La lettura del giornale ha smesso da tempo di essere l'hegeliana “preghiera mattutina” dell'uomo colto. Non è certo una notizia la perdita d'incidenza del giornalismo rispetto alle dinamiche politiche, soprattutto in termini d'indirizzo dell'opinione pubblica. I giornali restano, però, un elemento di marcatura nel risiko del capitalismo relazionale italiano, che ha ancora nell'editoria un proprio “gioco di società”. Guardare ai giornali, quindi, consente sempre di cogliere il posizionamento nelle partite in atto e le volontà di pesare rispetto alla politica, che c'è e che si vorrebbe, di quella che un tempo si sarebbe chiamata “razza padrona”.
Non si tratta solo di leggere quanto va in pagina - e di riflettere, nel confronto tra testate, su ciò che non trova spazio - ma anche d'interrogarsi sulle nomine nei posti chiave, direttori in testa.
A questo proposito ha suscitato clamore, per ora lasciato sopire, la turnazione ai vertici delle redazioni nel Gruppo Giano (attraverso cui il mondo Fca controlla La Stampa, Repubblica e corollari). Gli esperti in materia, non solo gli isterici nostrani esperti del retroscenismo, ci hanno visto il tentativo di costruire “divisioni mediatiche” pronte ad agire, anche con tecniche da Genio guastatori, per ridefinire il quadro politico italiano. Sull'altro fronte, un Cairo che non ha mai davvero abbandonato la tentazione di una discesa in campo, lascia che il Corriere della Sera continui a muoversi con la propria proverbiale costante capacità di non indossare troppo a lungo un abito per riuscire a trovarsi pronto qualunque sia la moda del momento (un po' anticipando e un po' subendo).
Scomparsi i partiti, insomma, le élite s'industriano nel “rule game” del ri-assemblamento di avatar politici funzionali alla loro perpetuazione.
Lo scontro, nemmeno troppo sottotraccia, è quello tra i sostenitori della progressiva ridefinizione “di sistema” del “debolmente forte” Conte e i propugnatori, non uniti fra loro, dell'unità nazionale intorno a Mario Draghi (“la bottiglia è nel mare”, alle prese con i marosi della politica nazionale, come Francesco Verderami fa dire a Giancarlo Giorgetti, non a caso sul Corriere).
Stante all'amplissima intervista di domenica 3 maggio, realizzata dal neodirettore Massimo Giannini, icona di certa sinistra in un giornale che di sinistra non è davvero mai stato, La Stampa pare attestarsi sulla prima linea.
Le tentazioni “draghiste” sono sicuramente forti al Corrierone. Dopo essersi bruciati con l'esperienza montiana, però, le tinte sfumate sono quelle che portano di più in questa stagione dell'incertezza.
Più difficile interpretare cosa possa dire - e determinare - Repubblica, affidata all'occidentalista Maurizio Molinari probabilmente per smontare quella “certa idea dell'Italia” che il foglio scalfariano ha sempre cercato d'interpretare (quando non imporre).
Da evidenziare, in tutto questo, l'incapacità del dilaniato Pd zingarettiano di esercitare, almeno in farsa a la Veltroni, una qualche egemonia nelle “case matte” del sistema informativo. Una faccenda che dimostra l'esaurirsi, forse definitivo, di capacità di spinta propulsiva.
Al netto della “mosca cocchiera” rappresentata da “Il Foglio” tutto preso dall'estetizzante - per quanto non del tutto irricevibile - battaglia anti-trucista, la rive droite del mondo informativo (Il Giornale, Libero e La Verità) sembra limitarsi a far da “cassa di risonanza” a un generico sentimento reattivo, in una concorrenza simile a quella tra tabloid d'Oltremanica, senza preoccuparsi della costruzione di una densa visione altra.
Leggere i giornali, nel senso di coglierne le linee, ci restituisce l'impressione che sia in atto il tentativo ingegneristico di condizionare, da parte di chi li controlla, una politica malata di sradicamento.
Servirebbe suscitare vocazione a un giornalismo altro, ad esempio nel mondo cattolico, Ma questa faccenda la lasciamo a una prossima “predica inutile”.
Marco Margrita