I devastanti effetti sul piano sanitario della pandemia in atto e le crescenti preoccupazioni per il fermo di tante attività economiche hanno determinato un acceso dibattito circa le risorse con le quali dare risposte alle urgenti necessità: dall’implementazione delle strutture sanitarie ai provvedimenti di tutela sociale e di sostegno alle attività produttive, fino ai necessari interventi nelle zone più nascoste e, forse ancor più drammatiche, del disagio e della emarginazione.
Il ridotto orizzonte della solidarietà europea evidenzia i suoi limiti, con la conseguenza che non si riesce a trovare, al tavolo di Bruxelles, disponibilità per accordi che affrontino, con ragionevole mutualità, una emergenza inaspettata e aggressiva. La preoccupante prospettiva è quella che ognuno dovrà fare da sé. Il Governo sta procedendo con preoccupante gradualità, prigioniero anche della ristrettezza dei margini di indebitamento, sul quale la speculazione internazionale ha mostrato nelle scorse settimane gli artigli della spregiudicatezza e libertà di azione. I previsti interventi della BCE dovrebbero, almeno sotto quest’ultimo aspetto, produrre benefici effetti, così come avvenne con le decisioni dell’allora presidente Mario Draghi al tempo della recessione nata nel 2008.
E’ scattata, a conforto della preoccupata sensazione di diffuso egoismo, la solidarietà di singoli Paesi, il cui valore reale e, soprattutto, simbolico, si contrappone ad una certa aridità della burocrazia europea. Eppure l’Europa deve restare nel nostro orizzonte politico, seppur con l’idea e le proposte per “farla”, come il Mcl suggerì, al tempo delle elezioni per il rinnovo del Parlamento.
Anche al suo interno l’Italia mostra ancora una volta la generosa partecipazione di tanti che, a seconda delle disponibilità, partecipano alla raccolta di fondi per finanziare interventi che riescono, in pochi giorni ad edificare nuove strutture sanitarie provvisorie, ma efficienti.
In questo quadro di luci ed ombre non appare sufficientemente considerata la immensa risorsa del terzo settore, quel capitale sociale della solidarietà, cioè, che comprende sei milioni di volontari e quasi diecimila dipendenti che nel suo impegno sussidiario, a favore dei più deboli, incide per un non trascurabile apporto al prodotto interno lordo. Si tratta di una realtà ampia e capillare, fatta di volontariato, associazionismo, presenza nei territori, conoscenza del bisogno. Essa rappresenta una leva importante per avvicinare le emarginazioni più difficili da individuare che sfuggono alle statistiche ed ai sistemi previdenziali ritagliati, in gran parte, sul ciclo occupazionale o su dati anagrafici o di reddito. Già in questi giorni in migliaia hanno risposto all’appello di solidarietà per affiancare le meritorie azioni degli operatori ospedalieri.
Tuttavia il prolungarsi del fermo delle imprese economiche già espone i settori più fragili al collasso, comprese alcune attività svolte in nero, che lasciano lavoratori senza alcun sostegno, anche previsto, come la cassa integrazione speciale.
Di fronte ai primi episodi di disperazione avvenuti in Puglia ed in Sicilia, il governo è intervenuto con immediatezza, ma con risorse limitate, per la gran parte considerate nel bilancio ordinario, e procedure che hanno destato non poche perplessità. Una inadeguatezza di intervento rischierebbe di provocare, infatti, aspettative eccedenti le possibilità e forme di contrapposizione sociale.
Anche il coinvolgimento dell’associazionismo a cui i comuni potrebbero far ricorso per la distribuzione dei buoni spesa, rappresenta, un apporto limitato rispetto alle potenzialità complessive di impegno sociale del terzo settore. Questo timido approccio alle sue possibilità operative deriva, probabilmente, da chi nel Governo esprime soprattutto una aggregazione di sentimenti individuali, cresciuti sulla rete senza un legame con la storia delle comunità locali, portatore di una cultura neostatalista opposta al principio di sussidiarietà.
Non si comprende infatti l’importanza di associazioni che operano nell’assistenza sanitaria, di articolazioni diffuse del sevizio civile, dei servizi di patronato, quegli sportelli sociali aperti verso il bisogno che costituiscono delle “milizie sociali” che posseggono esperienza e capacità di comunicazione, una connettività che integra le istituzioni sia centrali che locali, laddove il rapporto con gli uffici assistenziali e previdenziali resterebbe lontano e difficile. Una risorsa che cura il rancore e dà speranza e sulla quale nessuno può mettere le mani sopra.
Ogni anno decine ed anche centinaia di migliaia di cittadini e di famiglie hanno modo di utilizzare questa socialità di vicinato, spesso con continuità di rapporto alla quale chiedere un sostegno che, altrimenti, sarebbe difficile da ottenere.
E’ questa una sollecitazione al governo ed agli enti locali, una critica positiva sui limiti con i quali si sta pensando ad utilizzare questa risorsa. Nel dibattito che pone come obbiettivo la questione dell’aspetto finanziario riteniamo debba anche entrare la questione dell’apporto sociale. In prospettiva anche per quella proiezione civica che, dopo il necessario, ma socialmente rischioso, isolamento, dovrà essere il filo del riammaglio comunitario, preparandoci ad un futuro più radicato e con il superamento di un presentismo che si è mostrato labile.
Un direttore di quotidiani, ma anche animatore di strutture di Volontariato e da pochi giorni impegnato su una rubrica di TV 2000, Ferruccio de Bortoli, in un libro (“La ragione e il buon senso”) nel quale dialoga con Salvatore Rossi, ex direttore della Banca d’Italia, così scriveva all’inizio di gennaio: “L’immenso capitale sociale del volontariato, della solidarietà diffusa, nelle tante comunità locali, racchiude qualità civiche straordinarie. Si tratta solo di ‘valorizzarle’. Non è facile. Ma è colpevole non provarci. Ci sono, in quella galassia di buoni sentimenti e volontà, tanti possibili leader nazionali. Facciamoli emergere. Sono giovani. Quelli che ci mancano. Quelli che poi se ne vanno”.
Pietro Giubilo