Il Primo Maggio che ci apprestiamo a festeggiare è carico di inquietudini, porta con sé molte incertezze. L’impatto della pandemia sul mondo del lavoro è stato devastante ed è un punto di svolta di carattere storico che segna un “prima” e un “dopo”. L'unica certezza che abbiamo è che “nulla sarà come prima”, un'affermazione ripresa anche nel Messaggio dei Vescovi italiani per la festa del 1º maggio.
Anche se alcuni si azzardano a fare previsioni, a snocciolare cifre sulla perdita dei posti di lavoro o sulla contrazione del reddito e degli altri dati economici, la verità è che ancora neppure riusciamo a immaginare che cosa accadrà, né possiamo immaginare come ciascuno di noi reagirà una volta terminata la quarantena. Viviamo un'attesa inquieta esasperata dalla fragilità delle nostre istituzioni. In questo clima viene da porsi una domanda: cosa festeggiamo il 1° maggio? Che senso ha festeggiare il lavoro, in una situazione come questa? Nonostante tutto e, forse, proprio per la tribolazione che stiamo attraversando, ha senso, oggi più di ieri, celebrare il lavoro, perché è proprio dal lavoro che occorre ripartire. Anche se negli anni della sbornia della finanza senza freno lo abbiamo dimenticato, il lavoro rimane la “chiave essenziale di tutta la questione sociale”, come scrisse papa San Giovanni Paolo II nella grande enciclica sul lavoro Laborem Exercens.
La pandemia, con le tragiche morti che si è portata dietro, con la segregazione forzata di tutti noi, ha mostrato che questo sistema non è adeguato all'uomo, poiché non solo non risponde alle esigenze più profonde, ma ha diversi problemi anche con quelle più superficiali. Vivevamo un'effimera sicurezza, ma adesso il re è nudo. Abbiamo, quindi, di fronte a noi una grande occasione per ripartire con un altro passo, mettendo al centro la persona partendo dal lavoro, affinché sia promossa la dignità di ciascuno e il bene di tutta la casa comune. Non si tratta di dare dei correttivi perché di fronte ad un male così grande come quello che stiamo affrontando, non bastano gli ammortizzatori (necessari) o lo smart working (necessario anch'esso), occorre, invece un cambio di paradigma degno del cambio d'epoca che la pandemia ha accelerato. Non a caso la voce di Papa Francesco, che di questo cambio di paradigma è l'alfiere, risuona come unico appiglio nel mare dell'inquietudine. Nel già citato messaggio per il Primo Maggio, i Vescovi hanno indicato nel primato del lavoro degno, nella lotta al lavoro nero e allo sfruttamento dei migranti, nella cura della casa comune, nello sguardo positivo verso la tecnologia, nella responsabilità delle istituzioni e dei cittadini, nel ruolo della società civile, alcuni aspetti da cui ripartire per rispondere in maniera adeguata ai tempi che stiamo vivendo.
Ci attende una sfida epocale resa ancora più drammatica dall'inadeguatezza (almeno per ora) delle risposte delle istituzioni e dal rigurgito statalista che, approfittando della situazione, vorrebbe azzerare i corpi intermedi e il poco di sussidiarietà rimasta (i recenti provvedimenti portano tutti in questa direzione).
Così occorre ripartire dalle basi, puntando sul rapporto tra persona e comunità che solamente una visione dualista come quella nella quale siamo immersi vede contrapposte. Nel mondo del lavoro, oggi più di ieri, si percepisce l’importanza di alcune intuizioni come la centralità della persona che lavora, il lavoro degno, un sistema di relazioni industriali di carattere collaborativo, la partecipazione dei lavoratori alla vita dell'impresa, la priorità della sicurezza, il ruolo dell'impresa e la sua responsabilità all'interno di una comunità, la salvaguardia del creato e la promozione del lavoro, la lotta allo sfruttamento e per la legalità. Eppure, tali importanti intuizioni, da sole non bastano se non facciamo il grande salto culturale capace di riconoscere il primato del lavoro e il suo ruolo essenziale per lo sviluppo, aspetti che sono già presenti nella nostra indole e che sono riconosciuti e promossi dalla nostra Costituzione. Il senso di questo Primo Maggio, forse, sta proprio nella presa di coscienza della responsabilità del mondo del lavoro, poiché in gioco assieme al futuro delle persone, delle famiglie, della comunità, c’è anche la tenuta delle nostre istituzioni democratiche. Agli inquietanti sbandamenti autoritari, favoriti sia dalla paura che dalla debolezza di una politica che da tempo ha perso la sua rappresentatività perché ha stoltamente reciso i legami con i corpi intermedi e il territorio, il mondo del lavoro può rispondere mettendo in gioco tutta la sua ricchezza. Una ricchezza di opere e relazioni che sono stati il segreto della nostra ricostruzione, che lo saranno per la nuova ricostruzione che ci attende.
Giovanni Gut
Vicepresidente nazionale MCL