Il Covid 19 è una epidemia globale ed il suo impatto è destinato ad influire sui rapporti internazionali. Il virus che si è formato in Cina riversandosi poi in Occidente ed in altre aree, è sopraggiunto mentre era in atto una evoluzione dei rapporti tra Washington e Pechino.
Lo spartito sul quale si erano registrati, da Nixon fino al nuovo secolo, era stato quello delle convenienze economiche. La Cina era considerata una nazione povera che si affacciava allo sviluppo e con la quale era possibile stabilire rapporti commerciali, reciprocamente convenienti, regolati dagli accordi del WTO. L’unica vera preoccupazione di allora, in America e in Occidente, era la grave condizione dei diritti civili che, tuttavia non avevano impedito a Clinton, nel 2001, di aprire le porte del commercio mondiale a Pechino. Erano passati solo dodici anni dai giorni della strage di Tienanmen. L’idea sottostante, rivelatasi utopistica, era che lo sviluppo, favorendo la nascita di un ceto medio, avrebbe portato la Cina sulla via della democrazia. Nel frattempo, come ha spiegato Federico Rampini nel suo ultimo libro, tra la “fabbrica del mondo” e il “mercato di sbocco”, vi era complementarietà.
Tuttavia, la salita al potere di Xi Jinping nel 2012 cambia auspici e previsioni. Con il nuovo leader, se possibile, il regime si fa ancora più autoritario ed espansivo. Nel giro di pochi mesi assume le tre cariche decisive, Segretario generale del Partito comunista, capo della Commissione militare centrale e, dal marzo del 2013, Presidente della Repubblica popolare. Nell’anno stesso del suo insediamento annuncia la nuova “Via della Seta” che denomina “cintura e strada” (“Belt and Road”) che, dopo quattro anni, iscriverà nella stessa Costituzione.
Xi, come spiega un conoscitore della politica cinese, “è il primo presidente dai tempi di Mao che teorizza apertamente la superiorità del suo modello autoritario rispetto alle nostre liberal-democrazie”. E le “arterie delle Nuove Vie della Seta” si diramano attraverso gli spazi offerti dalla globalizzazione, della quale diviene il vero sostenitore, con il suo discorso a Davos nel 2017 contro il protezionismo (“è come chiudersi in una stanza buia”). Nel frattempo si sviluppa e si espande all’estero il settore delle tecnologie informatiche: Huawei - e non solo - non conosce frontiere, opera in 170 Paesi, ha 188.000 dipendenti, in dieci anni il suo fatturato cresce da 18 miliardi di dollari a 107. Giunge perfino a tentare di sbarcare negli Stati Uniti. Il Wall Street Journal, nel maggio del 2019, gli dedica una inchiesta dal titolo eloquente: “Campione o ladro seriale?”.
Lo scenario è mutato e a fronte di ciò cambia anche l’atteggiamento degli Stati Uniti. Alla concorrenza tra due capitalismi sul libero mercato mondiale, si sostituisce lo scontro tra due politiche capitaliste. La sfida da commerciale è diventata tecnologica nell’ambito del digitale, che implica aspetti decisamente politici. E appare come discriminante un elemento fondamentale per la politica americana: la sicurezza. Le parole di Mike Pompeo su la Stampa a ottobre del 2019, sintetizzano il problema: “Ogni informazione che viaggia nelle loro reti è a rischio. La rete è controllata dal Partito comunista cinese”. Del resto gli accordi sul digitale che Pechino riesce a ottenere negli altri Paesi, con l’utilizzo dei dati, incrementano il perfezionamento della Cina sull’intelligenza artificiale.
Questo contesto - che, ripetiamo, ha per tema di fondo la sicurezza - spiega anche il recente annuncio di Trump, diretto non solo ai governanti di Pechino, di avere le prove che il virus “arrivi dal laboratorio cinese”.
L’idea che questo atteggiamento del Presidente Usa sia motivato dall’imminenza dell’appuntamento di novembre e lo spauracchio cinese sia agitato per una mobilitazione elettorale, non considera il contesto complessivo. Lo scontro con la Cina è, dunque, una “nuova guerra fredda”, per certi aspetti ancora più cruenta, in quanto i rischi per la sicurezza appaiono più insidiosi e meno controllabili, rispetto all’equilibrio nucleare tra Russia e America.
E l’Italia? C’è da premettere che il tema della “sicurezza” evocato da Washington riguarda anche le cosiddette infrastrutture strategiche. Per fare solo qualche esempio: ne sa qualcosa Londra che l’11 settembre 2019 ha dovuto subire e respingere una Opa ostile sul London Stock Exchange da parte della società che possiede la Borsa di Hong Kong. O la Germania che ha compreso solo recentemente che il suo programma di sviluppo delle tecnologie strategiche subirà la spietata concorrenza del programma “Made in China 2025”, un Paese che, dopo aver “copiato” per anni la tecnologia altrui anche tedesca, diventerà del tutto autosufficiente, anche attraverso imponenti sostegni pubblici, vietati in Europa.
Proprio mentre nello scenario internazionale avveniva il cambiamento nei riguardi dell’aggressiva politica del “Belt and Road”, l’Italia, con il governo gialloverde, riceveva nel giorno dell’inizio della primavera dello scorso anno Xi Jiping, con un ossequio non scalfito da qualche gaffe dell’allora vice premier Di Maio. Il 23 marzo viene firmato un Memorandum of Understanding, con il quale il nostro Paese, unico del G7, entra formalmente nel progetto globale di Pechino della Nuova Via della Seta. Si tratta di un documento di principi, ma il tema prioritario è “lo sviluppo della connettività infrastrutturale” e il reciproco “interesse a sviluppare sinergie tra l’iniziativa Belt and Road, il sistema italiano di trasporti e infrastrutture e le Reti di Trasporto Trans-europee” e il riferimento già sottintende i porti di Genova e Trieste. Si avvia un ulteriore escalation dopo che People’s Bank of China, la Banca Centrale cinese, ha acquistato negli anni partecipazioni oltre che in istituti di credito, anche in Eni, Enel, Telecom Italia, e, soprattutto, tramite il colosso cinese dell’energia, col 35%, lo strategico ingresso in Cassa depositi e prestiti Reti S.p.A. che gestisce partecipazioni in Snam, Italgas e Terna. E, comunque, quand’anche il documento avesse un valore simbolico, come suggerisce Rampini “i simboli in politica estera contano” e “Xi incassa un successo d’immagine evidente: l’Italia è un trofeo, è il primo Paese occidentale di rilievo che aderisce ufficialmente al piano Bealt and Road”. Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, ha ricordato, nel suo ultimo libro, che l’ultima volta di Xi in Italia fu quando, in transito verso il Perù, incontrò Matteo Renzi il 16 novembre 2016 in Sardegna all’Hotel Fort Village di Santa Margherita di Pula ed è restata famosa la sua interlocuzione con il premier italiano: “mi domando: la democrazia è la soluzione migliore?”.
Oggi, nonostante la pandemia di cui l’Italia costituisce una delle principali vittime - di dubbia origine naturale o di laboratorio, ma di sicura provenienza cinese e di tardivo allarme delle autorità di Pechino - i sondaggi mostrano come la Cina, con il 52 % di preferenze sia considerato, dall’opinione pubblica, il Paese più amico dell’Italia. Non può essere l’effetto dei modesti aiuti, arrivati, del resto, anche da altri Paesi. La spiegazione si trova, ancora una volta, se si spinge lo sguardo a livello internazionale.
Sulla situazione e le responsabilità obbiettive della Cina, non vi è solo la presa di posizione di Washington. Anche Germania, Francia e Australia, ad esempio, hanno chiesto “chiarimenti”; c’è un documento - ne ha dato notizia il Daily Telegraph - dei servizi segreti di Australia, Usa, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada con il quale si evidenziano le azioni repressive di Pechino sulla eliminazione di prove e testimoni sull’origine della epidemia. L’Italia, rispetto alle diverse prese di posizioni, si è del tutto defilata e ciò, oltre che poco compatibile con uno spirito occidentale ed europeo, ha influito nel mantenere integra la immagine della Cina presso la nostra opinione pubblica. C’è da chiedersi: se dovesse concretizzarsi la richiesta di una commissione internazionale che indaghi sull’origine del contagio, alla quale stanno pensando Giappone, Australia e Canada, come si comporterebbe il nostro Paese?
In sintesi e per concludere: con il coronavirus emerge per l’Italia una decisiva questione di politica estera. Siamo stati abituati, sin dal precedente governo, ad assistere ad un dilettantismo della componente 5 Stelle dei quali ricordiamo le stoltezze sull’appoggio ai gilet gialli o le aperture a Maduro. Si è considerato con superficialità lo show del vero ispiratore del movimento, Peppe Grillo, nei suoi incontri con l’ambasciatore cinese e magari le apparizioni con la mascherina. Un mix di velleità e dilettantismo? Spettacolarizzazione mediatica? Non solo. Di Maio il cui incarico di Ministro degli Esteri, alla luce delle “distrazioni” che abbiamo ricordato, avrebbe dovuto essere visto con maggiore prudenza e consapevolezza, nella intervista al Corriere della Sera del 6 maggio non risponde alle domande su chi abbia ragione sulla “responsabilità cinese” nella possibile fuga del Covid 19 e la “scarsa trasparenza di Pechino sulla diffusione del virus”, ma conferma solo dichiarazioni da repertorio sui “valori euroatlantici”. Per la verità la nostra politica estera appare debole anche nel necessario allaccio con l’Europa.
Certo non ci sentiamo di rientrare nelle logiche geopolitiche di Edward Luttwak che denuncia con durezza come i cinesi “in Italia mandano aiuti e trovano qualche sciuscià che è disposto a pulir loro le scarpe”. Esempio anche storicamente abbastanza irriguardoso. Neppure, però, possiamo restare indifferenti all’allarme del Copasir che esamina un rapporto nel quale si consiglia di lasciar stare Huawei (ritorna la sicurezza?).
Il Covid 19 è un “incidente” nella storia della globalizzazione, ma non possiamo sfuggire dallo scenario che contribuisce ad aprire e che Carlo Pelanda così sintetizza: “nel futuro il mondo lo comanderanno le democrazie o la Cina”, aggiungendo, “come le prime si organizzeranno, armonizzando requisiti medici ed economici, sarà determinante”. “L’Italia”, conclude “è in gap di pensiero strategico e organizzativo su questo punto”. E’ facile rispondere quale debba essere il posto dell’Italia e dell’Europa. Ecco, dietro le apparenti fermezze, la vera fragilità di Giuseppe Conte.
Pietro Giubilo
Vicepresidente Fondazione Italiana Europa Popolare