gli stereotipi che, nel passato, tanto ci hanno danneggiato.
Dunque, se mai si sottoscriverà un nuovo Patto sociale, sarà essenziale la firma del Terzo settore.
Domenico Delle Foglie