Aristotele fin dal IV secolo a.C. ha affermato la tendenza dell’essere umano alla socialità. Per nostra natura abbiamo bisogno di rapportarci con l’altro, che addirittura è elemento fondamentale del definirsi della nostra identità.
Oggi, però, l’inimmaginabile ci ha presentato il conto: ovvero la diffusione della pandemia da Covid-19, che imperversa nel mondo dall’inizio di questo anno, ci ha obbligati a rivedere e ripensare i nostri comportamenti e il nostro modo di stare insieme.
In Italia, dopo un primo momento di smarrimento, e forse anche con un po’ di sottovalutazione, è diventato chiaro a tutti, o quasi, che non ci si salva da soli. Nessuno si salva da solo. Rimanendo a casa (cosa attuata dalla maggior parte della popolazione) non solo evitiamo di prendere il virus, ma impediamo che il contagio raggiunga altre persone magari più indifese e fragili.
Nei mesi più bui abbiamo visto un Paese sostanzialmente unito e solidale.
Ora le cose sono pian piano cambiate, i contagi sono abbastanza contenuti e gli ospedali hanno possibilità di curare i malati con maggiore tranquillità. Ci avviamo timidamente e cautamente verso una rinascita in tutte le forme depauperate dalla crisi. Una rinascita non solo economica ma soprattutto umana e sociale, facendo però tanta attenzione perché il virus è ancora tra noi.
Ora, forse, a destare il massimo allarme dovrebbero essere le marce negazioniste che si tengono in ogni dove, le adunate anti Covid che giudicano la pandemia come un mezzo di controllo sociale utilizzato dai governi per motivi ideologici e liberticidi.
“Piazze” che si affannano a negare o minimizzare il coronavirus in nome di astratte libertà personali o meglio individuali, rifiutando non solo il distanziamento sociale ma anche le accortezze basilari per evitare il proliferare del contagio. Tutto questo in nome di una cieca libertà individualistica che non tiene conto di un criterio fondamentale, la solidarietà.
Una moltitudine eterogenea, a tratti sovranista ma più che altro oggi estremista, che decide in modo del tutto incauto di riprendersi la scena mostrando tutti i limiti delle manipolazioni e degli egoismi umani.
Invece, oggi, più che mai dovrebbe essere chiaro a tutti che siamo legati gli uni agli altri, e che la lotta al virus può avere esiti positivi solo se ognuno fa la propria parte con responsabilità e coscienza. Il permissivismo, la superficialità possono portare a compiere l’errore fatale: quello che poi ricade sul prossimo, su tutti.
Lo scatto che ci porta al futuro, uno scatto evoluzionistico, quello che apre davvero il nuovo millennio dell’homo sapiens, è tutto qui. Noi tutti siamo individui, con le nostre prerogative, le nostre libertà personali, i nostri diritti costituzionali, ma siamo anche una parte di un tutto organico, un corpo sociale.
È importante per tutti noi riprendere gli spazi o sprazzi di normalità, di socialità ma è nostro dovere farlo adottando tutti i comportamenti necessari per evitare la diffusione del virus: dal distanziamento alle mascherine, all’igienizzazione continua.
Una comunità è tenuta insieme da una rete fondamentale: quella dei doveri. Questi ultimi senza diritti perdono il loro significato ed è pertanto necessario costruirli, o meglio ricostruirli insieme, partendo da una comunità che non sia e non si senta piazza ma rete di rapporti interpersonali, che metta al primo posto il rispetto dell’altro, la difesa del più debole e la solidarietà tra persone.
La comunità è un luogo di rispetto in cui si costruisce l’uguaglianza, quella che attribuisce all’altro, a tutti, la stessa dignità e lo stesso valore.
La pandemia dovrebbe aver portato nelle nostre vite preoccupazione angoscia e dolore ma anche l’assoluta consapevolezza che la comunità, la società non può essere solo compresenza, ma relazioni interpersonali su cui costruire priorità, doveri e diritti di tutti.
È dalla valorizzazione di questo tipo di società che nasce la costruzione della responsabilità che ancor più oggi è nelle mani di ciascuno per il bene di tutti.
Fausta Tinari
Componente esecutivo nazionale Mcl