Mentre la curva dei contagi continua il suo forte calo, facendo pensare ad un ottenuto controllo del virus salvo qualche preoccupazione residua nella operosa Lombardia, nel Paese permane l’incertezza.
Le esortazioni, anche autorevoli, ad avere fiducia, il dilagare della comunicazione con il suo sterminato elenco di risorse per interventi a pioggia, la fine del difficile “restate a casa” con la ripresa della possibilità di muoversi, l’avvicinarsi delle immancabili vacanze estive, il ritorno al lavoro di molti, insieme ad altri segni positivi non riescono a cancellare la diffusa sensazione di un futuro prossimo avvolto dalle ombre.
Ci avverte di ciò il dato macroeconomico che riflette il crollo dei consumi ed un inaspettato crescere dei “risparmi”. Ancora di più il rischio di scomparsa, segnalato dal presidente di Confcommercio, per 270 mila aziende. Come anche il duro scetticismo critico di Confindustria e le riserve di Banca d’Italia.
Ne abbiamo una sensazione diretta quando, andando a fare colazione al bar, constatiamo che i lavoratori più anziani sono rimasti a casa - spesso senza aver ricevuto ancora la Cassa integrazione - “scartati” perché più costosi nella retribuzione; quando saliamo su autobus spesso vuoti, o percorriamo i marciapiedi delle nostre strade ancora libere dagli “ambulanti” ed ogniqualvolta, entrando al supermarket, ci viene presa la temperatura. Stessa incertezza ci pervade perché in famiglia siamo abituati a pensare che i fondi impegnati dal governo, cioè i debiti, richiedono sacrifici per restituirli; ne abbiamo l’evidenza perché non possiamo più riunirci - se non con procedure di pignolo controllo sanitario - nei circoli o nelle parrocchie, dove ci si scambiava idee e si lavorava nel sociale; ci aggredisce quando ascoltiamo in televisione le previsioni di biologi e di inadeguati organismi internazionali sulla “seconda ondata”.
Anche lo stereotipo diffuso che “nulla sarà come prima” non ci tranquillizza, perché per affrontare un cambiamento occorre sapere dove andare e le stesse istituzioni, per non parlare degli scienziati, sembrano aver smarrito la strada o indicarne, di continuo, nuove e diverse.
Anche pubblicazioni dedicate alla geopolitica come Limes scrivono che “viviamo nell’incertezza radicale” e che “nessun italiano sano di mente può pretendere di conoscere il nostro futuro”.
E se il futuro è incerto perché le variabili, sia interne che internazionali, sia economiche che sociali, possono essere tante, quello che ci deprime è che da molto tempo un subdolo relativismo etico e sociale, ha contribuito a portarci via anche l’unica certezza che non dipende da altro che da noi stessi, cioè quella fiducia in noi che derivava da principi e comportamenti che hanno sfidato i secoli e che in ultima analisi consisteva nella confortante certezza di non essere soli, che non saremmo mai stati soli, che la nostra stessa natura non era dovuta al caso, ma ad un disegno provvidenziale.
E quale altra certezza aveva animato lo spirito con il quale, come popolo, ci risollevammo da catastrofi oggi quasi inimmaginabili, se non quella della gioia di vivere insieme, in una collettività solidale, in una fede diffusa e sentita. Massimo Fini, lo scrittore ormai cieco, a proposito di come eravamo nel dopoguerra, ha ricordato quella “solidarietà” che “in questi due mesi ho visto pochissimo” e che “non è qualcosa che si cala dall’alto”. Oltre alla “povertà”, ha scritto, ciò era dovuto al fatto che, ad esempio una città come Milano, “pur essendo strabombardata era una grande capitale, ma rimaneva una città di quartieri e nel quartiere ci si conosceva tutti. Se un famiglia era un po’ più in difficoltà delle altre lo si sapeva e la si aiutava come si poteva”.
Si sta andando, oggi, in una direzione opposta. Alla comunità di destino si impone di diventare una comunità basata sulla tecnologia, senza neppure tentare di dare una forma alla sua evoluzione informatica. La martellante insistenza commerciale sui video giochi, per indurli ad un ulteriore successivo condizionamento informatico, sospinge i giovani a stare a casa anche quando si divertono per, poi, smarrirsi nella movida ed altro. Il lavoro, per ragioni pratiche, si svilupperà come smart working nell’ambito domestico, con la riduzione dell’aspetto comunitario che, alcuni, ritengono positivo per la famiglia, ma che comporta una impropria sovrapposizione del senso dell’abitare i luoghi della massima socialità, cioè la casa e l’ufficio.
E’ il trionfo di un individualismo che vive sugli algoritmi e che non riesce a mitigare l’incertezza con una vera socialità. Ci si è dimenticati dell’idea di persona, sulla quale si fonda la Dottrina sociale della Chiesa. La capacità di affrontare il futuro non può derivare da una sorta di lotta per la sopravvivenza, ma da uno stare insieme e da una vicinanza delle istituzioni, dalla famiglia allo Stato, in scala sussidiaria. Senza riferimenti profondi, l’“andrà tutto bene” non può essere né un convincimento, né la speranza di essere in grado di ricostruire, ma appare come uno slogan imposto, una invenzione del persuasore occulto, perché non regge alla domanda su cosa possa fondarsi.
Abbiamo bisogno di riscoprire il valore della generatività come quella che Francesco definisce sul piano del lavoro: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano… è la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno… il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia e clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti costituiscono una molla di progresso altrettanto potente ”.
La sfida di ognuno di noi è tutta in questa rinnovata capacità di impegnarsi e della solidarietà che ne deriva. Non ci può arrivare dall’alto anche perché il vuoto della politica vera è stato sostituito ed occupato, lo rende evidente una immagine efficace, dal potere del “capo dell’amministrazione”, cioè da una alta burocrazia che si “autoproclama dominante”.
Per quanto ci riguarda, come MCL, lo spazio nel quale ci dobbiamo misurare è quello di una generatività associativa: mostrare e creare solidarietà. Vivere con forza una ecclesialità responsabile, mostrare il dono dell’amicizia, diffondere la gratuità del gesto, sviluppare i servizi, curare la formazione dei giovani, ampliare i punti di riferimento nei territori, contribuire a rimettere in ordine i valori, auspicare una buona politica e una sussidiarietà istituzionale.
Continuare la missione che ci è stata data, oggi quanto mai necessaria per curare l’incertezza e per contribuire ad illuminare la strada giusta da percorrere.
Pietro Giubilo
Vice Presidente Fondazione Italiana Europa Popolare