Ogni settimana di fermo produttivo comporta una perdita di 9 miliardi di euro, pari a mezzo punto di Pil. L’Italia è paralizzata da sette settimane e il 4 maggio, data fatidica per l’avvio della Fase 2, saranno diventate 8. Quanti punti di Pil saranno stati bruciati ce lo diranno gli economisti e gli statistici, ma noi sappiamo che ogni punto di Pil vale all’incirca mezzo milione di posti di lavoro in più o in meno. Ed è questo che è in cima ai nostri pensieri. C’è da tremare all’idea di alcuni milioni di posti di lavoro bruciati dal coronavirus.
Da oggi al 4 maggio si stima che torneranno al lavoro meno di 3 milioni di italiani che si aggiungeranno a quelli delle filiere che non hanno mai smesso di produrre. Insomma, un’iniezione di lavoro indispensabile per riavviare il motore della produzione e dare tono alle famiglie, ma nessuno si arrischia a fare previsioni sulla tenuta generale dell’occupazione perché troppe variabili sono in campo. Presto, però, i dati cominceranno a fluire, a partire da quelli dell’Inps, dell’Istat, del Centro studi di Bankitalia e degli altri osservatori di settore. Nel frattempo, il governo ha calcolato nell’8 per cento il calo del Pil a fine anno.
Dovremo, perciò, fare i conti con il lavoro bruciato. Ci sono infatti molti settori lavorativi la cui ripresa è lontana, se non lontanissima. Innanzitutto la filiera lunga del turismo (vale il 13% del Pil nazionale) e tutto il comparto dei servizi alla persona e alle famiglie. Un universo che spesso sfugge anche alle statistiche e dove il lavoro censito (cioè regolare) convive abbondantemente con quello in nero. Dunque, preoccupazione nella preoccupazione. In particolare per tutti i non garantiti presenti anche negli altri ambiti produttivi, a partire dall’agricoltura che ha bisogno di forze fresche per non perdere i prossimi raccolti. Il dibattito sulla regolarizzazione dei lavoratori agricoli immigrati è all’ordine del giorno, ma il buon senso dovrebbe spingere tutte le forze politiche a normalizzare la situazione. Senza trascurare un ritorno intelligente e regolato dei voucher in tutti i settori che richiedono maggiore flessibilità.
Dunque, non bastano gli interventi a favore delle imprese e dei lavoratori che il posto lo ritroveranno, ma soprattutto di quanti sono a rischio, fra i quali spiccano gli adulti deboli (quelli con scarsa professionalità) e i giovani. Due categorie che in questa fase potranno soffrire ulteriormente. E rispetto alle quali si dovrà anche superare la visione assistenzialistica (già largamente abusata nella fase precedente al Covid) per immaginare riqualificazioni e tirocini a carico dello Stato o del tutto detassati per consentire alle aziende (insieme con i corpi intermedi specializzati) di agire in autonomia sotto il profilo della formazione.
Ma senza limiti di settore produttivo e merceologico, bensì nella prospettiva di far incontrare la nuova domanda di merci e servizi indotta dalla pandemia con la risposta tempestiva del mercato. Il caso della produzione di mascherine, abbandonata dalle imprese italiane, è solo la punta dell’iceberg. Interi settori della vita sociale, infatti, sono e saranno sconvolti dalla regola del distanziamento sociale e si moltiplicheranno le richieste di nuovi prodotti, accorgimenti, installazioni e professionalità. Basti pensare alla trasformazione dei trasporti pubblici o alla sanificazione ricorrente di tutti gli ambienti produttivi e comuni. Persino le parrocchie e tutte le realtà associative, se vorranno riprendere un minimo di vita sociale, dovranno intervenire pesantemente sulla gestione e sulla qualità degli spazi.
Dunque, un mondo nuovo ci attende e mille lavori nuovi probabilmente nasceranno. Ma nella fase di transizione interi settori economici saranno sottoposti a una severa cura dimagrante della forza lavoro. La lungimiranza dei corpi intermedi si dimostrerà proprio attraverso l’indicazione delle occasioni di lavoro futuro. Anche valorizzando a pieno, molto più di quanto non sia stato fatto sino ad oggi, la prospettiva della sussidiarietà nella quale hanno un posto di rilievo le famiglie, le associazioni, i movimenti, le cooperative che il lavoro lo inventano dal basso. Sarebbe davvero una iattura se l’effetto della pandemia fosse la rinascita dello statalismo più esasperato. Ai corpi intermedi, fra i quali spicca il Movimento Cristiano Lavoratori con il suo ruolo di interlocutore intelligente della realtà, il compito di vigilare perché il lavoro di domani abbia la sussidiarietà nel suo Dna.
Domenico Delle Foglie