Il 4 marzo del 2018 sarà ricordato come il primo giorno della Terza Repubblica. Ecco i fatti che lo dimostrano: il contemporaneo affermarsi di due partiti a forte connotazione populista come il M5S e la Lega, il consolidarsi di un tripolarismo che registra il crollo del Pd e il suo arrocco nelle Regioni rosse, la drammatica spaccatura politico-geografica del Paese con un Centro Nord a trazione leghista e un Sud egemonizzato dai pentastellati, la vittoria elettorale segnata dalle insicurezze e dalle paure (al Nord legate alle ondate migratorie incontrollate e al Sud causate dalla mancanza di reddito, lavoro e futuro), l’indietreggiamento delle forze che si richiamano alla tradizione del popolarismo europeo (Forza Italia e Udc), l’assoluta irrilevanza del voto cattolico. E per finire: l’oggettiva difficoltà di garantire un governo al Paese.
In attesa di un nuovo governo che giudicheremo senza preconcetti, ma anche senza sconti, ora ci soffermiamo su due questioni fondamentali: la crisi del popolarismo italiano e l’eclissi del voto cattolico.
Sul primo punto va detto che l’ancoraggio di Forza Italia e Udc al Partito popolare europeo è al tempo stesso una garanzia e una condanna. Una garanzia sotto il profilo della scelta di campo occidentale, della collocazione in Europa, della fedeltà ai valori di libertà e democrazia, dell’opzione virtuosa del libero mercato, della tutela dei ceti deboli attraverso un Welfare giusto. Una condanna perché la globalizzazione senza etica ha messo in discussione tutti gli equilibri (anche quelli istituzionali) e soprattutto ha creato deserti sterminati di povertà (entro il cui orizzonte va inserito anche il fenomeno drammatico delle migrazioni) e di ingiustizia sociale. Purtroppo il popolarismo italiano, nelle sue diverse componenti, non ha saputo svolgere il suo ruolo di seminatore di speranze per tutti i nuovi esclusi. E se fra questi ci sono le popolazioni di intere regioni del Sud e masse di giovani senza lavoro e prospettiva, è difficile sottrarsi alla bocciatura delle urne. Solo contenuta, nel caso del centro-destra, dall’avanzamento della Lega con le sue parole d’ordine ispirate a una dottrina securitaria e a una forte critica all’Europa. Dunque, se non ci si vuole rassegnare a un destino di irrilevanza, come soci minoritari di una coalizione di destra-centro, occorre rifondare il popolarismo italiano sin dalle sue radici.
E a proposito di radici, veniamo al voto cattolico. Il 4 marzo ha sancito il definitivo abbandono da parte dei pochi credenti rimasti in Italia (si calcola che i praticanti non superino il 18% di una popolazione drammaticamente invecchiata) dei suoi ancoraggi storici. Di sicuro, oggi l’opzione politica dei credenti è spalmata, in misura diversa, sull’intero arco costituzionale: da sinistra a destra passando per quel che resta del centro. Ma soprattutto questa difficilissima campagna elettorale ha dimostrato che i valori cristiani (dalla vita alla famiglia, dal lavoro degno alla libertà di educazione, dalla difesa dei corpi intermedi all’opzione per un’Europa dei popoli con radici cristiane) sono stati espulsi dal mercato politico. Le parole d’ordine (soprattutto se urlate) sono altre e vengono da forze politiche che ritengono di inglobare, senza colpo ferire, il sostegno dei credenti. Quasi per un moto irreversibile della storia e a prescindere da prassi e contenuti politici.
Questo è il punto di arrivo del relativismo morale applicato alla politica: ciascun credente, rimasto solo anche dinanzi al voto, esercita un personalissimo accomodamento dei propri valori con il partito che sceglie al momento. Dal che si trae la sensazione che ogni scelta politica sia del tutto compatibile con i valori cristiani. Ma è davvero così? Noi sinceramente dubitiamo, pur avendo preso atto della circostanza che oggi è impossibile costruire una proposta politica sulla base dei valori cristiani. Il che non vuol dire che essi siano definitivamente fuori gioco, ma che saranno sempre più relegati nella dimensione della religiosità privata e che faranno sempre più fatica a costituire un solido riferimento sul piano della vita pubblica. A dimostrazione di tutto questo vi è la pressoché totale scomparsa, dal Parlamento italiano, di esponenti provenienti direttamente dal cattolicesimo politico. Da qui anche la sensazione che i valori cristiani, e con essi la stessa Dottrina sociale della Chiesa, rischino di non avere diritto di tribuna nelle aule parlamentari. In molti, anche nel mondo cattolico, si rallegreranno di questa regressione in nome della laicità dello Stato. Noi sinceramente non possiamo condividere questa scelta che profuma di diserzione dalle nostre responsabilità.
Piuttosto, per i settori del mondo cattolico non impaurito e non ripiegato, urge un momento di riflessione e un sereno esame di coscienza. Certamente la storia sociale e culturale del Paese riserverà nuovi snodi delicati, ma i cattolici saranno pronti ad essere protagonisti? Dare per scontato che questo accada automaticamente, allo stato delle cose, è una forma di pericoloso infantilismo della ragione. Peraltro, un solido e realistico processo di riaggregazione richiede la presenza di generosi federatori e di coraggiose guide spirituali.
Che la crisi del popolarismo italiano sia dunque il riflesso diretto della crisi del cattolicesimo politico italiano è un sospetto tutt’altro che infondato. Fortuna vuole, però, che in questo contesto difficilissimo, il cattolicesimo sociale italiano sia ancora in discreta salute. Farne il perno e uno dei soggetti per la rifondazione del popolarismo italiano è una prospettiva di lavoro intrigante e impegnativa. Da subito, però, bisogna attrezzarsi contro gli assalti degli statalisti di turno per salvaguardare la nostra creatività sociale. Resilienza amici, resilienza...
Domenico Delle Foglie