L’emendamento del governo al disegno di legge di riforma del lavoro prevede alcune importanti novità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio; la revisione della disciplina delle mansioni (compresi i demansionamenti); l’introduzione di un salario minimo per i collaboratori e per i lavoratori che non sono coperti da un contratto collettivo; la possibilità dei controlli a distanza; l’estensione dei voucher per i lavori accessori e occasionali; la riorganizzazione dell’attività ispettiva in una Agenzia Unica. Inutile però nascondere come il nodo cruciale, ancora una volta, riguardi l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, ovverosia l’obbligatorietà del reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti. In realtà, posto che il destino dell’art. 18 sarà deciso nei prossimi mesi attraverso i decreti, la proposta di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti di fatto supera il reintegro obbligatorio a favore di un indennizzo economico proporzionale agli anni di servizio. Intorno a questo emendamento e alla questione dell’art. 18 c’è un dibattito acceso, a tratti ideologico, che tende a trascurare, però, alcune delle questioni più urgenti del lavoro e soprattutto delle persone nel lavoro. L’art. 18 è sicuramente importante, ma in un Paese che ha 2milioni e 200mila giovani che non lavorano, che non stanno cercando lavoro e che non studiano (i NEET), le priorità dovrebbero essere altre. La questione fondamentale è come aiutare le tantissime persone a rischio di esclusione, un’esclusione sociale ancor prima che lavorativa, che non è certo limitata ai drammatici numeri dei NEET, ma che va estesa agli adulti che non hanno o perdono il lavoro con tutte le difficoltà di reinserimento lavorativo che portano con sé, oppure alle tante situazioni fragilità. In particolare c’è l’esclusione che riguarda le donne e le giovani madri, costrette a scegliere tra la famiglia e il lavoro.
A ben vedere si tratta delle solite situazioni problematiche che nonostante le tante riforme del diritto del lavoro, rimangono sostanzialmente senza risposta. Forse una lezione che dovremmo trarre è quella che il lavoro non si crea attraverso i decreti. è questa una banalità a parole riconosciuta da tutti, ma poi clamorosamente smentita dai fatti. Per creare lavoro servono certamente le buone riforme del lavoro, ma senza un contesto e delle persone capaci di accettare la sfida del lavoro le riforme rimangono lettera morta. Per creare un contesto favorevole al lavoro occorrerebbe far leva su questioni che non posso essere più rimandate come le tasse che gravano sul lavoro e sull’impresa, la burocratizzazione del lavoro e dell’impresa (che ha dei costi altissimi sia per la comunità che per le imprese), le pensioni e un nuovo sistema di welfare. Si tratta di questioni che proprio perché complesse dovrebbero essere il vero centro del dibattito sul lavoro. Senza intervenire sui costi del lavoro e sui servizi alle imprese nessun imprenditore, indipendentemente dagli incentivi legislativi e talvolta economici, avrà mai il coraggio di investire sulle persone né di prendere impegni che non siano a breve termine; senza un ripensamento del sistema previdenziale ed ancor di più del sistema di welfare si perpetuerà l’esclusione. Allo stesso tempo senza un investimento nella ricerca e nella formazione, in un nuovo paradigma tra la scuola e il lavoro non c’è futuro. In quest’ottica appare preoccupante il destino dell’apprendistato, una tipologia contrattuale le cui potenzialità per la crescita umana e professionale dei giovani non sono state affatto sfruttate. Di fronte al rischio del naufragio della Garanzia Giovani e di ritrovarsi di fronte all’ennesima occasione (e soldi) perduta, il dibattito sull’art.18 appare surreale.
Sarebbe opportuno concentrarsi su quanto il nostro Paese ha veramente bisogno e lasciare spazio a visioni di lungo periodo capaci di coinvolgere tutte le forze attive e propositive delle quali la nostra comunità è ricca. Non è possibile trascurare, o ancor peggio mortificare, il ruolo che spetta al terzo settore, alla società civile, alle associazioni che vivono e lavorano tra la gente. Perché per riattivare un virtuoso ciclo economico prima delle buone (ottime) riforme, prima di contesto sociale ed economico favorevole, occorrono persone cariche di una virtù che si chiama speranza. Sembra sempre un discorso astratto e che non deve affatto riguardare il legislatore, eppure se nonostante gli impietosi dati economici e occupazionali il nostro Paese riesce ad andare avanti un motivo deve esserci. E forse non è l’art.18.
Giovanni Gut