L’unità nazionale non è solo una formula politica. Anzi, è ben altro. E’ un formidabile mosaico di socialità, cultura, antropologia e costume. E persino ideali e valori. Un mirabile impasto di corporeità, razionalità e spiritualità. Ma è anche il prodotto di una vita di relazione che va curata e arricchita come tutto il terreno prodigo di buoni frutti.
Fuor di metafora, non ci appassiona il dibattito appena evocato anche nelle sedi parlamentari, sulla necessità di un governo di unità nazionale. Non perché il Paese non abbia bisogno di una guida forte, lucida, coraggiosa e lungimirante, anzi… Ma perché un governo c’è già, sia pure nato in condizioni di necessità dopo l’improvvida crisi agostana. E oggi questo governo deve fronteggiare l’emergenza. Con il consenso dei suoi parlamentari, ma anche con la responsabile partecipazione e collaborazione delle forze oggi all’opposizione del governo, ma non del Paese e del popolo. Poi verrà, salvo sconquassi repentini negli attuali equilibri parlamentari, il tempo dei bilanci e delle assunzioni di responsabilità. E sinceramente ci auguriamo di non dover assistere a un tragicomico e squallido scaricabarile. Troppo seria è l’emergenza che stiamo affrontando per rese dei conti indegne di un Paese civile, di una Repubblica nata libera dal secondo Dopoguerra, di una Nazione ispiratrice e fondatrice dell’Europa dei popoli.
Perciò ci sta a cuore riflettere sull’unità nazionale, proprio perché siamo consapevoli delle nostre peculiarità popolari. L’Italia, infatti, è il regno del pluralismo identitario che si spinge sino a lambire il settarismo. Ma, come per una virtù acquisita nei secoli bui, riesce a fermarsi sempre a un millimetro dal baratro. A non fare il passo decisivo per sancire, ad esempio, la divisione territoriale fra Nord e Sud (ribattezzata secessione). A seminare discredito sull’avversario di turno, ma senza mai annientarlo, salvo conservare un rancore profondo per un tempo infinito (non facciamo nomi, ma con un piccolo sforzo di fantasia e di memoria, sarà facile individuare i protagonisti). A scegliere il conflitto sociale anche aspro, ma salvaguardando alcuni valori di fondo della convivenza: libertà di espressione, di manifestazione e di astensione dal lavoro.
Può sembrare poco, ma considerando la nostra giovinezza repubblicana è già davvero tanto. Di sicuro, amiamo dividerci in guelfi e ghibellini (nella loro accezione più vasta), ma viviamo nel Paese più bello del mondo che ha la grave responsabilità di custodire le sue ricchezze per tutte le generazioni future e per tutti i popoli del mondo. Questa dimensione di bellezza pervade il Paese e fa da sfondo alla nostra vita sociale e noi sappiamo quanta invidia e ammirazione susciti nel mondo intero. E questa bellezza trova mille rivoli che educano il nostro sguardo.
La nostra socialità è ammirevole. E sarà pur vero che il coronavirus ha trovato un terreno fertile proprio nella nostra vita di relazione intessuta di rapporti familiari come nessuno al mondo, ma il calore e la solidarietà che ne ricaviamo è impagabile. Del resto, il nostro modo pacifico di comporre i conflitti nasce proprio dalla nostra consuetudine familiare all’ascolto e al decidere insieme. Ogni santo giorno le nostre famiglie portano un tassello fondamentale alla costruzione dell’unità del Paese. E senza l’educazione familiare non assisteremmo alla gara di solidarietà e di impegno faticoso che i medici e tutto il personale sanitario stanno mettendo in campo in questa tragica pandemia. Dove hanno trovato il coraggio e lo slancio, se non nelle loro famiglie?
Infine un contributo all’unità del Paese viene dalla nostra antropologia, dal nostro Dna che si inabissa dolcemente e riemerge prepotente. Quando Benedetto Croce sosteneva che “non possiamo non dirci cristiani”, aveva capito, da grande liberale, che le radici di un popolo sono profonde e che sradicarle è un’impresa improba per qualunque ideologia, moda o spirito del tempo.
Perciò possiamo utilizzare con dignità un’espressione semplice, quanto profonda: “Siamo tutti sulla stessa barca”. E possiamo pronunciarla senza sembrare banali. Del resto, anche papa Francesco, nella piovosa sera romana in cui ha pregato in solitudine in Piazza San Pietro, dispensando l’indulgenza plenaria a favore di telecamere e in diretta televisiva mondiale, ha scelto l’immagine evangelica della barca nel mare in tempesta e del Gesù dormiente, per nulla indifferente alle sorti dell’umanità.
E così un’espressione di una semplicità disarmante ha raffigurato plasticamente la nostra condizione. Ma noi italiani non siamo naufraghi. Siamo passeggeri che faticosamente remano nella stessa direzione: l’uscita dalla pandemia, la ricostruzione morale e materiale del Paese dopo i giorni del terrore, la riconquista degli spazi di vita comune. Questa sarà, anzi già lo è, la prova più esaltante per la nostra unità nazionale. Quella che il destino, mai banale, ha riservato alla nostra generazione.
Domenico Delle Foglie