La festa dei lavoratori è un momento privilegiato in cui riflettere sul lavoro che rimane la chiave di volta, la "chiave essenziale" - direbbe Papa San Giovanni Paolo II - "di tutta la questione sociale". Il primo maggio è l’occasione per festeggiare il lavoro come fattore di coesione, come fattore di generazione della vita personale e della comunità. Si tratta di una visione del lavoro che non solo la nostra Costituzione riconosce e valorizza, ma che pone a fondamento della Repubblica stessa. Troppo spesso, invece, il lavoro viene visto, percepito e vissuto come il luogo della rivendicazione e della contrapposizione. La contrapposizione tra classi, tra generazioni, tra occupati e disoccupati, tra famiglie, tra uomini e donne, oppure la rivendicazione di privilegi, camuffati da diritti, che sviliscono i veri e fondamentali diritti dei lavoratori. Così il lavoro rischia di diventare sempre di più un fattore di divisione e di esclusione.
I dati preoccupanti che emergono dalle statistiche ISTAT non si possono semplicemente ricondurre alla crisi epocale che stiamo attraversando e che ormai è diventata una comoda giustificazione dietro la quale nascondere le nostre scelte sbagliate o la nostra indisponibilità a metterci in gioco e cambiare. La crisi c’è e perdura, ma non è colpa della crisi se si stenta ancora ad andare verso una maggiore semplificazione normativa, se si guardano ancora con sospetto la contrattazione decentrata o la partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda, se la Garanzia giovani disattende le speranze che aveva suscitato o se i nostri servizi al lavoro sono inadeguati. Dovremmo superare la tentazione di credere che il lavoro si crei per decreto, una visione che ha portato alla proliferazione indiscriminata delle norme (a tutti i livelli), che ha trasformato le norme del diritto, che per loro natura sono degli strumenti, in feticci che non possono essere messi in discussione. Siamo ancora intrappolati in una mentalità che non mette la persona e la famiglia al centro della vita sociale, che non scommette sulla persona e sulle relazioni come primo fattore di sviluppo, che teme il coinvolgimento nel mondo del lavoro di soggetti diversi dallo Stato. Si tratta di una mentalità che ha le sua radici nella contrapposizione, nella divisione, nella riduzione della persona ad individuo.
Le relazioni nel mondo del lavoro sono segnate da una sempre più fittizia divisione tra imprenditori e lavoratori, come se entrambi non fossero protagonisti, pur con diversi ruoli e responsabilità, della vita dell'impresa. Il cuore dell'idea di partecipazione dei lavoratori a tutta la vita dell'impresa, non solo alla ripartizione degli utili, nasce dal riconoscimento del carattere di comunità di un soggetto economico, un riconoscimento che valorizza la responsabilità sociale delle imprese e che le libera dall'avere come unico parametro di giudizio il profitto. Allo stesso tempo la formazione e il lavoro sono concepiti come due mondi distanti, come se non ci fosse alcun rapporto tra il sapere e il fare, riducendo la conoscenza ad un insieme di nozioni e svilendo strumenti come l'apprendistato che in molti Paesi sono un canale privilegiato per l'occupazione giovanile. I giovani insieme ad altri soggetti deboli - donne, immigrati, diversamente abili, malati cronici, i cinquantenni che perdono lavoro - sono sempre più a rischio di esclusione dal mondo del lavoro e dalla vita della società. Sono loro le prime vittime delle contrapposizioni nel mondo del lavoro, tra chi è dentro e chi resta fuori, un'esclusione che ha come simbolo il triste fenomeno dei NEET che oggi rappresentano quelle periferie esistenziali verso le quali Papa Francesco continua a chiederci di andare. Il lavoro permeato dalla "cultura dello scarto", per riprendere gli insegnamenti di Papa Francesco, anziché essere la fonte di sostentamento della famiglia si è trasformato in una minaccia alla sua stessa esistenza, perché quando il lavoro non c'è le famiglie non possono formarsi o andare avanti, quando il lavoro c'è, invece, è così totalizzante che ne minaccia le fondamenta. Alla base di tutto questo c'è una visione utilitaristica dell'uomo, una visione che si riflette nel giorno del riposo che viene concepito come un semplice momento di pausa dal lavoro e non più come il momento delle relazioni.
A queste sfide devono rispondere le istituzioni e insieme a loro tutti noi. Aspettando riscontri credibili sul Jobs Act, occorre andare oltre la retorica degli annunci, la retorica degli slogan per dare concretezza a delle riforme vere, che siano durature e che diano certezze. Per uno sviluppo in grado di rilanciare il nostro Paese è necessario ripartire dal mondo del lavoro, dare fiducia a tutte quelle realtà che creano lavoro e favorire una buona occupazione. Non è più possibile persistere nell'errore di ridurre il principio di sussidiarietà a mera esternalizzazione dei servizi, di ignorare il contribuito dei corpi intermedi, di identificare il pubblico con lo statale come se la res publica non fosse una responsabilità di tutti. Il miglior augurio che si possa fare per il primo maggio, è che questa sia la festa dei lavoratori, ossia delle persone, delle famiglie, degli imprenditori, dei giovani, degli anziani, dei malati, degli immigrati, che il primo maggio sia veramente la festa di tutta la nostra comunità.
Giovanni Gut