Nei prossimi mesi, liberi fortunatamente da impegni elettorali, la politica potrà concentrarsi sulle scelte economiche e sociali fondamentali per immaginare l’Italia del domani e del, ci auguriamo a breve, post covid. In uno scenario, però, in serissimo peggioramento sul fronte del lavoro e della disoccupazione. Solo pochi giorni fa si prevedeva l’avvicinarsi alla soglia del milione di disoccupati. La Cgia di Mestre ha individuato in 3,6 milioni i posti di lavoro in bilico e che potrebbero andare perduti. E ancora, il ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, la lanciato l’allarme: a fine anno, al Sud, si conteranno 800mila disoccupati in più. Uno scenario da incubo che potrebbe essere la causa di una gravissima crisi sociale. Il fronte del lavoro richiede, dunque, un’attenzione tutta speciale, non solo da parte del governo e delle rappresentanze sindacali e datoriali, ma di tutti i corpi intermedi del Paese, Mcl compreso. Ma è altrettanto urgente che, a fronte di tanti numeri e previsioni, il governo si faccia carico, in trasparenza, di un’operazione verità.
Ma procediamo con ordine.
Il nostro Paese arriva a questo momento in un quadro complessivamente già complesso come viene evidenziato anche nelle linee guida per il recovery plan elaborato dal governo Conte.
L’Italia soffre, infatti, di un’insufficiente crescita economica, acuita dalla crisi finanziaria globale del 2008 ed ancor più dalla crisi del debito sovrano dell’area euro nel 2011. Questo fattore ha, indubbiamente, avuto, in questo ultimo decennio, notevoli ripercussioni negative sul benessere dei cittadini e sulle disuguaglianze sociali, territoriali e di genere. Il Sud e le donne, come tristemente noto, sono sempre i primi ad essere colpiti dalle crisi.
Dai primi anni Duemila, poi, la crescita del Pil è risultata nettamente inferiore alla media dei Paesi avanzati, in corrispondenza di un basso incremento della produttività almeno in parte spiegabile da gap tecnologici ed educativi.
Si pensi come, lo sottolinea anche l’esecutivo nel suo piano per la ripartenza, la spesa per ricerca e sviluppo (1,35 per cento del Pil nel 2017) sia significativamente inferiore alla media europea (2,06 per cento del Pil).
Parimenti i risultati scolastici misurati da test internazionali sono inferiori alla media dei Paesi Ocse ed Unione Europea, così come lo è la quota di popolazione in possesso di una laurea (27,6 per cento contro 41,3 per cento nell’Unione), mentre l’incidenza dell’abbandono scolastico si attesta, ahimè, al 13,5% contro il 10,6% della media europea.
In questo quadro il tasso di partecipazione al lavoro e il tasso di occupazione dell’Italia sono i più bassi a livello europeo ad eccezione della Grecia, con un gap particolarmente sensibile per l’occupazione giovanile e femminile. Sono, infatti, assai elevati il tasso di disoccupazione giovanile (31,1 per cento nella rilevazione di luglio 2020) e la percentuale di giovani neet ossia che non studiano né lavorano (22,2 per cento nel 2019).
In questo contesto già nel 2019 la Commissione Europea chiedeva al nostro Paese di garantire che le politiche attive del lavoro e le politiche sociali fossero efficacemente, e maggiormente, integrate e coinvolgessero soprattutto i giovani e gli altri principali gruppi vulnerabili.
In tal senso si dovrebbe operare, sempre secondo Bruxelles, per sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso una strategia globale, in particolare garantendo l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia e a lungo termine di qualità senza i quali la conciliazione tra vita e famiglia rimane solamente un’utopia. Si auspica, quindi, di investire, allo stesso tempo, per migliorare i risultati scolastici, anche mediante adeguati investimenti mirati, e promuovere il miglioramento delle competenze, in particolare rafforzando le competenze digitali.
Nel recovery plan sembra, insomma, partendo anche dai suggerimenti europei, tutto abbastanza chiaro. Oggi bisogna, però, trasformare quei principi, ampiamente condivisi, in programmi concreti per evitare, per quanto possibile, la crescita del numero dei disoccupati nei prossimi mesi ed anzi riqualificare i troppi, non solo giovani e donne, ancora fuori dal mercato del lavoro.
I progetti, però, non si scrivono, o almeno non lo si dovrebbe fare, chiusi nelle stanze dei ministeri ma dialogando con le forze politiche (anche di opposizione), le amministrazioni locali di qualsiasi colore, le parti sociali e, perché no, con il terzo settore. Dunque, è realistico attendersi che l’annunciato Patto per l’Italia trovi interlocutori attenti, consapevoli e soprattutto collaborativi e creativi.
Giancamillo Palmerini