"Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce", scriveva Dylan Thomas in una sua celebre poesia dedicata al padre morente. Questi versi esprimono in modo potente la lotta dell'uomo che non si rassegna ad accettare docilmente la morte, che si ribella allo spegnersi della vita. Questi versi custodiscono lo struggente dolore dell'uomo che è chiamato alla vita e che deve affrontare l'inevitabilità della morte. L'arte ci consegna la grandezza e la sacralità del momento ultimo che attende ciascuno di noi, grandezza e sacralità che chiedono di essere avvolte nel silenzio per addentrarsi nel mistero più grande della vita. Una risposta ben diversa dalla spettacolarizzazione e dalla strumentalizzazione della straziante vicenda del dj Fabo. C'è qualcosa di profondamente perverso nella celebrazione della morte come gesto di libertà, come rivendicazione di un diritto, come emancipazione dalla vita. Ed è terribilmente subdolo voler utilizzare il dolore per cercare di fare pressione sul parlamento nel momento in cui si appresta a discutere la cosiddetta legge sul "fine vita".
La delicatezza e la difficoltà del tema chiederebbero serenità e serietà in modo da poter favorire un confronto ragionevole, concreto, capace di superare gli steccati dell'ideologia. Il gran baccano mediatico e politico intorno a tutta questa vicenda, tende a sfruttare l'emozione del momento per far surrettiziamente introdurre l'eutanasia nel nostro ordinamento. Il testo in discussione alla camera presta il fianco all'eutanasia passiva e tende a ridurre il medico ad esecutore delle volontà precedentemente espresse dal paziente, spezzando quel rapporto medico paziente che dovrebbe essere il momento privilegiato per discernere le cure, per capire quando le cure scivolano in accanimento terapeutico. Le "Disposizioni Anticipate di Trattamento" preferiscono l'astrazione alla concretezza della realtà, anche se sembra difficilmente immaginare qualcosa di più carnale e reale, di meno astratto delle situazioni tragiche alle quali le DAT si riferiscono. Anche in questo frangente, come in tantissimi altri, si vuole sostituire la relazione con la norma, si vogliono spezzare le relazioni, si vuole lasciare la persona sola, la si vuole ridurre ad individuo, quel mostruoso soggetto che non esiste in natura e che è così facile da manipolare.
Il Parlamento ha ancora dei margini per migliorare il testo della legge, per riconoscere che nessuna norma, nessuna volontà slegata dalla realtà, può sostituirsi ai rapporti tra persone, siano essi i pazienti, i medici, i familiari. E c'è ancora tempo per rifiutare di introdurre nel nostro ordinamento la cultura e il culto della morte. Uno Stato che promuove la morte, anche se tenta di ammantarla di pietismo, è uno Stato che ha eretto l'utilitarismo a regola del vivere comune, che giudica le persone - che dovrebbe servire - secondo il loro grado utilità ad un sistema che si presenta come impersonale, ma che non lo è affatto. La violenza con la quale vengono utilizzate tragedie come quelle di dj Fabo, la violenza con cui vengono sbandierati i casi di persone che chiedono il suicidio assistito - che è bene ricordare che non c'entra nulla con le DAT e non centrerebbe nulla neppure con la materia in discussione in parlamento - lasciano attoniti e smascherano il finto pietismo dietro queste vicende. Se si volesse il bene dei malati, invece di presentare l'eutanasia come gesto di emancipazione, si aiuterebbero i centri dove si fa riabilitazione, dove ci si prende cura dei malati terminali o delle persone in cui versano in stato vegetativo, si sosterrebbero le famiglie sia umanamente che economicamente. Su una cosa hanno pienamente ragione quanti in questi giorni stanno sollevando questo tremendo baccano intorno all'eutanasia: si tratta di una scelta di civiltà. È vero: dire no all'eutanasia è una scelta di civiltà. La civiltà non è affrontare i problemi eliminandoli - Stalin insegnava che "esiste l'uomo, esiste il problema.; non c'è più l'uomo, non c'è più il problema" -, ma sapere che i problemi sono delle provocazioni per una crescita personale e sociale. La morte è davvero l'unica risposta che siamo in grado di dare al dolore? La disperazione è l'orizzonte ultimo di ogni tragedia? La dignità della morte consiste davvero nel sceglierla? O c'è qualcosa di più? Perché se la posizione più vera dell'uomo è quella che Dylan Thomas esprime nei suoi versi, la più desiderabile non è forse quella di San Francesco morente che ha il coraggio di chiamare la morte sorella e di trovare in essa un motivo di lode? Noi non abbiamo il diritto - questo sì che è un diritto - di negare a nessuno di poter incontrare qualcosa che renda la vita degna in ogni suo istante.
Non si tratta di discorsi, ma di una umile e grande quotidianità che coinvolge tantissime persone, numerosissime realtà sociali, sanitarie, assistenziali, e che testimoniano un barlume di speranza in mezzo alla drammaticità del vivere. Occorre guardare a queste realtà, occorre sostenerle, dare loro quella visibilità, pur nella discrezione, necessaria a renderle un patrimonio a cui tutti guardare. E scegliere di rifiutare il culto della morte e di aiutare tutte queste realtà è il dovere di uno stato civile.
Giovanni Gut