Il lavoro prima di tutto: ma fatti e non parole
La scelta di aver incentrato il nostro ultimo Congresso sul tema “Il lavoro primo fattore di ripresa” nasceva dall’amara constatazione che tale asserzione, che pure è stata al cuore della grande crescita economica e sociale del XX Secolo, oggi non è più scontata: il lavoro non è più al centro delle politiche economiche. Anche il recente dibattito sulle riforme lo conferma. Assistiamo da tempo al presentarsi di teorizzazioni e scelte che hanno relegato in secondo piano il problema dell’occupazione. La realtà attuale della condizione economica ed occupazionale, particolarmente in Italia, lo dimostra.
Mentre la società italiana si trasformava e la politica, fra molti affanni, cercava, senza riuscirci granché, di cambiare anch’essa, le nostre culture politiche non sono state in grado di favorire una risposta credibile e duratura, non già e solamente agli interrogativi sul senso dei cambiamenti del Paese bensì, in particolare, alle domande e alle necessità intorno al senso del comune quotidiano vivere. Domande che sono aumentate man mano che si faceva più indistinto e nebuloso l’orizzonte su cui programmare, con ragionevole certezza, il domani nostro, dei nostri giovani, dell’intera società. E fra le domande che sempre erano, e sono, prioritarie c’era, e c’è, “il lavoro”.
Al Congresso abbiamo fatto analisi, ragionamenti, proposte: alcune si stanno verificando, per altre aspettiamo (ormai da troppi mesi) il tanto pubblicizzato Jobs act.
Al recente Seminario di Senigallia abbiamo parlato di “Sviluppo fondato sul lavoro e rappresentanza”. Altro tema che può sembrare secondario, ma che io ritengo, invece, primario e strategico per uno sviluppo futuro fondato sul lavoro: il tema della rappresentanza. Tema strategico soprattutto dopo il dibattito nel Paese degli ultimi mesi.
E su questi temi, però, vorrei auspicare l’immagine del cantiere aperto che ritengo la più opportuna: aperto, che nessuno deve chiudere però. E che questa immagine venga impiegata in senso costruttivo per dare l’idea di un complesso processo di modernizzazione del mercato del lavoro, che ha già un riferimento certo nella cosiddetta Legge Biagi e non in slogan pensati per finire sulle prime pagine dei giornali, come è sembrato dai tanti annunci dei mesi scorsi.
Mi soffermo sulla politica: perché è la politica che fa, o non fa, le scelte che influenzano anche il lavoro.
Esiste un evidente scollamento fra politica e cittadini (lo diciamo da tempo): è un problema che non riguarda soltanto l’Italia, ma che non è possibile sottovalutare anche nel nostro Paese. I cittadini chiedono alla politica efficacia ma anche rappresentanza: proporre un’architettura in cui il Senato sia appannaggio dei rappresentanti delle Regioni senza che i senatori siano eletti direttamente dai cittadini, in combinazione con una legge elettorale senza preferenze, siamo sicuri che garantisca maggiore efficienza e/o maggiore rappresentanza, soprattutto in presenza di partiti deboli, se non addirittura inesistenti?
Abbiamo adesso il “mito” della governabilità: benissimo, anche noi vogliamo governabilità! Ma perché non dire apertamente che questa presunta governabilità, così come la presentano, impone costi ingenti in termini di rappresentanza? Siamo disposti a pagarli questi prezzi?
Non ci scandalizziamo affatto per la determinazione che il governo mette nel voler riformare il Senato né per il chiaro legame che ha dato fra questo percorso, come vera merce di scambio, e quello della legge elettorale ma, al momento, l’impressione è che si stia procedendo verso un compromesso fra oligarchie in cui è ben evidente la tutela degli interessi di queste, ma molto meno una difesa di maggiore rappresentanza e/o partecipazione dei cittadini. E trascurando altri problemi veri che ai cittadini interessano: in primis, ripeto, il lavoro.
In questa fase così difficile per il Paese abbiamo bisogno della massima coesione sociale per affrontare i tanti temi irrisolti che frenano la ripresa; chiudere la porta al dialogo non conviene a nessuno perché si tratterebbe di una competizione senza vincitori né vinti: non possiamo prestarci al gioco “di tutti contro tutti”. Spesso si ha la sensazione che i corpi intermedi siano ritenuti un intralcio “al rinnovamento forsennato” che a parole si dice di voler portare avanti, invece di dialogare almeno con la parte più responsabile del sindacato (Cisl in primis) e non fare “di ogni erba un fascio”. Non inquiniamo, per esempio, il dibattito su una indispensabile riforma del mercato del lavoro con la vicenda dell’art. 18, che è ormai solo un totem ideologico. E’ il simbolo di un’Italia rancorosa e invidiosa che cerca l’antagonista per alimentare scontri continui: mettere i padri contro i figli, i lavoratori tutelati contro i giovani non tutelati, ecc.
Per assumere i giovani dobbiamo soprattutto favorire gli investimenti e, per questo, occorrono infrastrutture efficienti, rapidità della giustizia civile, una pubblica amministrazione efficiente e, soprattutto, tasse più basse.
Questo il Governo deve fare: Renzi eviti di ricercare ogni occasione di scontro con il sindacato (almeno, ripeto, non con quello disponibile al dialogo), per “opportunismo politico” che niente ha a che vedere con gli interessi dei giovani.
Le sfide del cambiamento impongono semmai di affrontare con decisione il tema della democrazia economica ovvero della partecipazione ai processi decisionali della società: e per questo sono necessari, anche, corpi intermedi forti, vitali e riformisti.
Un ambizioso processo di riforme dovrà necessariamente scontare ritardi, contraddizioni, battute d’arresto, mediazioni. Per mantenere la rotta saranno necessarie quelle stelle polari rappresentate dai valori di riferimento. Mi riferisco in particolare a quei valori della persona, della famiglia e della comunità che negli anni scorsi sono stati sottovalutati, se non addirittura negati.
Ed è proprio in questa lunga, complessa, difficile transizione verso la cosiddetta “seconda modernità” che essi appaiono straordinariamente attuali e, quindi, utili ad orientare l’azione dei “decisori” (ovunque e chiunque essi siano), spesso smarriti di fronte ai problemi ed alle novità. “Decisori” che devono essere riformisti con i fatti (e non solo a parole) e disponibili a trovare un’intesa forte ed ampia con le forze che hanno a cuore il “bene del Paese”: il vero riformista non può essere “un uomo solo al comando”.
Oggi questi valori possono essere rivalutati da una larga parte della società italiana attraverso percorsi tanto della fede quanto della ragione: noi faremo, ancora, la nostra parte con impegno e passione.
Carlo Costalli