Il presente studio cerca di fornire una sintetica introduzione al tema ampio e complesso delle forme scelte dalle organizzazioni che operano all’interno del Terzo Settore nei vari Paesi dell’Unione Europea per rapportarsi ai rispettivi Governi nazionali e cercare di interloquire con loro.
Per quanto concerne la metodologia utilizzata, la ricerca è stata svolta contattando ed intervistando quadri superiori di importanti associazioni europee, diversificate per settore di interesse e per posizione tenuta in merito alle principali cause di divisione interna a ciascuna area tematica. Ciò è stato fatto per cercare di ottenere una visione più obiettiva possibile dell’oggetto di analisi, soprattutto riguardo all’efficacia dell’azione delle associazioni nei confronti dei Governi, la correttezza di tali rapporti e l’eventuale necessità di modifica.
La base operativa della ricerca è stata Bruxelles, luogo da cui è particolarmente facile contattare operatori appartenenti ai Paesi membri della UE, sia perché molte delle maggiori associazioni vi hanno un proprio ufficio, sia perché i funzionari dei network associativi che fanno opera di rappresentanza degli interessi presso le istituzioni europee, provengono solitamente dalle maggiori associazioni nazionali di ciascun settore.
Circa la terminologia usata nel presente studio, essa riprenderà quella in uso in ambito internazionale, che mutua dall’inglese la sostanziale identità di significato fra il termine associazione (ingl. association) e la formula organizzazione non governativa/ONG (ingl. non governmental organisation/NGO). Mentre in Italia, infatti, con la sigla ONG si indicano quasi esclusivamente le organizzazioni che si occupano di cooperazione allo sviluppo, in ambito internazionale questa distinzione non esiste, si usa prevalentemente la formula NGO e con essa si indicano tutte le organizzazioni operanti nel Terzo Settore, da quelle che si occupano di promuovere lo sviluppo economico nel Terzo mondo, a quelle che assistono i disabili a domicilio nei ricchi Paesi dell’Europa occidentale.
Come sarà facile rilevare per coloro i quali hanno dimestichezza con le forme di organizzazione e di rappresentanza degli interessi del Terzo Settore in Italia, il risultato più evidente della nostra ricerca consiste nell’aver verificato l’assenza negli altri Stati membri della UE da noi studiati di un’esperienza simile a quella che si è sviluppata in Italia negli ultimi anni.
Come è noto, a partire dal 1997 opera nel nostro Paese il Forum del Terzo Settore, che consiste in un coordinamento estremamente rappresentativo dell’associazionismo italiano, capace nell’arco di pochi anni di riuscire a raggiungere lo status di parte sociale riconosciuta.
Il Forum, attraverso una sapiente opera di lobbying, fatta di contatti diretti con esponenti politici e delle istituzioni, elaborazione di affidabili ed accurati rapporti, campagne stampa sostenute da testate specializzate molto seguite dagli addetti ai lavori, promozione di dibattiti e di incontri aperti al pubblico, nonché grazie ad una buona coesione interna, indispensabile in questi casi, ha dimostrato di poter far udire efficacemente la propria voce ai vari Governi ogni volta che si tratti di affrontare tematiche rilevanti per le organizzazioni della società civile italiana.
Tale forma di coordinamento, che dal punto di vista delle ONG italiane non può che essere considerata positiva, dati i risultati confortanti che finora ha ottenuto, non trova riscontro negli altri Paesi considerati, tranne che nel Regno Unito dove il National Council for Voluntary Organisation (NCVO) presenta delle caratteristiche teoriche molto simili al Forum italiano, ma nella pratica agisce privilegiando logiche diverse, di cui daremo conto alla fine del presente studio.
Francamente, appare difficile in uno studio introduttivo dire con certezza se la peculiare esperienza presente nel nostro Paese sia dovuta ad un diverso stadio di sviluppo e di strutturazione del non profit italiano rispetto ai medesimi settori degli altri Stati, oppure ad una diversità di contesti politico-sociali, come ad esempio un differente assetto istituzionale e una differente cultura politica, fattori che influiscono fortemente sul policy-making di ciascun Paese, o anche ad un diverso sistema di welfare. Ciò che sembra emergere dalla nostra ricerca è che la differenza fra lo scenario italiano e gli altri considerati, in certi casi deve essere attribuita alla prima delle macrocause appena accennate, mentre altre volte sembra prevalere la seconda.
Se infatti alcuni Paesi presentano condizioni politiche, istituzionali, culturali, marcatamente differenti rispetto all’Italia, con evidenti ripercussioni sulla vita e l’attività quotidiana delle organizzazioni non profit, in altri casi non sembra fuori luogo parlare di un chiaro ritardo nello sviluppo del Terzo Settore rispetto al nostro Paese, ed il fatto che l’iniziativa di creare il Forum costituisca una scelta vincente maturata negli ultimi anni, fa pensare che un’esperienza simile possa essere adottata in futuro anche all’estero, una volta raggiunta una sufficiente maturità.
Una tale descrizione sembra piuttosto calzante per il caso francese. La Francia ha un sistema poltico-istituzionale non molto diverso da quello italiano, soprattutto per quanto concerne il tipo di policy-making. Tuttavia, uno statalismo ancora più ingombrante del nostro, insieme ad un’amministrazione più accentrata, hanno fatto sì che il Terzo Settore francese abbia conosciuto uno sviluppo apprezzabile soltanto a partire dagli anni ’90.
Molti esponenti di ONG francesci si lamentano per come le istituzioni pubbliche del loro Paese manifestano una diffusa diffidenza e talvolta un’aperta ostilità nei loro confronti, mentre i casi di proficua collaborazione sono ancora rari. D’altra parte, anche se esiste qualche importante eccezione come Médecins sans frontières, dai contatti avuti emerge pure la consapevolezza di una scarsa professionalità all’interno del Terzo Settore francese, soprattutto se lo confrontiamo con quello inglese, che vanta fra le sue fila diverse fra le organizzazioni più importanti d’Europa.
Se le ONG francesi patiscono il difficile rapporto con il loro governo e vorrebbero essere maggiormente coinvolte nel processo decisionale, attraverso l’istituzione di commissioni consultive o la richiesta di audizioni, si percepisce anche la paura di vincolarsi troppo allo Stato, di scivolare in un rapporto di sudditanza nel corso di una fase importante come quella del ‘lancio’ vero e proprio del settore.
In un contesto come questo, la rappresentanza degli interessi del non profit nei confronti del governo non segue una strategia precisa e unitaria. In generale le organizzazioni cercano di coordinarsi seguendo un criterio settoriale, rivolgendosi al Ministero che si occupa della loro materia, ma talvolta tentano pure di fare lobbying puntando esclusivamente sulle proprie risorse. Ciò avviene non tanto perché il policy-making francese è di tipo aperto e pluralista come quello anglosassone, dove le ONG vengono consultate regolarmente a seconda della materia trattata, e quindi un coordinamento generale non è necessario, se non con una struttura esile.
In Francia, la frammentazione appare dovuta principalmente ad una debolezza del settore, tanto che non riteniamo azzardato sostenere che l’esperienza del Forum italiano potrebbe rappresentare un esempio importante per gli operatori francesi.
In un Terzo Settore che ancora deve raggiungere il pieno sviluppo, le organizzazioni che ne fanno parte hanno molti interessi in comune, soprattutto per cercare di allargare lo spazio che nella società è ad esso riservato e per ottenere una normativa fiscale paragonabile a quelle più avanzate presenti in Europa.
Non esiste nessuna organizzazione che possa parlare a nome dell’intero settore non profit nemmeno in Germania, dove pure non si può certo dire che le ONG non abbiano storia e tradizioni da vantare.
Il sistema di welfare tedesco si basa infatti su una combinazione unica al mondo di servizi forniti dallo Stato e servizi forniti dalle organizzazioni del Terzo Settore come la Caritas e la Croce Rossa. Tali organizzazioni sono talmente importanti, soprattutto in campo socio-assistenziale, che le sei sigle maggiori occupano un milione e duecentomila persone a tempo pieno, mentre un altro milione di persone è coinvolto a titolo di volontariato.
Come mai dunque, in un sistema del genere, non viene seguita una strategia unitaria, attraverso la creazione di un cartello che sia in grado di trattare quasi alla pari con il Governo? Se va considerato decisamente semplicistico e poco fruttuoso ipotizzare un ritardo organizzativo da parte del Terzo Settore tedesco, le cause dell’assenza di un Forum tedesco sembrano essere essenzialmente di due tipi.
Prima di tutto, in un non profit molto strutturato, in cui convivono strutture ponderose e quasi statali, dalla lunga storia, insieme ad organizzazioni più snelle e di recente nascita, che si occupano di tematiche postmoderne, le diverse formazioni manifestano esigenze ed interessi discordanti, difficilmente componibili in un coordinamento che parli ad una sola voce, ponendo sullo stesso piano realtà tanto differenti.
In secondo luogo, non si può tralasciare l’assetto istituzionale tedesco, profondamente diverso da quello francese in quanto caratterizzato da uno spiccato federalismo, che contrasta con il centralismo d’oltralpe e conferisce importanti competenze ai lander. Ciò fa sì che in diversi campi l’istituzione di maggiore importanza con cui si trovano a trattare le ONG non sia tanto il Governo federale di Berlino, quanto i Governi dei singoli lander, che possono attuare scelte e strategie diverse. Tali iniziative politiche, in quanto diverse, richiedono necessariamente di essere valutate e affrontate distintamente, caso per caso.
Il particolare sistema politico-istituzionale sembra la principale causa della scelta rigorosamente ‘settoriale’ operata dalle organizzazioni del Terzo Settore anche in Belgio. In questo Paese è presente una società che i politologi definirebbero potenzialmente ‘plurale’, ossia attraversata da una serie di fratture di tipo storico, culturale, linguistico ed economico tali per cui solo se esse vengono gestite con estrema cautela è possibile riuscire ad evitare uno smembramento dello Stato.
La Costituzione belga è riuscita nell’intento attraverso un complicato sistema federale, che tutela le minoranze si su base territoriale che su base linguistica. Soprattutto in ambito sociale le istituzioni con cui le ONG si trovano a trattare sono in alcuni casi i Governi degli Stati federati, in altri le municipalità, in altri ancora enti, come le aziende sanitarie, che non sono organizzati tanto su base territoriale quanto in base all’identità nazionale dei cittadini.
In questa situazione, un coordinamento a carattere settoriale risponde meglio alle esigenze di conoscenza profonda delle problematiche specifiche e delle competenze in conflitto, anche perché può far valere la sua maggiore snellezza e coesione.
La stessa forma di organizzazione risulta essere quella privilegiata anche dalle organizzazioni del Terzo Settore olandese. Secondo i responsabili di un noto centro di ricerca sulla partecipazione politica, nei Paesi Bassi non si avvertirebbe particolarmente la necessità di un coordinamento a carattere generale, comprendente il maggior numero possibile di organizzazioni, indipendentemente dal campo d’azione di queste.
Probabilmente facilitate anche dalle modeste dimensioni complessive della pubblica amministrazione olandese, le ONG sembrano avere un buon rapporto con i Ministeri che si occupano dei loro rispettivi settori di intervento. Sempre secondo l’opinione dei ricercatori interpellati, i problemi che necessiterebbero di un’azione comune non sarebbero tali da compensare i costi di un coordinamento fra enti che si occupano di materie molto diverse l’una dall’altra, che per questo motivo hanno esigenze differenti e interessi spesso contrastanti, se non apertamente in conflitto.
Com’è facile intuire, uno dei maggiori e più ricorrenti motivi di contrasto fra le associazioni, soprattutto fra le più direttamente operative, come quelle che si occupano di cooperazione allo sviluppo, riguarda l’accesso ai finanziamenti pubblici, tema che provoca discordia sia fra settori distinti dell’intervento statale, sia fra le associazioni che operano nello stesso settore.
Da quanto risulta, dunque, le ONG olandesi non spendono tempo e risorse nella messa a punto di un ampio coordinamento soprattutto perché non ne avvertono la necessità, preferendo concentrarsi sulla più facile costituzione di network settoriali, meglio attrezzati per monitorare nel tempo l’atteggiamento del governo su tematiche specifiche e per sensibilizzarlo circa la loro importanza.
Siamo così arrivati ad affrontare la situazione nel Regno Unito, ultimo Stato membro della UE da noi analizzato.
La Gran Bretagna mostra un panorama particolare, in cui non solo abbondano le ONG, ma dove troviamo anche le sedi di alcune delle associazioni più note al mondo, fortemente votate all’internazionalità, capaci di organizzare campagne medianiche a livello globale.
Da un punto di vista istituzionale, il policy-making britannico si presenta decisamente aperto ed il governo è da tempo abituato a confrontarsi con le formazioni del terzo Settore su tematiche specifiche, dato che le associazioni sono spesso in grado di fornire informazioni e proposte preziose e qualificate, difficili da ignorare da parte delle istituzioni, che ne riconoscono sovente l’utilità. Tuttavia, tali contatti avvengono prevalentemente attraverso tavoli di consultazione informali e temporanei, che coinvolgono soltanto le organizzazioni legate ad un determinato settore e per il tempo necessario ad affrontare iniziative politiche specifiche.
Per il resto il Terzo Settore britannico non è molto strutturato, presentandosi anzi come piuttosto fluido e caratterizzato da alleanze settoriali temporanee che servono principalmente a sensibilizzare il pubblico o il governo, a seconda dei casi, circa determinate situazioni meritevoli di essere considerate.
Se, ad esempio, scoppia una nuova crisi umanitaria, le organizzazioni che operano nel settore interessato saranno incentivate a coordinarsi per organizzare una campagna che renda nota tale tragedia e raccolga fondi a favore delle vittime, ma ciò non significa che il coordinamento settoriale creato rimanga poi come struttura stabile, deputata a sostituire le singole associazioni nei loro rapporti con il governo.
La lunga tradizione dell’associazionismo anglosassone, la grande professionalità del personale che lavora nel ramo, in cui frequenti sono i think tanks e gli uffici ricerca interni ad importanti ONG, nonché un’attitudine propria delle istituzioni britanniche e del loro modus operandi, fanno sì che il Terzo Settore sia considerato più una risorsa che un accidente con cui fare i conti, e la sua voce trova in genere orecchie pronte ad ascoltarla senza imbattersi in grosse difficoltà.
Per completare l’immagine del non profit nel Regno Unito, è utile considerare anche l’esperienza dell’unico coordinamento generale simile al Forum del terzo Settore che abbiamo riscontrato durante la nostra ricerca: il National Council for Voluntary Organisation (NCVO). Tale organizzazione, fondata nel 1919, comprende attualmente circa 3.500 associazioni, dalle più grandi, note in tutto il mondo, a quelle a carattere meramente locale, indipendentemente dal campo specifico in cui esse agiscono.
Forte di una lunga tradizione e di un’amplissima rappresentatività, il NCVO è un interlocutore importante del governo per ciò che riguarda le tematiche generali del non profit, anche se tale funzione non è, o meglio non è più, la sua principale. Oggi, infatti, il National Council, più che fare lobbyng e rappresentare la controparte del governo in lunghe trattative, promuove studi e ricerche, organizza incontri fra le associazioni su temi specifici, incoraggialo scambio di esperienze, il confronto, l’aggiornamento e la crescente professionalità degli operatori del non profit britannico.
Sinteticamente si potrebbe dire che l’azione del NCVO appare più votata al rafforzamento dell’ambiente interno di quanto non lo sia ai rapporti con l’esterno. Essa cerca di rafforzare costantemente il non profit puntando sulla qualità e la preparazione delle persone, facendo formazione interna, incentivando l’efficienza delle ONG attraverso l’elaborazione di standard sempre più elevati, cercando di mettere i loro leader in condizione di stare continuamente al passo con le esigenze e le problematiche di una società in costante cambiamento.
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Concludendo questo breve studio introduttivo sulle forme di organizzazione del non profit negli Stati membri della Unione Europea, dobbiamo sottolineare che ci sarebbe ancora molto da dire se la ricerca si estendesse a tutti i membri dell’Unione, compresi i dieci Stati che ne diverranno parte integrante dal maggio 2004 e se approfondisse empiricamente il grado di efficacia delle varie forme di rappresentanza degli interessi utilizzate, magari elaborando uno standard comune.
Tuttavia, riteniamo che qualche utile indicazione possa essere ricavata anche da questo primo studio, che conferma quanto avevamo accennato all’inizio, ossia la sostanziale unicità dell’esperienza italiana. Tale unicità, dovuta a vari fattori politici, culturali, istituzionali, non può essere semplicisticamente presa come unico indicatore capace di misurare il grado di sviluppo del Terzo Settore italiano.
Nondimeno, avendo dato risultati positivi nel nostro Paese, la forma organizzativa del Forum può essere certamente presentata all’estero come una valida alternativa, un’esperienza su cui riflettere tenendo conto che se è vero che situazioni diverse richiedono risposte diverse, è anche vero che in una società civile viva e sempre più europea, lo scambio e il confronto sono indispensabili: costituiscono l’essenza stessa della società aperta e della democrazia che tutti vogliono in Europa.