Il 4 marzo (poco più di 180 giorni fa) è accaduto qualcosa che ha lo stigma della “rottura” piuttosto che della “continuità”. Da quel momento è applicabile, alla vita pubblica del nostro Paese, il filtro dell’ermeneutica della rottura. Ovvero, un’interpretazione che privilegia la cesura irreversibile con il passato. Un mix di parole dure, gesti ultimativi, narrazioni forzose e forzate, scelte assertive, posture personali aggressive, slogan intimidatori, conflitti ricercati, paure alimentate ad arte. E ci fermiamo qui per non farla lunga.
E’ indiscutibile che il 4 marzo non è avvenuto solo un cambio di campo politico di cui è espressione il governo gialloverde, nato sulla scommessa di un contratto fra due partiti-movimenti uniti dalla critica impietosa all’Europa, ma divisi quasi su tutto. E in particolare sulle ricette per far riprendere all’Italia la via dello sviluppo, interrotto dalla recessione ultradecennale che ha impoverito larghi strati popolari. Dinanzi allo sfondamento dei 5Stelle e all’ascesa costante nei sondaggi della Lega di Salvini, a poco valgono le parole moderate e le opposizioni costituzionali. E’ tutto un rutilare di parole e gesti volti a scavare un fossato con un passato da prendere a sberle.
La condanna in blocco del passato (recente e/o remoto conta poco) è un tratto caratteristico dell’ermeneutica della rottura, ovvero dell’interpretazione del reale basata sul “nuovismo” destinato a occupare la scena pubblica. Prima comunicativa e poi sociale, culturale, politica e dunque istituzionale. Il tutto sorretto da una narrazione costruita per assecondare questi processi e che ha avuto un tempo di gestazione (la lunga predominanza della sinistra in alternativa al Berlusconismo); uno strumento forte di comunicazione e propaganda (i social network); una condanna da esibire (il malgoverno e la corruzione); un mito da alimentare (“democrazia diretta” e/o “prima gli italiani”); un nemico da colpire (i moderati di tutti i colori). E ancora: paure diffuse (povertà estesa, mancanza di lavoro e di sicurezza personale, immigrazione senza controllo); complotti ai danni dei cittadini da svelare (l’Europa dei burocrati, i poteri forti senza volto e nome); moralismo da brandire come arma contro tutto e tutti (neo-giacobinismo); cambiamento di alleanze nel quadro internazionale (dall’Occidente verso l’Est europeo). Il tutto spesso miscelato, a seconda del momento, nel frullatore mediatico e politico.
Che questa nostra stagione sia dunque segnata dalla “rottura” non vi è alcun dubbio. In questo contesto di rabbia e rancore verso il passato, chiunque sottolinei la necessità di valutare con maggiore ponderatezza il valore della continuità viene additato all’opinione pubblica come un conservatore, o peggio, un sabotatore del mondo nuovo che promette meraviglie (meno tasse per tutti, reddito di cittadinanza, lavoro in quantità, educazione performante). E magari anche la felicità…
Peccato, però, che guardandosi attorno, ancora non si vedano neppure i segnali più timidi della nuova Terra promessa. Il che la dice lunga sulla realtà, sulla sua rappresentazione, sulla sua narrazione e sulla sua percezione. E poiché l’Italia è un Paese dominato dalla percezione a dispetto della nuda realtà, corriamo un grosso rischio: di attardarci ulteriormente nell’incanto delle sirene nuoviste che hanno abbracciato l’ermeneutica della rottura, senza portare in dote al dibattito pubblico seri e motivati elementi di valutazione del reale.
A cominciare da una inesorabile e lucida presa d’atto della condizione di degrado del nostro Sud, della fatica dei nostri giovani, della povertà della nostra scuola, dei nostri gravissimi ritardi infrastrutturali, dei nostri insopportabili divari territoriali, delle nostre crescenti distanze sociali, del nostro progressivo indebolimento culturale, della nostra insopportabile immaturità politica che ci spinge ai margini dell'Europa e dell’Occidente.
Ce ne sarebbe abbastanza per cominciare a denunciare e osteggiare l’ermeneutica della rottura che imperversa dappertutto, promettendo sogni pressoché irrealizzabili. Un amico pensoso di recente citava, per esemplificare un tempo di “rottura”, Martin Lutero e la sua Riforma. E ricordava la divulgazione delle 95 tesi (1517) e poi la pubblicazione della Bibbia in tedesco (1534). Entrambi passaggi fondamentali della Riforma protestante. All’amico pensoso vorrei rammentare che alla Riforma seguì, dopo pochi anni, il Concilio di Trento (1545-1563). E cioè la Controriforma…
Tutto questo ci dà buoni motivi per sperare che non moriremo né sovranisti né populisti. Sempre che l’Occidente, malato di autolesionismo infantile, si decida finalmente a mettere in campo tutte le sue migliori risorse intellettuali e morali per preservare la continuità virtuosa. Non si arrenda a fare da spettatore e complice delle altrui “rotture” e riprenda il proprio cammino riformatore, democratico e liberale. Nel segno dei diritti da salvaguardare, ma soprattutto dei doveri da esercitare.
Domenico Delle Foglie