Dal 5 marzo stiamo assistendo alla crescita esponenziale della hybris, cioè della tracotanza, del capo di un partito, il M5 Stelle, che, per il fatto di aver ottenuto il 32 per cento nelle votazioni, peraltro in “splendido isolamento”, ritiene di essere il “vincitore” di queste elezioni ed, automaticamente, il leader “scelto dal popolo”, con il conseguente diritto ad essere designato Presidente del Consiglio, da Sergio Mattarella
Per la verità, Luigi Di Maio accampa un diritto che non esiste, in quanto l’Italia possiede un sistema di democrazia parlamentare sancito dalla Costituzione che richiede il voto della maggioranza delle Camere per poter dar vita ad un governo. Mattarella “custode della Costituzione” esercita la sua prerogativa, senza alcuna coercizione elettoralista, soprattutto se non maggioritaria, affidando l’incarico a colui che, in base alle consultazioni, dimostri di possedere una proposta di governo sostenuta dal consenso di una sufficiente maggioranza dei gruppi parlamentari. Non ci sono e non ci possono essere altre legittimazioni.
Analoga esigenza viene espressa, con minore iattanza e senza voler imporre l’indicazione del premier, dal centrodestra, peraltro fondata su un più ampio suffragio. Da parte del capo dei 5 Stelle, si tratta, invece, di una vera e propria distorsione del sistema costituzionale. E’ l’effetto, ancora, di un equivoco, secondo il quale - sulla base di regole elettorali a suo tempo approvate, che prevedevano un premio di maggioranza e l’indicazione di un candidato premier - i cittadini avrebbero “votato” il governo; di conseguenza, le campagne elettorali e lo stesso dopo elezioni, si imperniavano sui leader che, ottenendo, spesso, ma non sempre, una maggioranza assoluta di seggi, erano in condizioni di realizzare un Esecutivo con l’insieme del loro “rassemblement”. Ora, poiché, invece, sotto il profilo della Costituzione, nulla è cambiato e le regole elettorali vigenti sono sostanzialmente proporzionali, questa forzatura della lettera e, soprattutto, dello spirito della Costituzione, non aiuta a prendere atto della condizione reale e cioè del fatto che occorra un vero dialogo politico, di programmi, di scelte e priorità, come base di un possibile incontro o accordo tra rappresentanze parlamentari; in sintesi di ritrovare la cultura del confronto politico e non di incontri personali tra leader, più o meno legittimati ad autodesignarsi a sole guide per dare un governo al Paese. Del tutto fuorviante il paragone che Di Maio ha, poi, fatto con la situazione francese, mettendo in relazione il suo 32 per cento con il 23 conseguito da Macron al primo turno. La Francia si è data altre regole elettorali e, soprattutto, in essa vige un sistema presidenziale. Qui da noi no. Oltretutto assai risibile è il tentativo di declinare il presidente francese con i valori della tradizione di De Gasperi.
Passando al piano più propriamente politico, c’è da dire che anche il confronto impostato dal capo dei 5 Stelle appare del tutto inadeguato e strumentale. Di Maio, confermando il suo approccio protervo, chiede agli altri due poli una alleanza sulla base di alcuni punti programmatici, ma pretendendo due cose del tutto infondate. Verso il centrodestra di scegliere all’interno della compagine ponendo un veto su Forza Italia, con il risultato di dividere quella coalizione e di indebolire il suo interlocutore Salvini, il quale, sciolto dalla parte “moderata”, limiterebbe gravemente la sua rappresentanza; nei riguardi del PD un accordo con tutto il partito, cancellando le polemiche con l’ex Segretario, per la sola esigenza che, altrimenti, non avrebbe i numeri. Questo doppio binario che viene fatto passare come una linea tattica, è, invece una studiata operazione di potere, con la quale il partito di Di Maio si conferma come portatore di una visione asettica, sostanzialmente élitaria, principale sostenitore di quella “democrazia dei social” che non significa altrimenti che una politica debole, influenzabile da meccanismi che seguono la logica della pubblicità, volti a convincere e non a condividere, lontana da ogni radicamento territoriale, l’opposto della “democrazia partecipata”; trasformando, di conseguenza, il popolo in opinione pubblica e i cittadini in utenti, con la soppressione dei corpi intermedi e con l’emergere di quella “folla solitaria” di cui recentemente, Pierluigi Battista ha ricordato il prestigioso teorizzatore, David Riesman. Questa disgregazione sociale e la sua riaggregazione in termini di opinione su due generiche categorie collettive (“onestà e trasparenza”, declinate con enfasi dal pm Di Matteo sabato ad Ivrea), in realtà depoliticizzando e derappresentando la politica, è l’obiettivo dei ripetuti meeting della Casaleggio associati e delle sue strategie di rete.
Le disinvolte capriole programmatiche di Di Maio sono, infatti, collegate alle altrettanto disinvolte modifiche delle linee politiche, a lungo portate avanti dal suo Movimento. Certo la visita da candidato alla City di Londra - meta da sempre di autorevoli “pellegrinaggi” (per tutti ricordiamo quello di D’Alema, ma da premier insediato) - fa ritenere che stia esplicitando i “consigli” cercati e ricevuti, necessari per la sua evidente inadeguatezza, e quindi per rassicurare opinionisti e operatori economici che nulla cambierà su atlantismo, Europa ed Euro. Queste dichiarazioni non ci tranquillizzano sul suo vero europeismo, ma svelano solo l’intento di scalare il potere e non di innovare la politica, come del resto hanno sempre dimostrato i grillini nei comuni dove governano. Si fa sempre più evidente come il partito di Di Maio sia l’opposto di quel “nuovo” che viene invocato, per esempio, come esca a Salvini, per abbandonare Berlusconi. Il suo capo potrebbe più adeguatamente rappresentare l’ultimo seguace dell’establishment globalista.
In questo difficile e affaticato Paese, quella di Luigi Di Maio non è certo la ricetta per riuscire a ritrovare la via italiana per il ritorno ad una Europa politica, ad uno sviluppo che significhi lavoro, ad una stabilità sociale fondata su famiglia, sicurezza e vere politiche per il Sud e, soprattutto, alla salvaguardia di una democrazia rappresentativa del popolo. Che costituiscono la sfida di oggi e di domani.
Pietro Giubilo