Dal carattere vincolante delle DAT al consenso informato, dall'obiezione di coscienza all'interruzione della nutrizione e dell'idratazione, sono tante le questioni inquietanti presenti nella legge sul "fine vita" approvata dalla Camera dei Deputati e in attesa di essere discussa al Senato. Il testo licenziato dalla Camera disegna un biotestamento fortemente marcato da un'ideologia in cui l'individuo, quella fantomatica e astratta figura su cui si vorrebbe fondare tutta la nostra società, è il solo protagonista. Non a caso la parola più usata nel dibattito politico sul "fine vita" è "autodeterminazione", il principio cardine di questa legge. Io autonomamente determino il mio destino biologico: cosa può esserci di più libero, di più corretto, di più rispettoso? E la libertà senza più vincoli, la correttezza e il rispetto non sono forse dei principi fondamentali del nostro vivere comune? Eppure questo principio di autodeterminazione, con tutto il suo fascino e il suo potere evocativo, è più una grande truffa che una grande conquista. Facendo fuori il rapporto fondamentale tra il paziente, i medici e gli affetti più cari, si lascia la persona sola di fronte al male, al dolore, alla malattia, nel frangente della vita in cui avrebbe più bisogno di qualcuno di significativo con cui confrontarsi e affrontare le circostanze più drammatiche.
Il carattere vincolante delle DAT, seppure con qualche importante eccezione, rescinde il legame profondo tra i medici e i pazienti, trasformando i medici in notai che devono eseguire disposizioni già prese. Non si tratta soltanto del declassamento della professione (vocazione) medica, ma soprattutto di ridurre la dimensione della cura all'erogazione di una prestazione: il trionfo dell'utilitarismo. E proprio partendo dalla mentalità utilitaristica che pervade la nostra società e, in fondo, ciascuno di noi che possiamo vedere il vero pericolo che si nasconde dietro il testo approvato dalla Camera, ossia la possibilità di introdurre subdolamente nel nostro ordinamento una sorta di suicidio assistito o di eutanasia passiva, visto il combinato tra il carattere vincolante delle DAT e la possibilità di chiedere la sospensione dell'idratazione e della nutrizione. Possiamo usare tutte le locuzioni che vogliamo, possiamo cercare di abbellire i termini, possiamo stracciarci le vesti spergiurando che da nessuna parte si fa riferimento al suicidio assistito o all'eutanasia, ma alla fine si tratta sempre di lasciare morire qualcuno di fame e di sete.
È doloroso e inquietante vedere come vengono trattati temi delicati come quello del "fine vita", l'arroganza e la mancanza di pudore con cui si interviene nelle tragedie più grandi, eppure non dovremmo stupirci, ma dovremmo chiederci: se si tratta in questo modo la fine della vita e in modo non tanto dissimile il suo inizio, è ragionevole pensare che ciò che sta in mezzo tra la nascita e la morte debba essere trattato in modo differente? L'utilitarismo con cui si guardano l'inizio e la fine della vita è lo stesso con cui si guarda tutta la vita: scartare i bambini se non sono desiderati o se non sono perfetti; cercare di eliminare le zavorre della società come i malati o gli anziani; ridurre il lavoro a sfruttamento; violare i diritti delle persone; accanirsi contro le famiglie e potremmo proseguire all'infinito. Dovremmo cominciare a liberarci dall'equivoco di credere che i valori sociali non abbiamo nulla in comune, anzi che siano in conflitto, con i valori etici. Dovremmo, piuttosto, renderci conto che non possono esistere se non insieme, che il dualismo tra libertà e solidarietà è solamente una sciocchezza di noi moderni.
Non si tratta, quindi, di semplici problemi di qualche bigotto, solitamente cattolico, che inneggia ai valori, ma di questioni che dovrebbero riguardare chiunque abbia a cuore il bene comune. Oltre alla questione delle DAT e dell'interruzione della nutrizione dell'idratazione, c'è pure la questione dell'obiezione di coscienza del personale e delle strutture sanitarie. Anche qui si potrebbe derubricare la cosa ad un problema del bigotto, solitamente cattolico, di cui sopra, eppure si tratta, ancora, di una questione fondamentale per il nostro vivere comune. È possibile in uno Stato che si definisce democratico e rispettoso di tutte le convenzioni internazionali obbligare qualcuno ad agire contro la propria coscienza? In uno Stato democratico può esistere una volontà generale più forte della coscienza personale? Aveva ragione Rousseau? Anche se c'è qualcuno che si gingilla con piattaforme che portano il suo nome, non si dovrebbe credere al "flatus vocis" della volontà generale che è un modo, ormai neppure più troppo elegante, di nascondere l'arbitrio del potere.
Con tutto questo in ballo occorre ribadire un no fermo all'eutanasia, alla possibilità di introdurre forme subdole di suicidio assistito ed allo stesso modo occorre rimettere in gioco il rapporto tra il paziente, i suoi affetti più cari e i medici, occorre ristabilire il principio di obiezione di coscienza e, più in generale, è necessario far sentire i malati come accolti e abbracciati nella loro malattia, non farli sentire come pezzi rotti da aggiustare o da scartare. C'è ancora tempo per modificare il testo, c'è ancora tempo per quanti hanno a cuore il bene comune. Speriamo ci sia pure la volontà.
Giovanni Gut