Sorprende ma non troppo constatare come, nonostante il fermo estivo delle scuole e il perdurare dello smart working per moltissimi lavoratori pubblici e privati, il Paese appaia di nuovo in evidente movimento. Al di là di statistiche che spesso colgono con ritardo l’andamento dei fenomeni sociali, perché c’è una sfera di operosità che sfugge agli analisti, vediamo riapparire la confusione del traffico automobilistico, la ripresa dei cantieri stradali restati fermi per qualche mese, aprirsi botteghe artigiane e i luoghi della ristorazione, librerie, spazi balneari, uffici postali, negozi e studi professionali.
Certo, assistiamo ancora, e non è poco, al dramma di chi non ha ripreso a lavorare e soffre delle inadeguatezze della cassa integrazione e il fermo di molte piccole aziende e del comparto turistico, ma il Paese reale ha voglia di riprendere e lo sta facendo, mentre taluni settori della pubblica amministrazione, per esempio uffici regionali e giudiziari, risentono ancora del blocco delle attività. L’indomita voglia di lavorare e di fare impresa sta vincendo la sua battaglia più difficile, quella psicologica: il Covid 19 che ci ha fatto paura è stato sconfitto dentro di noi e avvertiamo, in qualche modo, che potremmo dominare la sollecitata preoccupazione per la “seconda ondata”, con l’attenzione individuale e con strutture sanitarie che ormai sostanzialmente conoscono come affrontare il virus, anche con l’esperienza e gli errori compiuti all’inizio della pandemia.
Le istituzioni sono all’altezza di questa rinnovata forza d’animo degli italiani? Conosciamo le inefficienze del sistema burocratico, i ritardi per gli interventi assistenziali, le lungaggini della giustizia civile e amministrativa, il groviglio legislativo-burocratico, si tratta di una condizione stratificatasi nel tempo; l’elemento che più desta preoccupazione è l’immobilismo della istituzione politica alla quale fa capo la responsabilità principale per la necessaria ripresa.
Man mano che i dossier delle questioni da affrontare si posano sul tavolo del premier Giuseppe Conte, restano congelati in attesa dei chiarimenti politici che dovrebbero precedere l’avvio per l’approvazione.
Mes, sicurezza e immigrazione, semplificazione, cantieri per le grandi opere, piano di rilancio in vista dei fondi europei, giustizia, sono le urgenze che continuano a subire rinvii o a rimanere titoli senza veri contenuti e scelte significative. Le ricorrenti sollecitazioni del segretario Pd Nicola Zingaretti, come scrive Paolo Mieli “rassegnato a una mancata risposta”, appaiono come litanie prive di forza convincente. Massimo Cacciari ha detto che “il Pd non riesce a imporre un cambio di passo… mostrando l’inconsistenza e l’inconcludenza della sua leadership”. L’incontro con il premier ha cambiato poco o nulla, il decreto semplificazioni forse passerà, ma mutilato di alcune sue iniziali intenzioni.
Alla nascita del governo, a settembre scorso, le analisi oracolari dell’unico “guru” rimasto nel Pd, Goffredo Bettini, avevano addirittura lanciato l’idea di “mischiare i rispettivi elettorati”, quasi a prevedere non solo la nascita di un fronte e di una unità di intenti governativi contro l’invasione del “barbaro” Salvini, ma un possibile avvio di “convergenze e di lealtà” in grado di consolidare, in un “tempo lungo”, l’alleanza M5S-Pd nata dalla necessità.
Era apparso anche qualche sintomo di adesione a una politica filo establishment da parte dei “pentastellati”, ma è bastata la riapparizione sulla scena di un Di Battista per riportare gran parte del Movimento alla sua identità e alle ragioni che ne avevano motivato la nascita, assottigliando vieppiù le già scarse “certezze” di Conte. Il barometro interno ai Cinquestelle segna, infatti, il prevalere di questa attenzione rispetto al dovere di governare, anche in previsione di un avvicinarsi delle elezioni, regionali prima e politiche (più prima che poi). Stanno con il corpo al governo, ma con la mente alle elezioni, a cercare di scorgere le vecchie strade che li avevano portati ad avere il 32 per cento. Per l’appuntamento di settembre, importante per la sua ampia consultazione regionale e locale, non sembra profilarsi un accordo elettorale tra i partiti governativi, poiché evidentemente, i grillini hanno capito che del patto si avvantaggerebbe soprattutto il Pd. Marco Revelli ha suggerito uno scambio, con un Pd che sia disposto a sostenere nel 2021 i due sindaci uscenti di Torino e Roma, ma la destrezza del segretario Zingaretti non può arrivare a tanto.
C’è un altro elemento, oltre la salvaguardia dei posti parlamentari, che finisce per puntellare questa fase di non governo, soprattutto da parte del Pd: non forzare la trattativa con gli alleati, per il rischio di non arrivare al semestre bianco, momento decisivo per fare in modo che sia questo Parlamento ad eleggere un Capo dello Stato gradito, anche se il peso dei rappresentanti delle Regioni potrebbe modificare questa certezza. Comunque la strada per l’elezione presidenziale è ancora lunga, mentre siamo vicini al tempo difficilissimo dell’autunno che, a questo punto, si potrebbe presentare ancora senza fondi Mes e Recovery, con una impennata del debito. La “finestra di opportunità” dell’Europa non può essere fatta saltare per indecisionismo; ai danni economici si sommerebbero quelli di immagine e peso politico.
Mentre incombe questo immediato ed incerto futuro, nelle due forze politiche, permane la necessità di mantenere le identità: per il Pd quella ostentatamente istituzionalista ed europeista, ma assai contraddittoria e nel retaggio di una sinistra che preferisce i “fronti” rispetto alla “solidarietà nazionale”, sussistendo l’assioma “pas d’ennemis à gauche” applicato al campo dei “diritti”; per i Cinquestelle quella populista e globalista, compresa, sul piano internazionale, l’entente con la Cina. Da questa collisione nascono i reciproci tentativi di logoramento.
In questa situazione, si possono condividere le analisi di Alessandro Barbano contenute nel suo ultimo libro (“La visione. Una proposta politica per cambiare l’Italia”) quando afferma che “al netto dell’incerta statura dell’avvocato del popolo, la premiership di Giuseppe Conte paga l’illusione di una convergenza strategica tra i due partiti, il Pd e il Movimento Cinque Stelle, che coincide con un patto a perdere”. L’ex direttore del Mattino sottolinea come “le opzioni politiche dei due alleati a Palazzo sono inconsistenti” in quanto espressione di un “bipolarismo contrappositivo… tra una sinistra raccogliticcia, che si compatta tatticamente nell’opposizione a Salvini, e una destra egemonizzata da istanze sovraniste”. Ciò che emerge sul piano dell’indirizzo governativo è valutato negativamente da Barbano: “Nella fase in cui un quarto della forza produttiva del Paese rischia di saltare, l’idea di sussidiarla per tenerla in piedi - con altro debito pubblico - ha un senso se è accompagnata da una visione del futuro”.
In sostanza quello tra Pd e Cinquestelle è un inadeguato stare insieme nell’occupazione del governo del Paese, ma presenta una disunione sulle scelte di fondo, quelle cioè in grado di affrontare il futuro e di mantenere il rapporto con L’Europa.
C’è bisogno soprattutto di un ritorno della politica vera e della capacità di rappresentanza. Di una azione governativa che senta profondamente il rapporto con il Paese, la sua realtà economica e sociale ed il suo potenziale di impegno e partecipazione che ha sempre consentito di superare le difficoltà. Che sappia prepararsi ad utilizzare le opportunità che ci arrivano dall’Europa che possono presentare condizionalità, ma che, nello stesso tempo, agiscono come scudo, di fronte alle minacce sempre incombenti della spietatezza dei mercati pronti ad assalire chi più è indebitato.
Si può condividere un’ultima considerazione dell’autore de “La visione” che partecipò come relatore al seminario Mcl di Senigallia nel 2018 sul tema “Dai diritti alla responsabilità”: “Dalle grandi crisi non si esce senza la politica. E la politica ha bisogno di idee coltivate con cura e cementate nel corpo del Paese. Oltre il tempo dell’urgenza”.
Pietro Giubilo