Se sul finire del secolo XVIII la guerra dei sette anni, che vedeva contrapposte due potenze come Francia e Gran Bretagna, faceva sentire i suoi effetti su ben tre continenti, pare quasi inevitabile che in quella che ormai è unanimemente indicata come “l’era della globalizzazione” (indipendentemente da quando essa sia iniziata), un guerra in Medio Oriente, che vede fra le parti in causa di nuovo l’Inghilterra, abbia una connessione importante con il processo di integrazione europea. Per la verità, questa considerazione iniziale è vera soltanto in parte, e se può rafforzare la posizione di coloro che giustamente concentrano le proprie riflessioni sul sin troppo noto processo di globalizzazione e sulla crescente interdipendenza che costituisce una delle sue più importanti conseguenze, voleva essere da parte nostra una sottile provocazione al lettore. A nostro avviso, infatti, è sì vero che la terza guerra del Golfo sta avendo e avrà in futuro delle ricadute sul processo di integrazione europea, ma perché tale conflitto ha avuto determinate caratteristiche e si è svolto in un particolare contesto di relazioni politiche internazionali.
Partendo dalla considerazione dell’attuale situazione in Europa, chiediamoci innanzi tutto quale sia stato l’effetto più rilevante del conflitto iracheno sulle relazioni fra i membri dell’Unione europea. A questo proposito, sembra proprio che la frattura individuata da molti all’interno dell’Unione, che dividerebbe ‘i tre’ dagli ‘otto’ esista effettivamente e che sia anche di una certa rilevanza. Tuttavia, la suddetta frattura non sembra spaccare l’Europa su tutte le materie, almeno secondo l’opinione di alcuni funzionari con una lunga esperienza alle spalle in fatto di politica agricola comune. La PAC, che in quanto a redistribuzione di risorse economiche rappresenta il settore di competenza più importante della Comunità, dovrà essere sottoposta ad una riforma in vista dell’allargamento ad Est dell’Unione europea, e pare che le divisioni interne al Consiglio sul progetto di riforma presentato dalla Commissione ricalchino solo in parte la spaccatura in politica estera. D’altra parte, pure le diverse posizioni dei parlamentari europei sembra che tendano a rispecchiare non solo i diversi interessi degli Stati di appartenenza, ma anche, seppur parzialmente, le diverse linee politiche tenute dai Gruppi parlamentari su questa materia.
Tutto bene, quindi? Non si direbbe proprio. Se è vero che l’indipendenza è l’altra faccia della sovranità e che la politica estera rappresenta uno dei campi di azione più importanti degli Stati, non si può certo dire che i membri dell’Unione europea siano divisi su di una issue di poco conto. La rilevanza dei suddetti contrasti in politica estera deve essere inoltre valutata tenendo in considerazione che essi riguardano in ultima analisi la linea da tenere nei confronti dell’attore egemone dell’attuale sistema internazionale, e che si presentano proprio nel momento in cui i membri dell’Unione europea stanno cercando di dare alla luce la Costituzione di una nuova sintesi politica europea la quale, dotata di rinnovate istituzioni, dovrebbe essere in grado di esprimere una politica estera europea.
Quanto successo durante gli ultimi mesi nei rapporti fra i maggiori membri dell’Unione europea e fra questi e gli U.S.A., in seguito alla decisione anglo-americana di seguire la linea dura nei confronti dell’Iraq di Saddam Hussein, ha richiamato la nostra attenzione su due meccanismi in base ai quali, secondo Glenn Snyder, funzionerebbero i rapporti interni alle alleanze fra Stati. Come noto, le alleanze costituiscono uno dei fenomeni più ricorrenti nella storia delle relazioni internazionali, in quanto strumento fondamentale per risolvere quello che la tradizione realista della teoria delle relazioni internazionali definisce “dilemma della sicurezza” in condizioni di anarchia. Secondo Snyder, i rapporti fra i membri di una determinata alleanza sono continuamente condizionati dal rischio di intrappolamento e dal rischio di abbandono. Si ha la prima situazione quando uno Stato viene coinvolto in un’impresa (soprattutto un conflitto) contro il suo interesse a causa dell’alleanza che lo lega ad un altro Stato. L’abbandono si verifica invece quando uno Stato viene meno agli impegni assunti nei confronti degli altri membri dell’alleanza di cui fa parte. Se ci riflettiamo un po’ e proviamo ad interpretare i fatti in base alla tradizione realista, che da taluni può essere considerata un po’ semplicistica e persino rozza, ma che in questo caso, data anche la natura degli attori in gioco, sembra risultare molto utile, i comportamenti tenuti dagli Stati europei in merito al conflitto iracheno appaiono in linea con i meccanismi sopra citati.
Gli U.S.A. da alcuni anni si trovano ad incarnare l’indiscussa potenza egemone del sistema internazionale e vari autori, partendo da prospettive diverse e con finalità differenti, hanno messo in luce le caratteristiche di ‘impero’ non territoriale e flessibile della presenza statunitense sulla scena internazionale. A questo proposito, particolarmente interessante è riflettere sulla concentrazione di potestas e di auctoritas riscontrabile negli Stati Uniti, nonché sui rapporti intrattenuti dagli U.S.A. con gli alleati ed i clienti che si situano al limitare della loro area di controllo (da intendersi in senso multidimensionale). Coerentemente con questa visione, l’azione degli U.S.A. in Iraq può essere tranquillamente interpretata come un tipico atto egemonico. Di fronte a crescenti problemi con i (pochi) alleati e i (vari) clienti presenti in un’area di fondamentale importanza per la stabilità del sistema internazionale, preoccupata dalla possibilità che la sfuggente minaccia del terrorismo internazionale potesse beneficiare, rafforzandosi, di tale situazione, la potenza americana ha deciso di intervenire in Medio Oriente per cambiare l’ordine della regione, stabilizzarla e perseguire così l’interesse alla propria sicurezza.
Posti davanti a un’azione del genere, i Paesi europei hanno scelto linee di comportamento diverse, in barba agli obblighi di consultazione previsti dal Trattato U.E. nell’ambito del secondo pilastro (PESC), riducendo in cenere gli auspici di una politica estera comune almeno sui grandi temi della politica internazionale, portando acqua al mulino di coloro che sostengono l’impossibilità oggettiva di giungere mai a tale obiettivo. Gran Bretagna, Italia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca hanno deciso di seguire, seppur in maniera diversa, condizionate da fattori quali la propria opinione pubblica, la tradizione di politica estera, il legame più o meno stretto fra i propri interessi particolari e quelli statunitensi, l’iniziativa dell’alleato maggiore. Nei termini di Snyder, su questi Stati ha avuto un peso determinante il pericolo di abbandono da parte della potenza che essi continuano a considerare il miglior garante della loro sicurezza. D’altra parte, Francia, Germania e Belgio hanno scelto di dissociarsi nettamente dall’iniziativa statunitense. In una prospettiva rispondente alla scuola liberale, questi Stati potrebbero aver agito così anche per richiamare gli U.S.A. al rispetto delle norme del diritto internazionale, nonché all’importanza del multilateralismo, o perché spinti a tale scelta dall’opinione pubblica interna marcatamente contraria ad un intervento armato in Iraq (ma a questo proposito sarebbe interessante confrontare la proporzione di ‘pacifisti’ spagnoli e tedeschi).
Tuttavia, in una prospettiva ‘alla Snyder’, il comportamento dei tre Stati configura un classico esempio di attori sensibili al rischio di intrappolamento in un’azione che va contro i propri interessi. Francia, Germania e Belgio da un lato incarnano le posizioni di chi sostiene che non avendo l’Europa più nemici, e non avendone soprattutto in Medio Oriente e fra i terroristi islamici, dovrebbe svincolarsi dallo stretto legame con gli U.S.A. che, lungi da garantire la sua sicurezza, le procurerebbe solo maggiori rischi. Da un altro lato, i due Stati maggiori sentono minacciata non solo la loro sicurezza, ma anche la loro egemonia regionale e la loro libertà in politica estera da una potenza egemone a livello globale che si dimostra troppo attiva in un’importante area contigua all’Europa e che gode dell’appoggio della pratica totalità dei futuri membri dell’Unione europea, verso i quali tante risorse, sia politiche che economiche, sono state investite da Francia e Germania nel corso degli ultimi anni.
Il ragionamento che stiamo cercando di seguire ci conduce a questo punto a riflettere sul fatto che la nostra analisi, per comprendere la divisione interna all’Unione europea, ha dovuto porre al centro della riflessione non tanto l’U.E. stessa, quanto la storica alleanza fra Europa occidentale e Stati Uniti. Alleanza che, andando oltre i dettami imposti dalla necessità di una maggiore sicurezza e fondandosi su una serie di valori e norme condivisi e radicati nelle istituzioni e nelle società di entrambe le sponde dell’Atlantico, Deutsch definisce “comunità democratica di sicurezza”. Da qui si deve partire per capire la frattura all’interno dell’Unione europea, frattura sulle relazioni transatlantiche che divide contemporaneamente due comunità: quella di De Gasperi, Schuman, Adenauer e quella di Karl Deutsch. Continuando nelle nostre riflessioni, ci appare imprescindibile sottolineare anche l’importanza dell’interpretazione realista del processo di integrazione europea. La formazione della comunità europea ha infatti goduto di un apporto fondamentale da parte degli U.S.A., che sin dai lontani e forse dimenticati tempi dell’OECE e del Piano Marshall hanno incoraggiato e sostenuto il processo di integrazione, come modo non solo per evitare il rischio di un nuovo conflitto in Europa, che avrebbe costituito una sciagura di per sé, ma anche per far sì che l’Europa fosse più forte davanti al pericolo esterno che minacciava la comunità atlantica, ossia il blocco socialista guidato dall’U.R.S.S..
Tenere presente l’esistenza del blocco socialista è importante per comprendere le dinamiche sia politiche che economiche, più o meno istituzionalizzate, che presero avvio e si svilupparono in Occidente durante la Guerra Fredda, così come lo è nel nostro caso, dato che la percezione degli interessi e della posizione dei rispettivi Paesi, messa in luce dai governi francese e tedesco, si può presentare soltanto oggi che non esiste più la minaccia sovietica, essendo stata assolutamente inconcepibile fino alla caduta del muro di Berlino.
Concludendo queste nostre riflessioni cerchiamo di valutare quali potranno essere le conseguenze future della situazione descritta sul processo di integrazione europea. Ripetendo quanto detto all’inizio, non sembra il caso di essere catastrofisti e di prefigurare una spaccatura insanabile dell’Unione europea in tutti i suoi campi di competenza. L’Europa è ormai talmente integrata in molti campi che sarebbe una vera follia tornare indietro sui passi compiuti dal 1951 ad oggi, senza contare che le istituzioni europee vivono ormai in parte di vita propria e sono in grado di far valere i propri interessi sulle scelte di molti Stati membri. Tuttavia, i problemi emersi in maniera lampante negli ultimi mesi riguardano un settore fondamentale per ogni attore politico che voglia vivere e muoversi nel sistema internazionale: la politica estera e di sicurezza.
Circa le caratteristiche della futura politica estera europea, alcuni esperti osservatori quali Bonanate hanno prefigurato per l’Unione un avvenire da potenza normativa, diversa dalle storiche potenze proprio perché né Stato né non-Stato, ma sintesi politica inedita, con caratteristiche mai riscontrate prima. Messa da parte l’obsoleta e vaga nozione di interesse nazionale, l’Unione europea non sarebbe portatrice di alcun interesse proprio, se non quello di mostrarsi al mondo come esempio da seguire, testimoniando che la sua unificazione ne fa uno strumento di pace e di cooperazione. L’Unione europea, presenza e non potenza, non avrebbe da affermare una superiorità culturale o sociale e sarebbe strutturalmente impossibilitata ad entrare nel circolo della politica di potenza, potendo finalmente attuare ciò che gli Stati non sono mai riusciti a fare, ossia realizzare una politica estera democratica. Da questo punto di vista, la limitatezza congenita della politica estera dell’Unione europea non sarebbe un problema o un segno di scarsa identità, ma una qualità da apprezzare, restringendo i rischi di “spargimento di antidemocraticità”.
Seppure interessante e stimolante, la tesi appena citata non convince pienamente: dà comunque l’impressione che il carattere limitato della politica estera europea così come prefigurata non sia totalmente positivo e che incarni piuttosto una politica estera zoppa, non pienamente in grado di far fronte alle necessità del sistema internazionale odierno, in cui la capacità di intervenire anche con la forza non appare ancora una qualità del tutto inutile.
D’altro canto, sembra proprio che le linee scelte dai membri dell’Unione in questo periodo riguardo alla materia da noi trattata non vadano nel senso della tesi appena vista, ma ricalchino abbastanza le logiche abituali della politica internazionale, così come praticata dagli attori statali nei secoli passati. Nonostante gli auspici e le dichiarazioni rassicuranti della Commissione, sembra infatti che le vecchie forze strutturali tendenti a riportare il sistema internazionale in una situazione di equilibrio facciano sentire il loro peso sulle recenti linee di condotta di alcuni governi europei. Iniziative come il recente vertice sulla politica di difesa europea a cui hanno partecipato Germania, Francia, Belgio e Lussemburgo rafforzano la convinzione che all’interno dell’Unione europea esistano due visioni concettualmente opposte delle relazioni transatlantiche. Da una parte si ha la prospettiva del ‘bilanciamento’, sostenuta da Francia e Germania (sebbene vi sia su questo punto una notevole frattura all’interno del Bundestag per l’opposizione della C.D.U.), nel tentativo di riproporre la leadership di un asse franco-tedesco non più in sintonia con i tempi e inadeguato sia da un punto di vista militare che economico. Dall’altra vi è invece la posizione degli Stati più sensibili al mantenimento in vita della comunità euroatlantica di cui abbiamo parlato più sopra, il cui ruolo di “centro irradiatore di valori liberali e democratici” sembra tuttora importante, anche se le istituzioni che la incarnano (e pensiamo alla NATO), dovrebbero essere modificate per poter utilmente svolgere compiti più in linea con le necessità di oggi, magari non solo militari, ma anche di consultazione e di cooperazione politica.
In conclusione, ci sembra di poter dire, senza piacere o soddisfazione, che vari seri ostacoli ci separano ancora dalla nascita di una vera politica estera e di sicurezza comune e difficilmente vedremo uscire qualcosa di innovativo e particolarmente significativo dalla Convenzione europea su questo tema. D’altronde, sembra necessario sviluppare prima il progetto di una politica estera comune, con sue procedure decisionali chiare ed efficaci, che non quello di un’integrazione militare la quale, svincolata da una guida politica coerente, sarebbe inutile e insensata. Se tutto ciò si realizzerà all’interno della comunità democratica di sicurezza euroatlantica, saremo i primi ad esserne contenti.