Ue e Mediterraneo: cooperazione con la società civile nell'ambito del dialogo sociale
Atti del Seminario Internazionale di Studi
Palermo, 2- 3 - 4 aprile 2004
INDICE:
- Introduzione di Carlo Costalli
- Intervento di Vittorio E. Parsi
- Intervento di S.E.R. Mons. Foad Twal
- Intervento di S.E.R. Mons. Giampaolo Crepaldi
- Intervento di Chibli Mallat
INTRODUZIONE
CARLO COSTALLI
Presidente Generale Mcl
Il Seminario Internazionale di Studi che si è tenuto a Palermo il 2, 3 e 4 aprile sul tema “Unione Europea e Mediterraneo: cooperazione con la società civile nell’ambito del dialogo sociale” è stato una tappa importantissima nel lavoro che il Movimento Cristiano Lavoratori sta facendo, da anni, per rilanciare il partenariato e la cooperazione euro-mediterranea.
Prima di essere una formula politica, l’idea del partenariato corrisponde per noi a un modo di vivere ed interpretare i rapporti fra le due rive del Mediterraneo, ma anche ad una modalità operativa con cui affrontare, nella cornice del dialogo, i fattori di squilibrio che oggi pesano sulla regione. Per cercare di favorire questo tentativo nuovo e soprattutto per affiancare i Governi e gli Enti internazionali, il Movimento Cristiano Lavoratori ha da tempo intrapreso un lavoro che tende a promuovere e rafforzare il ruolo della società civile anche in quei Paesi.
Il superamento di questi squilibri è una vera e propria premessa perché si crei nel Mediterraneo un’area di pace e di stabilità, di dialogo, di prosperità condivisa e di crescita, nel rispetto e nella cooperazione reciproca.
Il partenariato, quanto più si consolida nella sua efficacia e nella sua forza, tanto più saprà essere un ‘esercizio a tutto campo’, che tenga conto della collaborazione fra governi ma che si sviluppi e tenda poi ad allargarsi, per radicarsi ancora meglio e realizzarsi concretamente. E’ indispensabile però superare una visione ‘elitaria’ del partenariato che deve invece essere ‘avvicinato’ alle società civili e alle realtà locali per garantirgli dinamismo e visibilità.
Sono convinto che riusciremo a rilanciare il processo di Barcellona solo se sapremo farne un esercizio vivo. Se vogliamo conferire un senso politico ed una prospettiva storica al partenariato, se veramente crediamo che i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo siano portatori di cultura, interessi, opinioni, che si devono armonizzare, allora dobbiamo adottare tante iniziative concrete, il più possibile aderenti alle sensibilità dei popoli. Dobbiamo saper raggiungere il più grande numero possibile di cittadini, favorire l’accesso all’informazione, favorire il formarsi di opinioni pubbliche consapevoli, nemiche dei pregiudizi culturali, amiche invece del rispetto delle identità, curiose, interessate alle differenze che sono un valore che arricchisce. Senza iniziative concrete, soprattutto di collaborazione e di dialogo, mai riusciremo a costruire una solida e reale partnership tra le due sponde del Mediterraneo.
Determinante in questo contesto, come emerso al Seminario di Palermo, è senza dubbio il ruolo ecumenico delle Chiese, anche per la sicurezza del Mediterraneo.
Il Movimento Cristiano Lavoratori ha lanciato, proprio a Palermo, anche una proposta concreta. Un’idea forte, che potrà offrire uno spiraglio di speranza , pur davanti alla crescente spirale di violenza e di sangue che il terrorismo innesca. L’Europa deve prendere coscienza che è indispensabile un Commissario per il Mediterraneo, con le sue strutture, così come abbiamo avuto un Commissario per l’Allargamento! L’area del Mediterraneo deve costituire per l’Unione Europea una priorità, esattamente come l’allargamento.
Dobbiamo renderci conto che la distanza fra Parigi e Algeri è inferiore a quella fra Parigi e Varsavia. E quella tra Roma e Tunisi è inferiore a quella tra Roma e Bruxelles. La geografia non è un optional e quindi avere le strutture (e un Commissario) per essere più attenti alle zone geografiche più vicine a noi, Mediterraneo e Balcani in testa, mi sembra essenziale.
La proposta del Movimento Cristiano Lavoratori nasce dalla presa di coscienza che il Mediterraneo, da sempre luogo di dialogo e di scontro, non riceve le attenzioni dovute da parte dell’Unione europea. L’Europa sembra non accorgersi che essa è chiamata dalla storia ad occupare, ancora una volta, un ruolo e una responsabilità centrali nell’arena politica internazionale.
L’Europa deve, che lo voglia o no, se vuol essere minimamente realista, tradurre in fatti le parole ‘da Convegno’, in cui purtroppo si sono arenati finora il processo di Barcellona e il dialogo euro-mediterraneo. Per questo motivo, il messaggio comunicato dalla nomina di un Commissario europeo non può neanche lontanamente essere paragonato a quello dato dalla nomina di un Direttore generale prestato ad una task force tutta interna alla burocrazia di Bruxelles. Per capire di cosa si tratta è sufficiente pensare alla differenza esistente, in primo luogo per i diretti interessati ma anche per l’opinione pubblica in generale, fra la costituzione di una Direzione generale per gli italiani all’estero presso la Farnesina (che peraltro lavorava già da decenni) e la nomina di Mirko Tremaglia a Ministro per gli italiani all’estero. Gli italiani all’estero si sentono finalmente considerati.
E’ giunto il momento di verificare se le teorie su una politica estera ‘diversa’, ‘europea’ nel senso di qualitativamente differente da quella statunitense, o addirittura da quella sinora attuata da qualunque Stato, diano un minimo di solidità. Si tratta di far comprendere a chi sta dall’altra parte del confine, che tale linea di demarcazione traccia un limite che non è teso ad escludere qualunque cosa stia fuori.
Ben venga l’interdipendenza, in un contesto di dialogo, di avanzamento democratico, di reciproca tolleranza, ma è indispensabile elaborare iniziative finalmente concrete ed essere intransigenti con i tentativi di prevaricazione.
Il Commissario che proponiamo dovrebbe rappresentare un punto di riferimento per le società civili delle due sponde del Mediterraneo, dovrebbe operare per tradurre in politica estera il principio di sussidiarietà orizzontale. Tale figura non dovrebbe essere soltanto una controparte europea per i governi degli Stati nazionali, ma dovrebbe formare un Ente capace di coinvolgere le società civili, non calandosi dall’alto su di esse, bensì ascoltandole, sostenendole, rafforzandole ed accompagnandole.
Questo processo è fondamentale, perché se è vero che serve più democrazia, è anche vero che essa può esistere solo in presenza di ciò che già Tocqueville, quasi due secoli fa, chiamava i “costumi democratici”.
PROF. VITTORIO E. PARSI
Docente di relazioni internazionali
Università Cattolica - Milano
è un piacere per me essere qui ad incontrare qualcuno che già conosco, e ad incontrare nuovamente Chibli Mallat e altri di voi.
Io mi occupo di relazioni internazionali e quindi il mio intervento sarà incentrato sulla questione della sicurezza. Come d’abitudine farò un’analisi estremamente cruda della realtà, ma premetto subito che il mio non vuole essere un intervento pessimista, sebbene rimanga convinto che per poter affrontare e risolvere i problemi sia prima di tutto necessaria la consapevolezza della gravità delle situazioni che abbiamo di fronte. E credo anche che soffermarsi sulla gravità dei problemi consenta di sottolineare l’importanza dell’audacia dei rimedi.
Di fronte a una situazione sufficientemente seria non possiamo pensare di venircene fuori con qualche bella parola: questo è il primo elemento che vorrei mettere sul tavolo della discussione.
Il secondo elemento che vorrei trasparisse da questo intervento – ancorché io mi occuperò un po’ meno di società civile, ‘per mestiere’, per così dire -, è che le soluzioni prevedono a mio avviso l’utilizzo di due leve, insostituibili l’una all’altra. Difatti, come non si può pensare di delegare tutto lo sforzo di un riassetto del Mediterraneo a quella che potremmo definire la ‘leva politica’ – ossia alle istituzioni, gli Stati, i Governi, come pure alle istituzioni sovranazionali, regionali o globali che siano – d’altra parte non si può nemmeno pensare che tutto quest’enorme peso riposi esclusivamente sulle spalle della società civile. Le due cose devono andare insieme e ognuna di queste due leve deve svolgere le funzioni che le sono proprie.
Negli interventi di saluto che mi hanno preceduto è stato citato il ‘dialogo euro-mediterraneo’: credo che tutti noi siamo d’accordo nel constatare come il concetto di dialogo euro-mediterraneo abbia assunto una drammaticità, diciamo negli ultimi dieci anni, sconosciuta precedentemente.
Quando il processo di Barcellona prese avvio, il dialogo euro-mediterraneo era una sorta di ‘contentino’, assegnato prevalentemente ai Paesi della parte sud dell’Europa, preoccupati come erano che l’espansione del nord-est dell’Unione potesse in qualche modo rendere marginale la loro rilevanza politica. Il dialogo di Barcellona era una cosa un po’… da convegno, per così dire, che produceva dichiarazioni più o meno ispirate, più o meno nobili, ma che era sostanzialmente poco rilevante.
Oggi invece tutti noi, quando parliamo di dialogo euro-mediterraneo, siamo consci di parlare di una esigenza ‘strategica’, che è quella di mettere in asse le due sponde del Mediterraneo.
C’è un aspetto che a livello complessivo è profondamente mutato nello scenario internazionale dal 1989 ad oggi: il Mediterraneo è tornato ad essere cruciale per la sicurezza e la stabilità del sistema politico internazionale, e non solo dei Paesi affacciati sul Mediterraneo.
Normalmente associamo – o almeno in questi ultimi dieci anni lo abbiamo fatto – la parola ‘Mediterraneo’, in termini di sicurezza, a fenomeni più o meno complessi e preoccupanti. Le emigrazioni innanzi tutto (o, più precisamente, le ricadute delle emigrazioni), che creano agitazione nelle società che ‘ricevono’ e impoverimento nelle società che ‘donano’, per così dire, emigranti; di conseguenza assistiamo magari a un arricchimento sul piano finanziario immediato, ma anche d’altra parte a un impoverimento nelle prospettive di sviluppo di quei Paesi. Abbiamo anche associato il Mediterraneo al riemergere dei fondamentalismi religiosi, al riemergere della guerra, addirittura, tra attori del nord e attori del sud; e lo abbiamo associato pure al fenomeno del terrorismo di carattere internazionale.
Direi che se mettiamo insieme tutte queste cose e cerchiamo di darne una lettura un pochino più sistemica, si nota un fenomeno importante, che è quello dello spostamento della linea di frattura del sistema politico internazionale, o se volete della sua dimensione di lettura. Infatti dal 1945 all’89 la dimensione è stata essenzialmente una dimensione est-ovest: quella era la dimensione cruciale della sicurezza; non perché gli altri posti non fossero importanti, ma era quella la partita centrale. E quindi era anche una dimensione intra-europea in senso largo; era cioè una divisione tutta all’interno dell’occidente: vi ricorderete tutti che chiamavamo ‘Europa dell’est’ la Polonia, Berlino, la Russia.
Oggi sicuramente non c’è – o perlomeno grazie a Dio non c’è ancora – una dimensione conflittuale così manifesta come era quella della guerra fredda, ma c’è una dimensione di ‘problema forte’, che vede il Mediterraneo come un bacino di conflittualità. Non solo quindi come un bacino di possibili scambi culturali e di cooperazione, ma anche un bacino che ospita i principali punti di attrito: uno è quello nord–sud, ossia sviluppo e sottosviluppo; l’altro è quello dei rapporti con il mondo islamico.
Possiamo rigirarci intorno quanto vogliamo, ma c’è un problema di rapporti tra mondo occidentale in senso lato e mondo islamico: è insomma il ritorno alla dimensione conflittuale. L’attuale fase di scontro quindi è pericolosissima e va depotenziata, ma non è un trend inarrestabile, non è una deriva contro la quale non possiamo fare niente, e per quanto grave sia non è un fenomeno unico, straordinario: siamo a una delle tante sinossi su cui ci ritroviamo a veder crescere la dimensione conflittuale. Detto questo, non va dimenticato che potremo sapere se avremo sorpassato la curva di conflittualità solo quando ne saremo fuori: questo naturalmente non vuol dire che senza fare niente se ne verrà fuori o che basta una spruzzata di buoni sentimenti.
Lo spostarsi della lettura dell’area di conflittualità, di crisi, di rischio del sistema, verso il Mediterraneo, ci fa subito avvertire due cose almeno: la prima è che spostandosi il conflitto, o meglio la potenzialità del conflitto, in un’area che può coincidere con uno scontro di civiltà (‘può’ coincidere, non ‘deve’ coincidere necessariamente), dovremmo costruire gli strumenti adatti a disarmare quelle ipotesi di scontro che siano multiculturali.
Per dirla francamente… come europei, come occidentali, non possiamo venircene fuori con ricette sperimentate in centinaia di anni di storia, in cui il ‘pallino’ della questione era comunque in Europa o in Occidente. Se ci stiamo confrontando con qualcuno nella storia che si colloca fuori da questa tradizione ‘europeista’, e se cerchiamo veramente delle categorie di dialogo, evidentemente quelle dovranno essere delle categorie che tengano conto di questa diversità.
Faccio un esempio perché potrebbe sembrare un discorso molto astratto, ma che ha invece delle implicazioni concrete che vorrei subito sottolineare: l’esperienza della tolleranza, della convivenza, della pluralità di sovranità, del dialogo tra diversi, l’esperienza dell’ordine nella diversità, in Europa come in Occidente, è passata attraverso la secolarizzazione: non c’è via di scampo, questa è la nostra storia. Il mondo smette di essere ossessionato dall’unità quando inizia a riconoscere che tutto sommato tradurre o non tradurre la Bibbia – la faccio molto semplice e mi scuserete per la banalità - non è un argomento lecitamente valido per lo scontro politico. Tutto questo porta alla fine della Guerra dei Trent’anni, la fine delle guerre di religione, il sorgere dello Stato e, non a caso, l’espansione dell’Europa è violentissima nei confronti del mondo: è l’epoca della colonizzazione. Cioè è uno snodo cruciale per noi.
Io non sono un arabista, ma ho la sensazione che se la ricetta con la quale andiamo a parlare di democrazia nel mondo islamico è: “Ok, la religione è fuori dal discorso politico”, non cambierà assolutamente nulla. La vedo difficile: sarebbe come andare da un americano e dirgli: “La sovranità non riguarda i cittadini, gli elettori, i tax payers”. E’ impossibile ragionare così, un americano ci risponderebbe certamente: “Allora non iniziamo neanche a discuterne!”.
Insomma, se dobbiamo accostarci a questo mondo dobbiamo farlo con la consapevolezza che la nostra esperienza, di cui possiamo essere fieri, è però solo la ‘nostra’ esperienza. E se vogliamo cercare un dialogo con questo pezzo di mondo dobbiamo tener conto della ‘loro’ esperienza. Il che non vuol dire (non vorrei essere frainteso) che bisogna essere arrendevoli, cioè ‘vogliamoci bene’ e basta: il mio è un discorso di pura analisi, amici miei. Che poi noi possiamo condire – come io faccio – di buoni sentimenti, ma che in effetti sta semplicemente nelle cose.
L’ulteriore considerazione legata alla centralità del Mediterraneo è che un conflitto di lunga durata, assai gravoso - ma che è sempre stato, almeno fino all’89, un conflitto regionale e periferico rispetto all’equilibrio internazionale - diventa oggi centrale: mi riferisco al conflitto israelo-palestinese.
Non possiamo più trattare il conflitto israelo-palestinese come un grave scontro regionale: se la tensione del mondo passa per quell’area, e se in quell’area la risoluzione di questo conflitto è ritenuta un elemento cruciale, quasi una misura dell’equità del nostro atteggiamento rispetto ai problemi, noi dobbiamo necessariamente cambiare registro. Anche in questo caso non è una questione di simpatia o di antipatia, secondo me: semplicemente è nelle cose, c’è un baricentro che si sposta e quindi rende ‘quella cosa’ centrale.
Questo ritorno della centralità del Mediterraneo in termini di sicurezza, chiaramente non è un processo che si realizza in un giorno, ma inizia, non a caso, nel ‘90-’91, all’epoca di quella che noi chiamiamo ‘la prima guerra del Golfo’ (ma che sarebbe più corretto chiamare ‘la seconda guerra del Golfo’, per ricordarci del gravissimo conflitto tra Iraq e Iran).
Se ci pensate bene, la guerra del ‘90-91 è la prima guerra che vuole lanciare un progetto di risistemazione complessiva dell’ordine mondiale (dopo la guerra fredda), che si svolge fuori d’Europa. Cioè: per centinaia di anni – tenendo conto pure della centralità oggettiva dell’Europa –, i grandi conflitti di sistemazione dell’equilibrio mondiale si sono vinti e persi in Europa. Bene, nel ‘90-’91 il primo grande conflitto per il nuovo ordine mondiale nasce e si sviluppa in Medio Oriente, quasi a segnare un passaggio di testimone rispetto alla crucialità di un’area diversa.
Tutto questo è provocato anche dal progressivo mutamento di atteggiamento da parte degli Stati Uniti nei confronti della regione mediorientale. Gli Stati Uniti, dal ’90-‘91 e fino a tutto il 2001 grosso modo, reagiscono infatti in maniera quasi schizofrenica di fronte a un evento che si produce - cioè la centralità di un’area : c’è un’incapacità marcata di produrre politiche coerenti, la cui ragione principale sta (e lo dico con la massima simpatia per lo Stato di Israele), nel rapporto creatosi tra Stati Uniti e Israele, che rende qualunque politica americana nel Medio Oriente sostanzialmente priva di credibilità agli occhi del mondo arabo (non necessariamente musulmano).
Anche questo è un elemento che va tenuto in debito conto, perché complica ulteriormente il puzzle. E’ come se dicessimo che, tutto sommato, fino al 1989, se pure c’era stata una qualche incoerenza nei confronti di Israele e del mondo arabo…pazienza! In fondo si trattava di una ‘periferia’ (passatemi il cinismo volutamente marcato). Ma dal ’91 in poi l’incoerenza diventa come giocare con la benzina vicino al fuoco, diventa qualcosa che non è più sopportabile. Ripeto, non parlo di sopportabilità in termini etici, politici, ma in termini concreti, tecnici.
Il 2001 cambia in modo radicale la lettura degli eventi, cambia nel senso che finisce l’intermittenza, finisce qualunque dubbio: il 2001 segna per alcuni aspetti l’esplosione visiva del fatto che il Medio Oriente è un’area in cui esistono grossi problemi che devono essere affrontati e risolti. Ed è anche l’anno in cui si verificano alcuni fatti importanti soprattutto all’interno dell’amministrazione americana (sottolineo questi aspetti perché l’amministrazione americana è il governo del Paese più rilevante per la stabilità internazionale): in primo luogo mi pare che ci sia un cambiamento dell’approccio concettuale e strategico da parte degli Stati Uniti nell’inquadrare gli eventi mondiali.
Ossia, gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, tirano fuori delle categorie alla cui luce ‘re-inquadrano’ il sistema politico internazionale: categorie che sono, per citare quelle più conosciute, la ‘guerra preventiva’, il concetto di ‘Stato-canaglia’, quello di ‘Stato-fallito’, il concetto di ‘asse del male’… e non sono solo parole! Noi siamo abituati a pensare che siano solo delle intemperanze verbali, ma non sono solo questo: sono invece categorie in cui si inquadrano i problemi, si analizzano, e quindi poi si perseguono soluzioni che tengano conto del ‘nome delle cose’, per dirla un po’ alla Umberto Eco.
Ed è immediatamente chiaro il fatto che, siccome lo choc del 2001 ha una matrice per così dire ‘mediorientale’, l’impatto della revisione strategica degli Stati Uniti non è solo teorico, soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente. Noi possiamo discutere, come europei, se il concetto di ‘guerra preventiva’ è più o meno vicino al concetto di ‘colpo preventivo’; possiamo anche ragionare sul fatto se quello che gli americani hanno fatto in Iraq è simile a ciò che Cesare fece nella Gallia prima che i Galli si organizzassero e lo invadessero a sua volta. Possiamo addirittura discutere all’infinito se la tale o la tal altra lite politica sia apprezzabile o rispettabile: nel nostro caso si tratta solo e comunque di concetti teorici.
Ma l’impatto della revisione di impostazione americana sulla politica mondiale, e sul Medio Oriente in particolare, ha invece significato cose molto concrete: una per tutte, la guerra in Iraq.
Ora, anche questo, se ci pensate, significa ribadire nuovamente la centralità di quel teatro e la contemporanea emarginazione del teatro europeo: noi non siamo più ‘sul fatto’.
Faccio presente che il Governo americano assegna al fondamentalismo terrorista un ruolo che è al contempo di minaccia mortale per le democrazie e di minaccia per la pace generale del sistema. Quindi assegna – e non ci interessa ora sapere se è giusto o sbagliato, ma solo rilevare un dato di fatto – a questo fenomeno un livello di gravità, una ‘magnitudo’ per così dire, superiore alla minaccia comunista durante la guerra fredda. Anche qua, non è che ci voglia una laurea in ingegneria per capire che dopo l’11 settembre 2001 è ovvio che la reazione americana sia esasperata su questo punto; in tutto il periodo della guerra fredda l’America non patisce un danno paragonabile, e quindi…
Nel periodo dal 1990 al 2001 si producono a mio avviso tre fratture grosse in termini sistemici: la prima è quella che io definisco la progressiva ‘ritirata e frammentazione’ del sistema politico internazionale; la seconda è la nascita di vuoti di potere nel sistema politico internazionale e la terza è il lancio di categorie che per la prima volta non derivano dall’esperienza ‘secolare’, per così dire, europea, nella gestione della politica internazionale.
Lo spiegherò molto brevemente. Quando parlo di ‘ritirata e frammentazione’ del sistema politico internazionale intendo dire che, se si va a guardare che cosa si è verificato progressivamente, la fine della contrapposizione tra est ed ovest (quella che fu chiamata “la fine della storia”), in effetti rappresentò l’apice di un movimento espansivo dei valori dati dal potere politico ‘europeo’, nelle sue versioni oltreoceano, sull’intero sistema politico.
Se vi ricordate, in nome dell’opposizione ideologica est-ovest, qualunque regione del mondo era interpretabile alla luce di chiavi di lettura ‘europee’: si poteva definire un Paese dell’Africa nera ‘comunista’ o un Paese arabo ‘occidentale’, semplicemente in base allo ‘schieramento di campo’, se così si può dire. Questa era una grande semplificazione rispetto alla realtà contingente, ma lo era anche rispetto all’interpretazione dell’intero sistema, e consentiva che il sistema stesso fosse ‘tenuto insieme’. E’ come se noi dicessimo: la grande lotta, interna alle culture occidentali, tra comunismo e liberalismo, per andare molto sinteticamente, era però al tempo stesso la grande ‘cucitura’ che teneva tutto il mondo insieme. Un po’ come quando si mettono i palloni nella rete porta-palloni: la maniglia è ciò che tiene insieme tutto il resto.
Nel momento attuale invece, almeno a mio avviso, noi possiamo vedere diversi sistemi politici e sotto-sistemi politici. Continuiamo ad avere un mondo, che è quello occidentale (l’Europa, l’America Latina, gli Stati Uniti, il Giappone), che continua ad essere un mondo regolato da istituzioni multilaterali, un mondo tutto sommato regolato dal common low, un mondo al cui interno la guerra è impossibile: neanche negli asperrimi momenti di tensione tra alcuni Stati europei e gli Stati Uniti, che si sono verificati in questi ultimi mesi, nessuno ha mai preso in considerazione uno scontro militare.
Esiste poi un altro pezzo di sistema, che è l’Asia, in cui la pace è anche qui altamente improbabile ma non impossibile. Si sta lavorando perché la questione coreana non degeneri, ma se dovesse degenerare è possibile ipotizzare un conflitto in Corea, così come è possibile ipotizzare un conflitto tra India e Pakistan. Vi è, cioè, un’area del mondo in cui il conflitto non è poi così lontano come idea, un’area del mondo in cui lo scontro avverrebbe tendenzialmente, però, per questioni di potere - un po’ come nell’Europa dell’800 -, e non per questioni ideologiche - come era nell’Europa del ‘900 -.
E poi c’è il Medio Oriente, che ha un sistema molto lontano dalla nostra esperienza, perché è un sistema in cui la questione religiosa non è stata ancora politicamente disinnescata - e forse non potrà mai esserlo, almeno nei termini che noi intendiamo -. E’ un sistema che potremmo definire ‘pre-westfaliano’, cioè ‘pre-pace-di-Westfalia’, rispetto ai nostri standard; un sistema in cui la religione è importante come segno di pace o di guerra.
Guardate, le religioni (non Dio, non la fede) sono quello che gli uomini le fanno essere, per cui la religione può essere uno strumento di pace ma può essere anche la bandiera nel nome della quale massacrare tutti gli altri: la storia ci dice che è stata utilizzata in questi due modi.
Ebbene, in Medio Oriente in questo momento la religione è ancora il principale motivo di divisione, o meglio ‘l’uso’ che se ne fa della religione, ché non voglio entrare in questioni di dogmi.
Poi c’è l’Africa che, come sapete tutti, è qualcosa di, ahimè, completamente alla deriva dal punto di vista del sistema politico internazionale: la fine della guerra fredda per l’Africa è stata un disastro.
Il prodursi di queste fratture, di questa parzialità dei sistemi, a mio avviso ha costruito dei ‘vuoti di potere’: questi vuoti di potere sono stati poi definiti come ‘Stati-falliti’, cioè luoghi in cui non c’è nessun tipo di autorità capace di monopolizzare la forza legittima, in cui non c’è un governo rappresentativo della società (e non ho detto ‘democratico’, ho detto ‘rappresentativo’, sia pure con tradizioni locali), e ancora luoghi in cui i rispettivi governi sono irresponsabili verso la comunità internazionale, nel senso che non sono capaci di garantire alla comunità internazionale il minimo che un governo dovrebbe garantire.
Sottolineo questo fatto perché in tutto il periodo della guerra fredda non è esistito un solo posto al mondo che sia stato definito uno ‘Stato fallito’: in tutto il periodo in cui l’opposizione era quella frontale fra est ed ovest non c’era un posto al mondo che registrasse un vuoto di potere, non c’era un posto al mondo che fosse ‘non importante’. Faccio solo due esempi rapidissimi: il primo è la Somalia, dove il simpatico dittatore Siad Barre, dagli anni ’60 all’89, passa rispettivamente dal campo degli Stati Uniti al campo dell’Unione Sovietica, poi ritorna al campo degli Stati Uniti, e il tutto sempre con la stessa dittatura. Non appena finisce il confronto globale la Somalia diventa invece uno ‘Stato fallito’ (ricordo l’operazione ‘restore hope’, a cavallo tra l’amministrazione Bush e l’amministrazione Clinton, uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale), e diventa uno ‘Stato fallito’ perché l’unica cosa che la Somalia aveva da offrire sul mercato della politica internazionale, la sua posizione, ormai non vale più niente.
Allora, questo ritirarsi dei sistemi, ognuno all’interno di una propria zona ‘comoda’, per così dire, provoca l’emergere di vuoti di potere perché gran parte degli Stati che una volta, ahimè, chiamavamo ‘terzo mondo’, esisteva in realtà solo in quanto la comunità internazionale (in forma giuridica ma soprattutto attraverso l’opposizione di potere), li sosteneva dall’esterno. Un po’ come una mischia di giocatori di rugby, una mischia ‘ordinata’: non so se l’avete mai vista… la mischia ‘tiene’ solo finché entrambe le squadre tengono duro, ma se una squadra cede tutta la mischia cede. Bene, pensate un po’, nella guerra fredda questo scontro era il dato che teneva tutto insieme. Alla fine della guerra fredda c’è solo una mischia che, per quanto forte, non può fare il gioco di due squadre. Così si creano questi vuoti di potere e in questi vuoti di potere si verificano dei fenomeni gravissimi.
Un altro esempio, molto rapidamente, è l’Afghanistan: pensiamo a quando l’anno scorso, o un anno e mezzo fa, la comunità internazionale nella sua completezza ha appoggiato gli Stati Uniti nel loro tentativo di distruggere Al Qaida, dopo l’attentato alle Twin Tours del 2001. L’Afghanistan è uno ‘Stato-fallito’ almeno da un decennio, eppure nessuno se ne calava più di tanto… e vi faccio presente che non è che l’Afghanistan fosse un posto che nessuno sapesse dov’era! L’Afghanistan era un posto importante, quantomeno perché simbolicamente aveva rappresentato il punto di innesto della crisi dell’Unione Sovietica, il punto di avvio della caduta di una delle due superpotenze, quindi non è che si poteva non sapere dove fosse. L’Afghanistan era un posto importante perché si sapeva che il suo regime, oltre ad essere un regime ampiamente illiberale e tutto quello che altro volete, era anche una centrale propositiva di propaganda del fondamentalismo islamico del più becero tipo. L’Afghanistan era un posto dove si sapeva che c’era la produzione del commercio internazionale di stupefacenti, essendo la lotta alla droga un elemento centrale della sicurezza nazionale dei principali Paesi dell’occidente. L’Afghanistan era quello che si sapeva essere un posto che ospitava terroristi – perché anche questo lo si sapeva già -: dopo gli attentati alle ambasciate americane in Africa il presidente Clinton e Tony Blair fecero bombardare il Sudan e l’Afghanistan, quindi non è che non si sapeva.
Eppure si è dovuti arrivare all’11 settembre perché la comunità internazionale, e soprattutto il più importante e potente membro di questa comunità, si decidesse a intervenire su quel territorio fallito.
La divisione del sistema internazionale in tanti sottosistemi, porta - paradossalmente ma con conseguenze molto gravi -, al fatto che ogni sottosistema si dà delle sue proprie regole. Così abbiamo un pezzo di mondo dove c’è molta istituzionalizzazione e un pezzo di mondo dove non ce n’è per nulla. E altri pezzi di mondo in cui le regole di comportamento sono differenti.
E però esistono attori che giocano partite in più sottosistemi, e che devono ogni volta misurarsi tra la coerenza interna rispetto al proprio sottosistema, e l’efficacia rispetto al sottosistema esterno in cui giocano. Banalmente, tanto per non fare sempre il caso degli Stati Uniti: se la Francia fa parte del sottosistema occidentale giocherà con certe regole, ma quando la Francia manda le sue truppe in Ciad, o in Congo, o in Uganda, giocherà secondo le regole del sistema africano, che sono completamente diverse.
Tutto questo espone continuamente la politica, tantopiù in un Paese democratico, alla schizofrenia: si perde cioè quell’unità, quella coerenza, che prima magari veniva cucita più o meno fittiziamente, ma che comunque funzionava dal punto di vista della logica, vecchio stile, della divisione ‘comunismo-anticomunismo’. Per cui quella era la coerenza, era la bussola, e tutto il resto non interessava.
Credo che questa sia una delle spiegazioni dell’estrema difficoltà degli Stati Uniti a costruire una leadership in questo decennio critico - dal ‘91 al 2004 -: anzi, paradossalmente, credo che qui sia la ragione della capacità dimostrata dall’America di erodere le ragioni della sua leadership. E’ la difficoltà di muoversi in scenari così diversi, tantopiù da quando gli Stati Uniti – da un paio di anni a questa parte – sono diventati essi stessi direttamente una potenza mediorientale: uno dei grandi cambiamenti post 2001 è infatti che gli Stati Uniti sono ormai una potenza anche in Medio Oriente. Cioè non sono più un attore globale che agisce indirettamente ‘anche’ sul Medio Oriente: sono piuttosto un attore mediorientale che gioca in presa diretta, e questo nuovo ruolo produce ciò che tutti vediamo.
Le conseguenze di questo scenario così complesso, a mio avviso sono almeno tre. La prima: la questione della difesa, della sicurezza, diventa ancora più importante e deve essere giocata a due livelli, come forse non siamo ancora abituati a giocare fino in fondo. Il primo è un livello di profondità: quindi la sicurezza domestica contro gli attentati terroristici. L’attentato di Madrid dimostra che non siamo attrezzati per una difesa in profondità, non siamo ancora passati da una difesa dei confini stile ‘guerra fredda’, a quella necessaria nel momento attuale. E non siamo abituati neppure a gestire questa cosa all’interno di un processo che salvaguardi i diritti civili, le libertà e tutto il resto, perché poi il problema è sempre quello… E dall’altra parte siamo invece costretti ad una difesa ‘avanzata’ della sicurezza, quindi a interventi distanti magari da quelli che sono i nostri confini nazionali, ma necessari a impedire conseguenze di eventi che si producono molto lontano.
Si tratta di affrontare il concetto della ‘guerra preventiva’ e di discuterlo: è impensabile la pura semplice esorcizzazione. L’esorcismo della guerra preventiva fine a se stesso è assurdamente inutile, servirà solo a far sì che chi può farlo continui ad agire, mentre noi non siamo in grado di produrre risposte diverse.
Secondo elemento connesso a questo, è che il tema della democratizzazione del mondo a sud del Mediterraneo, non è più una questione teorica, da convegno, ma è parte integrante della strategia indispensabile per evitare di essere coinvolti nelle guerre. E quindi l’enfasi cambia, così come cambia il ‘quantum’ siamo disposti a pagare per questo, cioè i rischi che siamo disposti a correre, quanto siamo disposti a impegnarci, quali sacrifici siamo disposti a sopportare: perché democratizzare un Paese del sud non è più una questione teorica, è una questione che riguarda direttamente la nostra sicurezza.
E terzo - e qui gioca un ruolo fondamentale la società civile -, serve la costruzione di reti di fiducia, che in questo momento non ci sono. Non sto parlando di episodici contatti tra persone benintezionate, sto parlando di ‘reti’, che vuol dire costruire un terreno di fiducia reciproca fra nord e sud del Mediterraneo.
In quest’ambito, secondo me, la società e le sue organizzazioni hanno un ruolo fondamentale perché è molto difficile costruire reti di fiducia attraverso la mano pubblica, attraverso lo Stato, ossia dall’alto: lo Stato infatti sarà sempre più coinvolto in operazioni diverse, più sgradevoli da prospettare. Capite? Sarà difficile realizzare tutto questo per via classica.
Preciso: sto forse dicendo che non sia necessario lavorare sulla parte ‘statualità’? No, non sto dicendo questo, e me ne guarderei bene! Anche qui – ed è l’ultima triade che vi dò – ci sono tre livelli che vanno considerati: il primo (su questo vado veloce perché in parte lo abbiamo già trattato) è rafforzare la statualità dei Paesi del sud.
In genere io mi irrito molto quando sento dire cose del tipo “dobbiamo trasformare la società degli Stati in una società dei popoli”: è una vera sciocchezza! Anzi, se c’è un posto che ha bisogno di una statualità forte, questo è proprio il sud. La realtà è che nel sud non c’è ‘troppo’ Stato, semmai c’è ‘poco’ Stato; quindi c’è molto potere e poca politica: ecco perché bisogna rafforzare le istituzioni pubbliche dei Paesi del Sud del Mediterraneo. Questo è fondamentale, altrimenti non avremo interlocutori a livello pubblico.
Il secondo elemento - che poi è a questo collegato - è una radicale riforma delle organizzazioni internazionali. Una per tutte è l’Onu: non si può più andare avanti con un’Onu che, così com’è, non serve a niente. Anche qui però, a mio avviso, si fa molta confusione e molta retorica, ma anche molta politica spicciola – parlo per i miei connazionali –.
L’Onu è due cose innanzi tutto: può essere un attore politico a livello globale (che coordina un intervento, che fa qualcosa per risolvere una questione), ed è contemporaneamente però – non scordiamocelo – una specie di ‘foro di discussione’, un decanter delle principali questioni internazionali. Durante la guerra fredda l’Onu è stato un pessimo attore globale perché non faceva niente (come ricorderete era bloccato dai veti). Però ha fatto una cosa fondamentale: adesso forse vi farò fare un salto sulla sedia, però l’Onu ha costruito una cultura della pace e del dialogo tra due nemici… non tra due amici o tra due che volevano diventare ‘amichetti’, non tra due che volevano andare in giro insieme… ma tra due nemici che volevano restare nemici e che volevano fregarsi a vicenda: l’occidente e il mondo comunista. E però l’Onu ha costruito una cultura del dialogo, progressivamente, che ha fatto sì che si costruisse quella fiducia minima per cui ‘la parola del tuo nemico è credibile, ma lui resta nemico’. Questo fanno le istituzioni: non pretendono di trasformarci in tanti San Francesco e Santa Chiara, ci lasciano così come siamo noi, intimamente, ma consentono ai nostri comportamenti di essere interpretati in maniera diversa. Ritengo che sotto questo aspetto bisogna insistere, perché c’è troppo atteggiamento ‘amoroso’ - e questo in qualche modo mi insospettisce -, e poco atteggiamento razionale.
Mi chiedo: oggi come oggi, posto che il rischio di fratture e di incomprensioni deriva dai rapporti tra nord e sud del Mediterraneo, qual è il luogo in cui questa frizione si decanta? Dov’è il luogo istituzionale in cui si crea un dialogo comune, un linguaggio comune? Da nessuna parte. Oppure, in istituzioni che contano come il due di picche quando la briscola è cuori, cioè in istituzioni che non contano niente o che sono del tutto marginali.
E’ un fatto che nell’istituzione che rappresenta al massimo il potere mondiale, questa divisione non è rappresentata: nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu continuano a sedere solo i vincitori della seconda guerra mondiale. E allora forse bisogna iniziare a riflettere se non sia il caso di iniziare ad ammettere nel Consiglio di Sicurezza, come membri permanenti sia pure senza diritto di veto, Paesi come il Brasile, il Sud Africa e l’India, tanto per citare tre democrazie del sud del mondo, piuttosto che aggiungere la Germania, la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, la Russia… non mi sembra una cosa così difficile!
Lavorare affinché un importante Paese arabo - una volta raggiunto uno standard minimo di democrazia, fissato però non in maniera coloniale - possa essere ammesso per esempio in un G9, sarebbe una cosa importante. Pensate, l’Egitto in un G9… significherebbe dar conto al mondo arabo che non stiamo qui a giocare e a parlare di sciocchezzuole, ma stiamo dicendo che la democrazia va bene per tutti e che è giusto che ognuno segua la sua strada, per cui non vogliamo trasformare gli egiziani in dei jeffersoniani del ‘700, ma anche che, una volta che uno raggiunge uno standard, ha diritto ad entrare nella ‘stanza dei bottoni’.
Il che poi vorrebbe dire depotenziare quell’enorme massa di frustrazione che credo ci sia legittimamente nel mondo arabo. Perché guardate che agli occhi ‘esterni’ le Nazioni Unite stanno tornando ad essere quello che erano nel ’45: un ‘club di bianchi’ sostanzialmente, simpaticamente divisi su alcune cose, ma anche un luogo in cui tutto il mondo ex coloniale non c’era nel ’45 e non c’è neppure oggi. Ora, si fa in fretta a distruggere un’istituzione che invece è primariamente un nostro interesse mantenere e rivitalizzare, facendo esercizio di realismo e non solo mostra di buoni sentimenti, che si possono mettere in vetrina in altre situazioni meno affollate, in linea di massima.
Terzo elemento della triade cui accennavo prima è quello delle ‘reti di sicurezza’: viviamo in un mondo in cui abbiamo reti di confidenza, di fiducia, un mondo in cui esistono reti di denaro, non c’è dubbio, un mondo in cui esistono reti di persone che emigrano, e anche su questo non c’è dubbio, un mondo in cui esistono reti di merci.
L’unica cosa che manca sono le reti di fiducia tra le persone: eppure noi ancora non stiamo lavorando, se non in maniera marginale, su questo punto. Invece questa è una dimensione cruciale, a mio avviso: perché se è vero che le sfide che abbiamo di fronte, in termini di sicurezza, sono quelle che abbiamo esposto nella prima parte di queste considerazioni, diventa allora cruciale disarmare la bomba della violenza, dell’incomprensione, attraverso la crescita del rispetto reciproco e della conoscenza. Alla quale magari, un giorno, chi lo sa, speriamo tutti che segua anche l’amore e il riconoscimento di essere tutti una famiglia umana.
Se mi permettete vorrei chiudere con un monito: non è per nulla importante che il giorno in cui tutti saremo consapevoli di appartenere alla famiglia umana, ci siano queste reti di conoscenza.
Se mi consente il Vescovo, potrei dire in modo quasi marxista “il giorno in cui la famiglia umana si riconoscerà” potremo sciogliere le reti di conoscenza, così come il giorno in cui tutti saremo uguali potremo sciogliere anche lo Stato… ma le reti di conoscenza, e quindi di fiducia, come anche i rapporti di fiducia, servono proprio adesso, nel momento in cui l’alternativa è solo la guerra, solo l’odio e solo la paura reciproca.
Ed è per questo che io credo che incontri come questo - e tutte le altre occasioni in cui è possibile far crescere questo sentimento -, siano fondamentali per cercare di allontanare sempre di più il rischio dello scontro e lavorare invece concretamente per avere sempre di più l’opportunità di un dialogo che diventi anche, al più presto possibile, incontro su basi paritarie.
Grazie.
S.E.R. MONS. FOAD TWAL
Vescovo di Tunisi
Presidente Conferenza Episcopale Nord- Africa
Buonasera a tutti, cari amici. Sono cosciente della vostra stanchezza ma faccio appello alla vostra pazienza. Non c’è dubbio che avrete ancora più meriti, nell’ascoltare un intervento in più!
Voglio esprimere innanzi tutto la mia gioia di essere con voi stasera e la mia gratitudine agli organizzatori di questo momento di incontro. A voi tutti il mio saluto cordiale e quello della mia amata Chiesa di Tunisi.
La ricchezza e la pluralità degli interventi preparati per queste due giornate mettono in luce le attese dei popoli, le potenzialità delle nostre religioni, le sfide e gli ostacoli che incontriamo per far trionfare la convivenza e lo spirito del dialogo.
Più che del ruolo ecumenico delle Chiese per la sicurezza nel Mediterraneo, poiché noi non facciamo parte della Nato, io vorrei parlare della nostra esperienza in una società musulmana e del nostro ruolo come Chiesa, come comunità cristiana, nel seminare armonia e convivenza nel Mediterraneo.
Gli arabi – musulmani e cristiani – hanno vissuto insieme quasi 1400 anni; nel passato ci sono stati momenti di scontro come pure di convivenza e di collaborazione.
Noi cristiani arabi, essendo parte integrante della popolazione, condividiamo la stessa cultura, la stessa lingua, la stessa società, lo stesso destino e le stesse aspirazioni per più pace, più giustizia, nonostante un contesto di violenza e di disperazione. Di là, come cristiani-arabi nasce la nostra vocazione di essere un ‘ponte’ tra il nostro mondo arabo e l’occidente.
Spesso veniamo interrogati sul senso della nostra presenza e della nostra missione in terra islamica. E’ vero, la società musulmana ha le proprie convinzioni che non sempre concordano con il nostro credo, e però d’altra parte il nostro compito come comunità cristiana in terra musulmana non è quello di cambiare tutta la società musulmana, ma di collaborare con le persone di buona volontà. Ogni passo in questo senso è un passo per la realizzazione del regno di Dio tra gli uomini, che è un regno di pace, di giustizia, di carità.
Tuttavia sarebbe impossibile vivere in un Paese, incontrarne gli abitanti, lavorare insieme per più pace e serenità, senza comunicare loro qualche cosa della nostra propria identità. Questo ‘comunicare qualche cosa’ si chiama ‘annunzio’ o ‘testimonianza’. In altre parole è inconcepibile vivere la nostra identità cristiana - osservando i suoi impegni per più pace, carità, giustizia -, senza che i nostri interlocutori musulmani se ne accorgano. Se si vuole, per il cristiano, anche arabo come nel nostro caso, si può parlare di un vero ‘impatto’ nei confronti dei musulmani, abituati a considerare cristiani solo gli europei.
Alcuni dati statistici sulla nostra situazione: di cattolici in Tunisi siamo circa 20.000, su una popolazione di circa 10 milioni di abitanti; siamo tutti più o meno stranieri, di 44 diverse nazionalità. Il fondamento dell’unità dei cristiani in Tunisia è lo stesso che condividete voi, cioè la comunione di fede, di speranza, di missione, e questo bel desiderio di collaborazione e di coabitazione. Gli italiani in Tunisia sono circa 3.500, hanno almeno 800 fabbriche, dove impiegano dai 37 ai 40.000 operai tunisini. Il primo partner commerciale della Tunisia rimane la Francia con il 28%, seguito dall’Italia che ha il 22% e dalla Germania con il 12 %.
Un cenno storico: dopo l’indipendenza del Paese, nel 1956, nel modus vivendi approvato dalla Santa Sede e dal Governo tunisino, alla Chiesa sono rimaste cinque chiese parrocchiali, alcune case religiose, una clinica che si chiama “Sant’Agostino” (la prima clinica privata in Tunisi), e nove scuole che accolgono tra i 5.000 e i 6.000 alunni, tutti tunisini musulmani, e queste scuole si chiamano ‘scuole cattoliche’, che fanno capo al Vescovo qui presente. Attraverso queste istituzioni nascono tra noi e i musulmani amicizie, contatti, fiducia e conoscenze reciproche.
Ecco, io vorrei aggiungere qualcosa a quanto è stato detto dal prof. Parsi: non giocano a favore del dialogo sociale e di vita gli attentati compiuti dai terroristi musulmani. Eh sì, sono colpevoli come lo sono pure coloro che li appoggiano e, peggio ancora, quelli che mantengono situazioni di ingiustizia che provocano il terrorismo. Tali atti alimentano una campagna mediatica internazionale sull’aspetto violento dell’Islam e rendono difficile il nostro dialogo. Non gioca a favore del dialogo neppure l’overdose di ingiustizia che caratterizza la non risolta questione palestinese, e la situazione attuale in Iraq. Tutto questo scatena i muri di separazione e di odio che si costruiscono in Palestina e che trasformano la gioia di vivere in un tentativo di sopravvivenza.
Si scatena così una repulsione da parte arabo-musulmana contro una politica occidentale deludente, capace di far nascere una crescente adesione al terrorismo internazionale. Ma d’altra parte si scatena anche una reazione arabo-musulmana contro gli stessi dirigenti arabi, incapaci di effettuare cambiamenti radicali verso una maggiore democrazia e una maggiore libertà di espressione.
Non crediamo più ai loro discorsi e questo provoca una sorta di autodifesa dell’identità musulmana, manifestata da più fanatismo, più pratica religiosa, più segni distintivi – il velo per le donne e la bella barba per gli uomini -. Ecco, questo è il contesto in cui ci muoviamo come Chiesa.
In questo insieme di condizioni la nostra situazione dovrebbe essere, per quanto possibile, quella degli albori del cristianesimo: fatta di discrezione e spirito di servizio, di assiduità agli insegnamenti degli Apostoli, in modo tale che ogni vita cristiana nella sua normalità diventi una missione, una vocazione.
Siamo chiamati ad essere uomini di pace secondo la raccomandazione che Gesù dà ai suoi missionari: in ogni casa in cui entrate dite prima di tutto “Pace a questa casa”. Prima la pace è raccomandata da Signore, poi il sociale, poi le critiche alla situazione, poi il partenariato.
Siamo chiamati ad essere ‘uomini di bontà’, come il buon samaritano, tantopiù che il nostro bel Mediterraneo, oggi più di ieri e più che mai, si presenta come un corpo malato, ferito, deluso da se stesso e deluso dai suoi abitanti, deluso dai suoi dirigenti, deluso dalla politica internazionale, deluso dai mass media.
Un corpo malato: dicevo prima che noi abbiamo una clinica, la ‘Sant’Agostino’, e quando arriva un paziente nella clinica non gli togliamo l’ossigeno, gli diamo invece più cura, più ossigeno, più attenzioni, più vitamine, per cercare di salvarlo. E’ questo quello di cui ha bisogno questo nostro povero, bel Mediterraneo.
Siamo uomini chiamati ad essere fedeli al primo comandamento, cioè all’amore verso Dio e verso il prossimo; il nostro annuncio, per essere efficace in questa massa musulmana, potrebbe e dovrebbe cominciare con il servizio agli uomini attraverso le istituzioni, le persone, e seguire l’esempio di Gesù che ha spogliato se stesso divenendo simile agli uomini e prendendo la condizione di servo. Se il Signore si è spogliato della sua divinità per essere unito a noi, possiamo anche noi, senza perdere la nostra identità cristiana e il nostro senso di appartenenza alla Chiesa, possiamo anche noi spogliarci del nostro orgoglio, del nostro senso di superiorità nei riguardi degli altri. Perché i buoni ed i cattivi esempi di comportamento si trovano tanto fra noi quanto fra gli altri.
Il servizio sociale e il partenariato tra le due sponde del Mediterraneo sono, anche queste, delle strade indispensabili per raggiungere la popolazione, per entrare in contatto, per collaborare con le persone di buona volontà. E’ un modo tra l’altro per non lasciare la parola unicamente ai politici, ai militari, con tutto il miglior rispetto per tutto il mondo.
Nell’attuale contesto internazionale fatto di paure, di incognite, la nostra piccola comunità cristiana vive l’esperienza di San Paolo, narrata nel 28° capitolo degli Atti degli Apostoli, il quale è fatto prigioniero e imbarcato su di una nave diretta a Roma, che viene colpita a Malta da una violenta tempesta. Lui, San Paolo, rischia la vita come gli altri, ma essendo per vocazione portatore di speranza, si interessa della sorte di tutti, prende iniziative, dà consigli per salvare la nave; tra lui e gli altri non esiste antagonismo ma solidarietà, condivisione della sorte. A questa convivenza, a questa solidarietà con i musulmani, siamo chiamati e inviati dal Signore. Attualmente siamo con loro nella stessa barca; con loro corriamo lo stesso rischio del terrorismo, della disoccupazione, dell’ateismo anonimo, della modernità, felice di vivere senza Dio. Come San Paolo siamo imbarcati in un Paese musulmano per dare la nostra testimonianza. La risposta alla nostra testimonianza non dipende da noi, ma dalla Grazia di Dio e dalla libertà delle persone.
Ogni nostra situazione, per quanto minoritaria, povera, bella o drammatica che sia, concorre al nostro bene e a quello della nostra società, sempre però a condizione di essere come San Paolo, portatori di speranza e di un messaggio.
Rischi per la nostra vita in questa avventura africana? Non lo so. Ma mi chiedo dove si trovi un Paese senza rischi e dove esista un progetto di vita senza sacrifici!
Sebbene la religione sia rimasta il maggior fattore di coesione sociale del mondo arabo-musulmano, nella società musulmana emergono anche tanti nuovi valori, tra cui esigenze di maggiore libertà di espressione, critiche pubbliche sulla corruzione dilagante, sulla mancanza di democrazia, appelli per aggiornare lo status delle donne. Emerge la necessità di accettazione di un pluralismo culturale, politico, religioso, che non esiste ancora; la necessità di un dialogo fra nord e sud, come pure di un dialogo fra gli stessi Stati arabi, nonostante il fallimento dell’ultimo summit della Lega araba che era previsto per il 28 e 29 marzo scorsi.
In questo nuovo contesto dinamico siamo invitati ad attivarci, a svolgere la nostra missione con la consapevolezza di essere un segno visibile di speranza per noi stessi e per gli altri, attraverso la nostra solidarietà e la nostra amicizia.
Oggi, in un tempo in cui tutti parlano di scontro di culture e di religione, noi, in tutti i nostri centri di educazione, in tutte le nostre istituzioni, e grazie anche alla partecipazione di tanti preti e tante suore coinvolti in prima linea nelle associazioni tunisine che di occupano degli handicappati e di bisognosi, tutti abbiamo come scopo quello di consolidare questa nostra solidarietà e la nostra convivenza.
In un contesto mondiale così difficile, con tante ingiustizie, dobbiamo evitare assolutamente l’improvvisazione se vogliamo iniziare un vero dialogo nel rispetto e nella verità.
Non abbiamo più bisogno di frasi di cortesia: noi diciamo la verità tale e quale, così com’è. Se no, non vale la pena. L’ignoranza della nostra propria fede, l’ignoranza nostra unita a quella delle altre religioni, risulta catastrofica e fa gran danno a tutti.
L’Islam in Europa: gli europei da noi nel nord Africa arrivano a migliaia; anche i magrebini arrivano in Europa a migliaia. Ma c’è una grande differenza: le ragioni che espongono i turisti o i pellegrini a spostarsi, non hanno niente a che fare con le motivazioni che spingono un rifugiato a lasciarsi alle spalle patria, famiglia, tradizioni, culture, per affrontare tutti rischi del viaggio, le difficoltà di trovare alloggio, lavoro, affrontando problemi di lingue e di integrazione, e con un avvenire totalmente sconosciuto. Che lo accettiate o no, che l’Unione Europea legiferi o no, non fa alcuna differenza: gli emigranti del sud arrivano e arriveranno ancora.
Due anni fa, in un altro congresso organizzato qui a Palermo, io stesso dicevo: “Più le crisi dell’Europa si fanno sentire, più diminuisce il numero dei turisti nel nord Africa. Inversamente: più si moltiplicano le crisi in Africa, più cresce il numero degli avventurieri e degli emigranti dal sud”. E voglio anche essere un po’ duro: non potete vivere in pace, non avete il diritto di vivere in pace lasciando che i vostri vicini del sud, del medioriente e del nord Africa, combattano con i loro problemi politici, sociali, umani.
Ci troviamo ormai in un mondo in cui tale fenomeno è una sfida quotidiana e una necessità quasi vitale per la vita comunitaria. Ci troviamo in un mondo che il dialogo interculturale, interreligioso, rende ogni giorno più sicuro e più umano, ed in cui l’assenza di tale dialogo si traduce in violenza e divisione. E’ finita l’epoca dello slogan ‘una terra un popolo’! Ora siamo a ‘un territorio più popoli’. Non esiste più ‘l’Italia agli italiani’. Ci siamo tutti dentro.
I motivi di questa emigrazione li conoscete bene: l’Europa ci è vicina, ci affascina con la sua ricchezza, bellezza, cultura, libertà; e del resto l’emigrazione è stata spesso incoraggiata, persino utilizzata dal mondo del lavoro europeo, che vede in essa una opportunità di trarre più vantaggi.
E ripeto una frase che ha detto il prof. Parsi: che lo vogliate o no, che lo vogliamo o no, ormai siamo condannati a vivere insieme agli stranieri, per ragioni demografiche, politiche e di interessi comuni. A voi europei spetta di scegliere il modo di accoglierli per poter convivere insieme. Il futuro dipenderà dalla vostra maniera di riceverli, come amici, come fratelli, come creature di Dio, come partners nella legalità o come intrusi.
La paura dell’Islam, i rischi dell’Islam, le invasioni dell’Islam: tutto questo è vero. Il loro numero è crescente e il vostro numero sempre più ridotto: anche questo è vero. Secondo alcune stime se il tasso di natalità si manterrà costante, nel 2025 ci saranno 15 milioni di italiani in meno; mentre solo nel nord Africa ci saranno 50 milioni di persone in più. E’ facile fare i calcoli! Tutto questo è vero...
Ma pur senza essere cattivo vorrei cantare O felix culpa!, se il fanatismo musulmano è servito a svegliare tanti cristiani e musulmani moderati dai loro sonni tranquilli, finora indifferenti a quanto succede sulle sponde del Mediterraneo.
Il mio ottimismo non rinuncia a riconoscere le più evidenti incompatibilità: la convivenza che invochiamo, così come il dialogo, non saranno facili, tantopiù che i criteri e le ragioni addotte dagli uni e dagli altri non sono né uguali né identiche. Il mio ottimismo non vuole nascondere neppure la mia paura circa l’eventuale seguito che avremo da questo incontro: la paura se avremo o non avremo risultati concreti, tangibili. Non vorrei che ritornassimo ciascuno a casa da questa bella giornata, dimenticandoci di tutto quello che abbiamo sentito.
Prima di concludere permettetemi una domanda, e lascio a voi la risposta: per assicurare un futuro di pace, di giustizia per tutti noi, adesso e per le generazioni future, avremo un’altra scelta che non sia quella della convivenza e del dialogo?
Vi ringrazio per la vostra attenzione e la vostra pazienza.
Grazie.
S.E.R. MONS. GIAMPAOLO CREPALDI
Segretario Pontificio Consiglio Giustizia e Pace
Grazie per questo invito.
Voglio ringraziare il presidente del Movimento Cristiano Lavoratori, Carlo Costalli, anche per le belle parole che ha avuto nei miei confronti e confermargli ancora una volta la mia attenzione e la mia amicizia per il Movimento.
Voglio poi ringraziare e congratularmi con i responsabili dell’EZA che sono presenti a questo Seminario di studio, per quello che svolgono a livello europeo per la promozione del diritto al lavoro, e comunque per la vita dei lavoratori. Grazie, infine, presidente, per avermi dato la parola.
Il tema di questo Convegno è “Unione europea e Mediterraneo: cooperazione con la società civile nell’ambito del dialogo sociale” e io mi soffermerò non tanto sul titolo quanto sul sottotitolo e, soprattutto, su quelle due parole: ‘cooperazione’ e ‘dialogo’ che, tutto sommato, mi pare siano al centro di tutto, come la ragione profonda di questo Seminario di studi.
E devo dire anche che in verità da parte vostra c’è un bel po’ di coraggio nel riproporre con caparbietà il tema del ‘dialogo’ e della ‘cooperazione’, in una stagione storica che vede questi due grandi valori sempre più compromessi e, direi, in una fase piuttosto difficile. Infatti ‘dialogo’ e ‘cooperazione’ non sono due valori in crescita nella coscienza collettiva ma, al contrario, sono valori che stanno velocemente entrando in crisi come due beni che si stanno quasi quasi esaurendo.
E’ del tutto evidente che, anche se ci sono delle frange minoritarie ed ‘elitarie’ come la vostra, che ripropongono con forza e con convinzione i valori della ‘cooperazione’ e del ‘dialogo’, rimane tuttavia un fatto sotto gli occhi di tutti che nella coscienza media del popolo (anche a livello europeo ma non solo), tali valori stiano subendo forse uno degli attacchi più decisivi e devastanti che siano mai capitati in questi ultimi anni.
Vorrei partire con una riflessione sul tema della cooperazione nella prospettiva del magistero di Giovanni Paolo II: che cosa vuol dire cooperare? ‘Cooperare’ è ‘operare insieme’ tra diversi, per raggiungere un obbiettivo comune. Mi sembra molto importante fermarsi sul significato delle parole per poter poi, a partire proprio da tale significato, cercare di delineare delle prospettive di carattere culturale e politico.
Nell’orizzonte della dottrina sociale della Chiesa, questo ‘cooperare’ presuppone, se lo consideriamo nella prospettiva globale come mi sembra venga richiesto alla mia relazione, una visione ‘unitaria’: il Santo Padre insiste sempre su questo ‘cooperare insieme’ nel presupposto dell’unità della famiglia umana.
Prima ancora di tutte le diversità va riconosciuto infatti che c’è un’unità profonda che lega tutti gli uomini in un destino comune: e in questa unità, in questo comune destino, c’è la base per l’esercizio di un ‘operare insieme’ che è molto più importante e decisivo, che unisce tutti gli uomini insieme.
Evidentemente l’unità della famiglia umana implica l’accettazione reciproca della propria diversità: l’unità non nega la diversità, ma la colloca dentro una prospettiva unitaria. Quindi è essenziale, nel magistero di Giovanni Paolo II, l’affermazione che l’unità della famiglia umana implica l’accettazione reciproca della propria diversità.
L’altro non è ‘il nemico’; l’altro, anche se diverso da me, non è ‘lo straniero’. Se andate ad analizzare il significato etimologico del termine ‘straniero’, almeno in italiano (ma anche in francese e in spagnolo), vuol dire extra nos, cioè ‘fuori da noi’ originariamente. L’altro non è ‘lo straniero’, ma colui che mi sta di fronte e che in un certo senso diventa fonte della mia ricchezza, mentre io divento fonte della ricchezza per l’altro.
Qui andiamo, direi, a ‘pizzicare’ quella che è la concezione stessa del Dio cristiano e delle relazioni che all’interno del Dio cristiano si stabiliscono tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: il Padre che riconosce il Figlio diventa in questo riconoscimento affermazione della propria identità, e il Figlio che riconosce il Padre in questo riconoscimento afferma la propria identità e la propria ricchezza; e nella relazione tra il Padre e il Figlio, che è una relazione d’amore, le diversità vengono esaltate ma nello stesso tempo ricomposte in una prospettiva di unità. Allora, vedete che il Dio cristiano diventa la sorgente stessa di una prospettiva culturale, e anche direi ‘politica’, che tiene insieme l’unità e la diversità. Evidentemente quindi è possibile l’individuazione di fini ‘buoni’ comuni, anzi è possibile l’individuazione di un ‘bene comune globale’ affidato alla responsabilità di tutti gli uomini, delle loro aggregazioni non governative e delle loro organizzazioni governative. E l’individuazione di un bene comune universale va perseguito insieme, e a livello globale.
Chiaramente in questa, chiamiamola tra virgolette, ‘filosofia dell’unità e della diversità’, il magistero di Giovanni Paolo II stabilisce anche delle priorità: c’è qualcosa che è primo e qualcosa che è secondo. Allora, la prima priorità che il Papa stabilisce è che il bene comune globale ormai, al giorno d’oggi, viene prima del bene comune particolare, di una nazione o di uno Stato. E anzi condiziona questo bene comune particolare, orientandolo alla realizzazione di un bene comune universale.
Ormai la globalizzazione, l’interdipendenza, sono fenomeni così decisivi nella storia degli uomini, che è del tutto evidente la necessità di stabilire queste priorità nella relazione tra il bene comune globale e il bene comune particolare. Per dirla in maniera molto semplice: l’amore di patria, che è legittimo, non va slegato, ma piuttosto ‘armonizzato’ con il bene comune universale, con l’amore per le sorti di tutta l’umanità. Perché c’è un destino comune dell’umanità, perché tutti gli uomini, almeno nella prospettiva cristiana, sono figli dello stesso Padre.
Come cristiani, quante volte diciamo il Padre Nostro per iniziare una riunione, o in qualunque altra circostanza… troviamo tutte le scuse per recitare il Padre Nostro, eppure non ci fermiamo mai a riflettere su cosa voglia dire ‘Padre Nostro’. Già solo le prime due parole, ‘Padre Nostro’, vogliono dire che riconosciamo che c’è un Padre, e in questo riconoscimento è implicito che tutti sono figli, mentre in quell’aggettivo ‘nostro’ c’è un senso di appartenenza a Lui, e tra di noi, assolutamente radicale e rivoluzionario.
Nella ricerca del bene comune universale bisogna poi individuare concretamente quelli che sono gli obbiettivi da realizzare: il bene comune universale non dev’essere solo un’affermazione, ma bisogna dargli contenuto e specificità. Il Papa mi pare che abbia individuato due ambiti, due ‘beni’ particolarmente bisognosi dell’intervento e dello sforzo e dell’esercizio della responsabilità collettiva: il bene della pace e il bene dello sviluppo dei popoli.
Fermiamoci un tantino sulla pace, che sembra l’ambito più delicato e complicato al giorno d’oggi: è il bene più difficile da garantire e da perseguire. Abbiamo, noi cattolici, appena terminato (non ancora anzi, devo dire), il 40° anniversario della Pacem in terris, la grande enciclica del beato Giovanni XXIII, la prima enciclica della storia del magistero sociale della Chiesa che viene non solo data ai cattolici, ma anche offerta a tutti gli uomini di buona volontà. E durante le celebrazioni di questo 40° anniversario anch’io ho avuto l’opportunità di riflettere molto, insieme con tanti amici, sull’impegno dei Papi - a partire da Leone XIII passando attraverso Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Papa Giovanni, Paolo VI, e l’attuale Pontefice -: quanto hanno fatto e quanto si sono impegnati per affermare le ragioni della pace nei momenti più drammatici per l’umanità, vissuti soprattutto nel secolo scorso con le due guerre mondiali!
E quindi mi pare che la pace, il tema della pace, l’impegno della pace, a partire dall’impegno dei Papi sul fronte della pace, sia diventato un impegno che sta al cuore della missione della Chiesa, non un impegno secondario, accessorio, ma essenziale e centrale. La pace ormai caratterizza la coscienza della Chiesa cattolica, non solo, anche della cristianità in generale. E’ vero che, come in tutte le cose fatte dagli uomini – e anche le Chiese sono fatte dagli uomini –, ci sono sbavature e accentuazioni diverse, ma mi pare che nel complesso non si possa mettere in dubbio questo dato essenziale: che la pace ormai caratterizza in modo irreversibile la coscienza della Chiesa cattolica e, in genere, delle chiese ortodosse e delle comunità ecclesiali protestanti. Pace intesa come dono di Dio, perché la pace è uno dei nomi di Dio nella Bibbia, e pace intesa anche come responsabilità dell’uomo e quindi come un bene affidato alla responsabilità dell’uomo.
Evidentemente però dentro questo scenario il Papa Giovanni Paolo II ha la consapevolezza chiara dei problemi e delle sfide che oggi sono presenti sul fronte della pace e della promozione della pace. Io ne citerò due (ce ne sono molti altri, però il tempo è quello che è).
Allora, il primo dato, se voi leggete attentamente il magistero di Giovanni Paolo II, è questo: dopo il 1989, cioè con il crollo del sistema comunista, la guerra e la pace hanno cambiato natura. I due grandi blocchi in un certo senso determinavano ed erano fattori di stabilità politica nel mondo: in maniera paradossale, proprio perché erano dei blocchi con potenti capacità di influenza, erano dei fattori di stabilità e di pace. La venuta meno di uno di questi blocchi ha fatto tramontare il pericolo di un conflitto nucleare devastante per l’umanità, ma in un certo senso ha determinato anche una sorta di ‘disseminazione’ in tanti luoghi della guerra: la guerra è diventata meno pericolosa, meno drammatica, ma è più presente in varie parti dell’umanità. Questo perché il venir meno dei blocchi, il venir meno della capacità di controllo delle zone di influenza, ha fatto insorgere nazionalismi, ricerca di identità personale. In un certo senso è stato un momento magmatico e caotico che ha determinato l’insorgere di una miriade innumerevole di conflitti nel mondo: conflitti all’interno degli Stati, conflitti tra gli Stati, conflitti determinati da cause di carattere religioso, da cause legate alla propria identità e via dicendo. Provate a pensare che solo nell’Africa noi abbiamo a che fare oggi con 45 conflitti, ma di cosiddette ‘guerre dimenticate’ ce ne sono tantissime in giro per il mondo.
Di fronte a questo scenario, che io ho presentato in maniera un po’ schematica e forse anche un po’ rozza, la questione che il Papa si pone è: come si affronta questo magma, questa situazione di conflittualità ormai così onnipresente nel mondo? Con un sistema unilaterale o con l’affermazione del valore di un sistema multilaterale? Il grande dibattito oggi, in un certo senso il ‘momento di svolta’ che potrà determinarsi, è proprio questo: affidiamo le sorti dell’umanità a una superpotenza o riaffermiamo il valore del multilateralismo? Cos’è stata la guerra in Iraq, se non anche il confronto tra queste prospettive di carattere culturale e di carattere politico?
La scelta del Papa è stata chiara, ed è stata quella della riaffermazione della prospettiva culturale – a livello di cultura politica come anche a livello politico - del multilateralismo, scelta che si è concretizzata poi in due ambiti.
Primo, l’affermazione del valore delle Nazioni Unite: è quello il luogo e lo strumento dove è possibile una governance della conflittualità oggi presente nel mondo. E, quindi, una negazione implicita della logica della guerra preventiva che caratterizza la scelta dell’unilateralismo.
Evidentemente il Santo Padre è ben consapevole… basta leggere il messaggio della pace di quest’anno, che è un messaggio sul valore della pace nel diritto internazionale, in cui il Papa afferma che certamente le Nazioni Unite hanno grandi meriti, ma hanno bisogno di riformarsi per poter essere in grado di governare una situazione così difficile.
Credo che nessuno di voi sia ben consapevole di quanto possa essere difficile un processo di autoriforma all’interno delle Nazioni Unite.
Apro una piccola parentesi: voi sapete che nella Santa Sede, in Vaticano, arrivano, come è prassi per tutti i Governi, i rapporti dei rappresentati diplomatici del Papa, e quindi io ho seguito per tanti anni, e sto ancora seguendo personalmente, tutti i rapporti che arrivano sul processo di autoriforma delle Nazioni Unite: vi devo dire che è veramente un processo molto complicato, molto difficile, che oggi è veramente in un momento di grande difficoltà, di grande impasse. Provate a pensare che cosa vuol dire riformare il Consiglio di Sicurezza, soprattutto con quel meccanismo delicatissimo che prevede il diritto di veto dei cinque Paesi permanenti (i cinque Paesi che hanno vinto la seconda guerra mondiale più la Cina). Ma il mondo ormai è cambiato.
Immaginate che cosa sarebbe la Francia, a livello internazionale, senza il diritto di veto: diventerebbe una piccola potenza non più grande dell’Italia e della Spagna, o poco di più. Grazie al diritto di veto invece ha ancora forse l’illusione di essere una grande potenza sullo scenario internazionale. E’ evidente che anche la Germania ora vuole entrare fra i Paesi che hanno il diritto di veto… ma allora l’India, che conta un miliardo di persone, dice: ‘E io no?’. E il Brasile? Sono quindici anni che stanno litigando su queste cose ed io non so quando finirà il litigio.
E’ importante però che l’esigenza di una riforma delle Nazioni Unite non implichi la negazione del valore di questa istituzione internazionale e anche della sua funzione.
Secondo: il Papa riconosce il valore e anche i limiti del diritto internazionale. Cioè dice: i conflitti non vanno risolti con la forza, non con il diritto della forza, ma vanno risolti con la forza del diritto. Ecco, questo è il punto che discrimina un’umanità civile da un’umanità incivile. E’ chiaro che c’erano, ci sono, e ci saranno ancora, conflitti tra le nazioni, tra i popoli, e per mille ragioni. Provate a pensare che molto probabilmente tra dieci anni la risorsa strategica del mondo non sarà più il petrolio ma l’acqua, e i conflitti legati al petrolio, alla gestione, al controllo di questa risorsa strategica, si sposteranno molto probabilmente sul controllo di quell’altra risorsa strategica fondamentale per la vita umana, che è l’acqua. Allora, l’inesorabile conflittualità come va governata? Con la forza, e quindi con la logica della guerra, come è sempre stato fatto, o con la logica invece dell’arbitrato, del compromesso, dell’incontro? E quindi non con il diritto della forza ma con la forza del diritto? Ecco la questione che il Papa pone. Quindi la prima problematica è proprio il rapporto tra unilateralismo e multilateralismo.
La seconda problematica che il Papa affronta in maniera molto chiara è la questione del terrorismo. All’inizio del mio discorso ho detto che siete molto coraggiosi ad affrontare il tema della cooperazione e del dialogo. Dico anche che il terrorismo - non nelle élite pensanti, ma nell’anima dei popoli, soprattutto dei popoli occidentali -, sta consumando il bene, la disponibilità interiore, intellettuale, alla cooperazione e al dialogo. Quel bene fatto di simpatia, di disponibilità al dialogo, all’incontro, all’accoglienza. Crescono spaventosamente nell’animo delle persone le barriere, e si consuma pericolosamente questa disponibilità interiore alla cooperazione e al dialogo mentre siamo solo all’inizio di un processo che non so quali esiti avrà, ma certamente non è un processo lineare e semplice.
Allora il Papa dice alcune cose in maniera molto chiara: primo, bisogna condannare in maniera netta e totale la logica e le politiche terroristiche, avendo ben chiara la consapevolezza che il terrorismo è un elemento in più nel cambiamento della natura della guerra e della pace, al giorno d’oggi. Perché il terrorismo oggi non è più un fenomeno locale, interno agli Stati, ma è un fenomeno sempre più globale. E quindi, dice il Papa, è assolutamente legittima e doverosa la lotta al terrorismo.
Come farla, questa lotta al terrorismo? Ecco che inevitabilmente si torna al discorso di prima: seguire una logica unilaterale o seguire una logica multilaterale? Il Papa, almeno in questa fase storica, ha optato nel suo magistero per un metodo multilaterale nella lotta al terrorismo.
Secondo punto caratterizzante del magistero del Papa sul terrorismo – e qui faccio riferimento ai due messaggi per la giornata mondiale della pace: quello del 2002, che veniva dopo l’11 settembre del 2001, e quello di quest’anno -: il terrorismo purtroppo al giorno d’oggi ha una connotazione religiosa e il Papa dice che “è bestemmia e profanazione proclamarsi terroristi in nome di Dio”. Dice anche un’altra cosa molto bella: “un cristiano – riferendosi qui ai cristiani – non possiede la verità”. Ricordate le affermazioni dei terroristi che sono andati contro le Twin Tours di New York l’11 settembre del 2001, che affermavano una verità religiosa per diventare martiri e “in nome di Dio” uccidere gli altri? Dice il Papa: “un cristiano non possiede la verità, ma cerca di essere posseduto dalla verità”. L’autentica verità religiosa si estende alle altre verità. E’ lasciarsi possedere dalla verità avendo rispetto assoluto per se stessi e per gli altri.
Il Papa invita anche ad andare alla ricerca delle cause del terrorismo, avendo l’avvertenza di non individuare solo quelle cause che sembrano le più semplici, perché ci sono molte vulgate in giro. Nella ricerca delle cause del terrorismo non basta dire che ‘sono le situazioni di povertà che creano i terroristi’. Il Papa certamente individua anche queste cause sociali, e quindi anche la povertà, tra le tante, però mette in guardia dall’esaurire la ricerca delle cause del terrorismo solo nella povertà. Perché sarebbe in un certo senso quasi stabilire una corrispondenza pericolosa e falsa: poveri = terroristi, il che mi sembra aberrante. Il Papa questo non lo fa mai.
Anzi, se andate a leggere le biografie dei terroristi, non vengono quasi mai fuori dai ceti poveri, ma vengono fuori da ceti piuttosto benestanti, acculturati.
Rimane il fatto che certamente il terrorismo è l’elemento che sta facendo diminuire la consapevolezza dell’unità della famiglia umana, con tutti i valori che ne conseguono, e sta facendo aumentare terribilmente, in termini di conflittualità, la consapevolezza della diversità e dell’opposizione tra i vari ambiti culturali ed identità del mondo.
Il Papa in questa sua prospettiva, ha una visione utopica o profetica? Io direi profetica, soprattutto perché il Papa ritiene di poter indicare una strada di grande valore per uscire da questo stallo.
Qual è la strada che il Papa ha indicato? Evidentemente non è l’unica, non è l’unica sufficiente, e però è una delle strade assolutamente necessarie da percorrere, oggi, per poter uscire da questa situazione così drammatica e che ha delle possibilità di evoluzioni ancora più drammatiche: la strada indicata dal Papa è il dialogo interreligioso, l’incontro delle religioni. Il Papa è molto coraggioso, in questo senso: provate a pensare se il Papa non avesse mantenuto, per primo e durante la questa in Iraq, questa posizione. Probabilmente avrebbe determinato nelle coscienze dei popoli islamici l’identificazione di quella guerra come una guerra di religione. Questo ha permesso di separare invece la faccenda della guerra da un possibile inquadramento, che sarebbe stato devastante, come di una guerra di religione e quindi di una guerra tra Islam e Cristianesimo. Molti terroristi islamici, anche in quel documento che è stato richiamato prima, parlano di ‘guerra di religione’, identificano i Paesi come ‘Paesi cristiani’.
La prospettiva delineata da Giovanni Paolo II è quella dell’incontro delle religioni, ed io qui vorrei richiamare alla vostra memoria due grandi icone: quella di Assisi 1986 e di Assisi 2002. Il Papa dice questo: le religioni devono mettersi insieme per lavorare per la pace.
Io che partecipo come rappresentante della Santa Sede a molti incontri internazionali a livello europeo, ma anche a livello di Nazioni Unite, posso affermare con cognizione di causa che quando, a livello internazionale, si tenta di proporre di inserire nei documenti della comunità internazionale stessa il possibile ruolo della religione nella promozione della pace, c’è in genere nella coscienza dei rappresentanti degli Stati la tendenza a mettere tra parentesi questa possibilità, perché le religioni al giorno d’oggi sono più viste come fattori di conflitto che come fattori di pace. Allora il Papa va anche qui profeticamente in controtendenza affermando il ruolo positivo delle religioni nella costruzione e nella promozione di un mondo di pace.
Ancora: il Papa ha dato una forte indicazione alle religioni stesse – alla Chiesa cattolica e agli altri cristiani, ma anche alle altre religioni – affinché decidano di giocare un ruolo pubblico nella promozione della pace. La pace non è, dice il Papa, solo una questione che riguardi i soggetti politici a livello nazionale e internazionale, ma è anche una responsabilità che riguarda la società civile.
Nel titolo di questo convegno voi avete citato la ‘società civile’: le religioni appartenenti, chiamiamola tra virgolette, alla ‘società civile’ devono giocare un ruolo di protagonismo, devono avere un ruolo fondamentale nella promozione della pace e devono quindi acquisire questa visibilità pubblica nella promozione della pace.
E’ evidente a tutti che esiste un problema nel dialogo interreligioso: nessuna religione, e tantomeno l’Islam e la Chiesa cattolica, è disposta a negare la propria identità. Ma il dialogo con l’altro è qualcosa di diverso: una concezione corretta del dialogo non implica la negazione della propria identità, e non implica nemmeno la negazione della diversità dell’altro. E qui bisognerebbe aprire allora una questione molto importante, e in un certo senso decisiva, che riguarda il ruolo dell’occidente e dei valori dell’occidente nel futuro.
L’occidente si è riproposto nel mondo attraverso varie fasi storiche, e non ultima quella del colonialismo: che ruolo vuole avere l’occidente inteso come Europa, come America del Nord, come America Latina - quindi quell’occidente che si ritrova più o meno nei valori cristiani della dignità della persona umana, della libertà, della democrazia, dell’affermazione dei diritti umani, dell’affermazione dello Stato di diritto, eccetera -, nella prospettiva del futuro? E’ una questione molto importante, strategicamente decisiva, e che io qui richiamo solo.
E chiudo dicendo che certamente per risolvere e affrontare la questione della pace bisogna essere in grado di affrontare anche la questione dello sviluppo: la ricchezza nel mondo è mal spartita, troppo mal spartita. E purtroppo nel mondo, se diminuisce la povertà assoluta (perché il mondo diventa più ricco), aumenta paradossalmente la povertà relativa, il che vuol dire che aumentano le differenze tra Paesi poveri e Paesi ricchi.
Se è molto chiaro ormai a livello di comunità internazionale come si debba affrontare oggi la lotta alla povertà, non è molto chiaro invece ‘chi’ debba affrontare la lotta alla povertà e con quali strumenti.
Esiste cioè un problema complessivo nel mondo attuale, sia a livello economico, sia a livello politico, che riguarda la governance, cioè quali siano i soggetti e quali le responsabilità di questi soggetti, nel mantenere la pace e nell’avviare processi di sviluppo.
Evidentemente la globalizzazione ha creato i partiti: quelli ‘contro’ e quelli ‘a favore’. Il Papa dice che la globalizzazione non è né buona né cattiva, ma sarà quello che gli uomini ne faranno, nel bene e nel male.
Quindi, non dobbiamo mai dimenticarlo, nel magistero di Giovanni Paolo II è molto presente questa connessione tra il diritto alla pace e il diritto allo sviluppo, che il Papa coniuga anche come un diritto a un ambiente sano e buono per tutti. Ma qui non abbiamo il tempo per parlarne.
Possiamo solo dire che le grandi sfide del terzo millennio, o almeno della fase iniziale del terzo millennio, sono legate a quello che i sociologi chiamano i diritti ‘di terza generazione’, cioè quei diritti che possono essere promossi e salvaguardati non più solamente a livello nazionale, ma necessitano del supporto a livello di comunità internazionale.
Sostanzialmente questi diritti sono tre: il diritto all’ambiente sano, il diritto alla pace, il diritto allo sviluppo.
Grazie.
PROF. CHIBLI MALLAT
Docente Università di Saint Joseph - Libano
Grazie infinite, Presidente Costalli, per me è un grande onore e una straordinaria opportunità il trovarmi qui con voi.
Ritengo che i colleghi che hanno parlato prima di me del ruolo della Sicilia come frontiera, hanno giustamente sottolineato l’importanza di ripensare a cosa sono e saranno le frontiere del futuro, dopo l’ampliamento unico e storico cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni.
Mi scuserete se la mia preparazione storica è estremamente limitata, ma tutti conosciamo l’incredibile ed unico incontro che è avvenuto in Sicilia fra le varie civiltà che hanno cercato di trovare una modalità di convivenza fra il X° ed il XIII° secolo. La mia conoscenza limitata del contributo della Sicilia in termini di dialogo fra continenti e civiltà diverse, è collegata in modo speciale al carattere del detective Salvo Montalbano. In questi termini penso si possa definire ‘umanesimo’ ciò che l’Italia e la Sicilia hanno offerto al mondo: e che, ritengo, avrà effetti molto più durevoli di qualsiasi politica, pur piena di buoni propositi, da parte della Unione Europea.
Abbiamo sentito parlare molto di ‘dialogo’ negli ultimi due giorni: ho ascoltato attentamente la relazione di Monsignor Crepaldi. Con il mio intervento oggi intendo affrontare un tema di importanza strategica per il Mediterraneo, sempre all’insegna di un profondo rispetto per il messaggio di pace che il nostro Papa trasmette al mondo. Credo tuttavia che sia necessario confrontare questi aspetti talvolta in un modo più incisivo ed impegnato di quanto non consenta un discorso generale sul ‘dialogo’ e sulla ‘convivenza’. Il dialogo è essenziale, naturalmente, a livello della Santa Chiesa. E’ necessario e inevitabile continuare nel solco di questa dimensione umanistica che riunisce il genere umano: è una tradizione e una necessità che avremo sempre.
Mi pare che il messaggio che Monsignor Crepaldi ha sottolineato, il messaggio di pace che il nostro Papa ci ha trasmesso durante la guerra in Iraq, l’ultima guerra in Iraq, sia un messaggio, come ha detto lo stesso Monsignore, che dà molto da pensare se riflettiamo a cosa sarebbe accaduto qualora ci fossimo trovati di fronte a una posizione intransigente da parte della Chiesa, che avrebbe sicuramente potuto in tal caso dare inizio ad una scissione del mondo basata sulle religioni.
Da parte mia, per quanto attiene al mio ambito di interesse e sulla base del mio lavoro svolto sull’Iraq e con gli iracheni nel corso degli anni, così come ha sottolineato ieri anche il professor Parsi, sono convinto che soltanto dopo la destituzione dal potere di Saddam Hussein è stata introdotta in Medio Oriente una certa idea di politica reale.
La necessità di eliminare la dittatura e il regime autoritario in quelle zone, regimi che direi sono la norma assoluta in tutto il Medio Oriente - visto che non c’è un solo Paese che può vantarsi di avere gli standard minimi di democrazia che noi tutti condividiamo, compreso Israele – è, in altri termini, una considerazione che vorrei condividere con voi.
Ero a Washington la settimana scorsa ed ho incontrato una delle figure più rappresentative dei cosiddetti ‘falchi’ della amministrazione americana, una persona per la quale nutro molto rispetto perché condivido l’opinione secondo la quale abbiamo bisogno di cambiamenti di regime in tutto il Medio Oriente. Così come, parlando dei regimi politici, c’è bisogno di un cambiamento anche in Tunisia (in Tunisia abbiamo uno dei personaggi più autoritari che abbia mai messo le mani su quello splendido Paese dal 1987 ad oggi). Ed è così anche per la Libia, dove un orrendo personaggio ha portato un disastro dopo l’altro per il suo popolo dal 1969. Insomma, si può andare in giro dove si vuole per il Medio Oriente e non si troveranno assolutamente eccezioni a questi modelli di autoritarismo.
Secondo la mia modesta opinione questo è un dato importante: lo scopo è quello di ottenere un serio cambiamento ai vertici di tutte queste società. Bisogna cambiare i regimi dittatoriali in regimi che condividono i valori dell’Europa, e questa mattina ho sentito dagli interventi che mi hanno preceduto quanto l’Europa sia necessaria nella nostra regione. Questi naturalmente sono gli obiettivi; i mezzi, poi, potranno essere differenti, anche se mi pare che un uso creativo della non violenza sia già iniziato nelle nostre zone, a giudicare dal gran numero di dissidenti che si possono trovare in Arabia Saudita, in Siria, in Libano, in Israele.
Si potrebbe osservare che il presupposto del cambiamento attraverso la non violenza esiste ed è esistito per molto tempo, senza che l’Occidente se ne sia mai reso conto. Tuttavia la necessità di questo cambiamento di regimi, pur potendo in un primo momento sembrare esagerata, è invece una condizione assoluta per permettere l’instaurarsi di un nuovo approccio nelle relazioni fra le due sponde del Mediterraneo. In tal modo infatti le condizioni stesse dell’attuale scelta violenta, conosciuta come terrorismo, sarebbero per la prima volta seriamente eliminate.
Non credo che ci sia un altro modo per affrontare la violenza nelle coste meridionali del Mediterraneo, se non attraverso un ribaltamento del sistema in cui tale violenza ha trovato terreno fertile. In questo senso questo cambiamento di regimi è qualcosa che potrà anche risultare scioccante per molti di voi, ma credo che non si possa attendere oltre.
Il messaggio è chiaro: è qualcosa che risulta urgente nel mondo arabo e nel Medio Oriente in genere, che include l’Iran ed anche Israele. In questo senso posso solo essere d’accordo, devo ammetterlo, con quella persona cui mi riferivo prima, che nell’attuale amministrazione americana è considerato l’artefice del cambio del regime in Iraq: il Vice segretario della Difesa degli Stati Uniti.
Io ritengo che senza la democrazia, nella sua accezione europea, nella sua accezione universale, come è intesa nei nostri Paesi, in Medio Oriente non vi potrà essere alcun cambiamento, nessun salto qualitativo, come invece tutti noi stiamo aspettando allo scopo di ottenere la restaurazione della pace sui due lati del Mediterraneo.
Con queste idee estremamente semplici, che spero di avervi trasmesso, vorrei ora passare al tema più specifico del mio contributo di oggi, che credo abbiamo tutti particolarmente a cuore: la questione di Gerusalemme.
Ritengo che si debba essere molto più ambiziosi a proposito di quanto va fatto in Medio Oriente, e anzi sono convinto che il cambiamento dei regimi totalitari verso la democrazia in tutti i Paesi del Medio Oriente, inclusi Israele ed Iran, dovrebbe essere il primo e chiaro obiettivo ben definito. I mezzi per realizzarlo potranno variare: io personalmente ero contrario alla guerra in Iraq. Ero convinto del fatto che ci potesse essere un altro modo per rovesciare il regime iracheno, un modo diverso e altrettanto rapido.
Abbiamo promosso senza successo una iniziativa per il rovesciamento del regime iracheno, anche con il sostegno di molti Paesi dell’area mediorientale, e tuttavia non abbiamo avuto successo quando si è trattato di convincere i francesi ed i tedeschi del fatto che la cosa più importante era attenersi alla necessità di cambiare il regime in Iraq, attraverso il rovesciamento di Saddam Hussein. Se anche le Nazioni Unite avessero condiviso il fatto che il peggior fallimento era rappresentato dal lasciare Saddam Hussein al potere a Baghdad, le cose sarebbero state molto differenti.
Insomma, se da questa posizione estremamente generale si passa all’aspetto più specifico, ma molto importante, riguardo a quello che deve essere fatto, credo che sia evidente che siamo ormai a un punto morto. E, a meno che non guardiamo la situazione con molta più ambizione e creatività, saremo destinati a continuare a reagire come abbiamo fatto finora, con l’effetto di avere una violenza destinata solo ad aumentare.
Ritornando alla questione di Gerusalemme, noi siamo qui per rivendicare un Mediterraneo pluralista e cosmopolita. Conosciamo bene le differenze che esistono fra le coste sud ed orientale e la costa settentrionale - che è inclusa o sta per essere inclusa nella Unione Europea – e, visto che la frontiera più importante per la Unione Europea è palesemente il Mediterraneo non europeo, il mio intervento vuole essere un’analisi di una delle più oscure negazioni della pluralità nella intera zona, sia in termini materiali sia in termini simbolici e spirituali. Non abbiamo bisogno di rimarcare la dimensione simbolica, salvo forse per dire che i simboli e la realtà si fondono tragicamente a Gerusalemme.
Il mio forte interesse per questa città deriva dal presunto esito dell’intero sistema costruito a Oslo e durante gli ultimi negoziati fra israeliani e palestinesi a Camp David, nell’estate del 2000, proprio su Gerusalemme.
Ed è stato sempre a Gerusalemme che l’Intifada è nata materialmente, a seguito della visita di Ariel Sharon alla città il 28 settembre 2000. Ma Ariel Sharon sapeva bene che cosa stava facendo. La provocazione deliberata ha ottenuto l’esito sperato: le dimostrazioni contro la sua visita hanno giustificato la violenza israeliana, che richiedeva molte vite palestinesi. Si è stranamente tutti d’accordo sul fatto che la seconda Intifada è cominciata ufficialmente proprio il 28 settembre 2000.
Anche nei discorsi del Presidente americano si nota che viene invariabilmente richiamata la necessità di tornare indietro, alla situazione esistente prima del 28 settembre 2000. Tutti i piani creati a Washington e alle Nazioni Unite per mettere fine ai massacri, a partire da questa data furono destinati all’insuccesso, fino ai negoziati di pace di Oslo. E visto che questa data basilare è dimenticata, è importante invece sottolinearlo.
Ariel Sharon iniziò ufficialmente la Intifada, che ancora non è finita da allora, e le cui prime vittime sono state solo palestinesi. Solo dopo parecchi giorni di perdite continue di vite palestinesi, cominciarono ad aversi le prime terribili vittime israeliane. Fu un modo tipicamente machiavellico per diventare il Primo Ministro di Israele!
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, e penso si tratti di conseguenze che richiedano un coraggio particolare da parte della Unione Europea, cui compete ora affrontare questa realtà. L’Intifada non finirà fintanto che l’artefice della violenza di quel momento, quell’uomo che ha pianificato un percorso tipicamente machiavellico per diventare il Primo Ministro di Israele, rimarrà in una posizione di responsabilità per il Medio Oriente!
Gerusalemme, città della pace, è diventata il punto nodale dell’intolleranza nel Medio Oriente, sia simbolicamente sia materialmente. Questo fattore non è nuovo e la storia sintetica di Gerusalemme, presentata dal Professor Wassenstein in un libro pubblicato tre anni fa, dimostra come fin dal secolo scorso si instaurò un modello di violenza arabo contro Israele, che con regolarità cominciava o terminava nella Città Santa.
Al di là di questa realtà, che se non compresa continuerà ad illudere le persone che cercano la pace per molto tempo ancora a venire, intendo soffermarmi ora su un fenomeno strutturale che rende il tutto ancor più duro e difficile da risolvere. Qualsiasi discussione su Gerusalemme si è svolta finora nel quadro generale del conflitto arabo-israeliano. Ma per una visione storica completa della questione si tratta ancora di un punto di vista insufficiente, perché elude sistematicamente la caratteristica principale che la componente critica di Gerusalemme fino ad oggi ha ignorato: la dimensione cristiana.
Il più tragico sviluppo nella storia moderna della città è stato ben illustrato in uno studio di uno dei più importanti esperti di Gerusalemme, il quale ha affermato che tutelare la popolazione cristiana in Terra Santa “richiederebbe un miracolo”. In altri termini, signore e signori, la Gerusalemme cristiana non esiste più perché non ci sono più cristiani che sono rimasti a Gerusalemme.
La terribile diminuzione di cristiani che risiedono nella città è evidente. Nel 1993 i cristiani rappresentavano il 13% della popolazione della Terra Santa, mentre nel 2000 erano appena il 2%. Nella stessa Gerusalemme vivevano 30.000 cristiani nel 1944, mentre nel 1967, quando Israele occupò la città, ve ne erano ancora circa 27.000; secondo gli ultimi censimenti ora ve ne sono meno di 4.000.
Durante i negoziati di Camp David di quattro anni fa, due fatti sono emersi nel tradizionale scontro di sovranità fra gli israeliani, che sono ebrei, da una parte, e gli arabi, che non lo sono, dall’altra - o, se vogliamo, fra gli israeliani che sono ebrei e i palestinesi che non lo sono -. Il primo elemento peculiare fu che durante le lunghe discussioni condotte sotto la guida del Presidente Clinton, l’impossibilità di risolvere i conflitti di sovranità fra i due leaders, nasceva da un presupposto sbagliato fin dall’inizio, un grosso equivoco di fondo: infatti, mentre Barak parlava della sovranità di Israele su tutta la città, Yasser Arafat tendeva invece al riconoscimento pieno, o quasi pieno, della sovranità palestinese sulla parte araba della città. La questione non era così semplice: Barak stava difendendo la sovranità israeliana o ebrea, mentre Arafat si rivolgeva agli interessi palestinesi o musulmani.
La domanda allora è: assistevamo a un conflitto che consisteva in uno scontro fra nazioni per Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele o come capitale del futuro Stato di Palestina? O questa complessità dovrebbe essere estesa molto oltre a Gerusalemme, come Città Santa, investendo le tre grande religioni storiche monoteistiche?
E non sono questioni astratte: anzi, vorrei sottolineare che da ciò dipende l’esistenza di un Mediterraneo pluralistico. Nonostante l’immortale retorica sulla sacralità di Gerusalemme per tutte e tre le religioni, quel poco che è emerso dalle due settimane a Camp David era soprattutto uno scontro di parte.
Barak parlava di un’eterna capitale per gli ebrei, e solo in seguito abbiamo imparato a comprendere che il suo slogan di allora, “Un Israele”, voleva dire esclusivamente “Un Israele ebreo”, nel senso che era sottintesa l’equazione fra Israele e l’essere ebrei, a discapito della uguaglianza di tutti i cittadini. Per definizione Israele è uno Stato ebreo.
L’altro equivoco della discussione di Camp David è ancora più problematico. Fino ad ora infatti è rimasta occulta l’alleanza di convenienza che si era venuta a creare fra cristiani e musulmani, alleanza nata per contrastare l’ebraicizzazione di Gerusalemme: questa alleanza di convenienza nelle trattative per Gerusalemme ha fatto sì che non si sono riusciti a garantire i diritti dei cristiani, e quindi neppure una risoluzione del conflitto basata sulla reale pluralità. In tal modo i cristiani della Terra Santa continuavano ad essere rappresentati da altri, mentre la loro presenza fisica stava iniziando a cadere in oblio.
Un’altra peculiarità è emersa da una breve dichiarazione di Madeleine Albright, durante la sua visita a Roma il 1° Agosto 2000, a proposito dell’andamento degli incontri di Camp David. Ella disse: “sicuramente a Camp David l’internazionalizzazione del conflitto non aiutò a trovare una risoluzione”. Che cosa significa questo riferimento alla internazionalizzazione? E perché il Segretario di Stato americano ha fatto queste affermazioni? Due cose sono sorprendenti: la prima è che i cristiani erano rappresentati da qualcun altro al tavolo dei negoziati, e la seconda è che il tema della internazionalizzazione di Gerusalemme era fino ad allora rimasto fuori dalla agenda degli Stati Uniti come anche dalle trattative internazionali.
Questi due elementi particolari non sono scollegati fra di loro: infatti, se a Camp David si fosse giunti riconoscendo lo status internazionale della città di Gerusalemme – posizione più che consolidata nel diritto internazionale -, ciò avrebbe comportato la necessaria presenza anche della componente cristiana al tavolo delle trattative. Invece, il tavolo dei negoziati era dominato dalle rappresentanze ebrea e musulmana, mentre l’intermediatore americano era un intermediatore ‘cristiano’ solo per modo di dire. Questo spiega meglio l’intervento compiuto dal Segretario di Stato americano prima, e dal Vaticano poi, nell’intento di cercare di limitare i danni.
La realtà è che Gerusalemme deve essere rivendicata come la Città Santa anche per i cristiani. Il ricorrente riferimento alla sua santità e la sua importanza per tutte e tre le religioni rimarrà solo una enunciazione retorica se non ragioniamo seriamente sulla necessità di tutelare Gerusalemme come città simbolo del Mediterraneo pluralistico. In questo senso è necessaria una svolta importante, una politica diplomatica che riesca ad imporre la presenza di una rappresentatività cristiana ai tavoli dei negoziati, in una posizione paritaria con i rappresentanti delle altre due religioni, per non relegare i cristiani al semplice rango di pellegrini e turisti sotto il giogo della sovranità ebrea o musulmana.
Certamente la richiesta di una effettiva rappresentanza cristiana al tavolo dei negoziati non è una proposta facile: inizialmente potrebbe apparire scioccante che i cristiani prendano le distanze dai cittadini musulmani di Gerusalemme, vittime anche loro; ma la logica della santità della città è decisamente l’unica via percorribile, destinata a far cadere ogni resistenza come foglie al vento. Nonostante questo approccio rischi di creare una divisione profonda nella società palestinese, c’è assoluto bisogno di una rappresentanza diretta degli interessi dei cristiani, che sgretoli la logica del più forte che oggi vige senza limitazione alcuna a Gerusalemme. E’ chiaro che in Israele si continuano a fare vittime con lo scopo di costringere tutti gli abitanti della città non ebrei ad allontanarsi, mentre i musulmani e i cristiani di Gerusalemme si riuniscono sotto la ‘leadership araba’.
Il tragico destino della Gerusalemme cristiana richiede a tutti coloro che sono direttamente interessati a non sparire dalla città (e sarebbe effettivamente la prima volta, dalla nascita di Cristo, che non ci sono cristiani a Gerusalemme), e richiede a noi, e a coloro che si preoccupano dell’esistenza di un Mediterraneo pluralistico, di reclamare un ruolo nei negoziati.
Chi possa ricoprire questo ruolo è una questione particolarmente difficile in considerazione della pulizia etnica operata fin dal secolo scorso nei confronti dei cristiani in Terra Santa. Camp David e il suo fallimento hanno messo in luce che da ora in poi il problema della Gerusalemme cristiana nel mondo debba essere necessariamente affrontato in modo più attento.
C’è bisogno di una qualche rivoluzione, perché la questione di Gerusalemme, finché verrà affrontata solo tra ebrei e musulmani - come se solamente loro fossero i padroni di Israele -, finirà necessariamente con l’escludere per ciò stesso i diritti dei cristiani. In altre parole lo status legale di Gerusalemme deve anche soddisfare i diritti alla sovranità cristiana sulla città.
E’ vero, i cristiani sono molto meno numerosi degli ebrei e dei musulmani, ma questo è in gran parte effetto della politica spietata di ebraicizzazione di Gerusalemme durante i secoli, politica ancor più estremizzata recentemente nel tentativo di contrastare l’islamizzazione. L’inadeguatezza del gruppo di lavoro che ha condotto fin qui i negoziati dipende anche da tale politica.
A questo risultato non sarà possibile pervenire fintanto che un esame più serio del concetto di internazionalizzazione non prospetti una soluzione legale per Gerusalemme. Non c’è bisogno di particolari invenzioni: un precedente importante dal punto di vista del diritto internazionale lo si può trovare nello statuto adottato dalle Nazioni Unite per la città di Gerusalemme, conosciuto come corpus separatum. Tale statuto, approvato nel 1950 dal U.N. Trusteeship Council, consacra il particolare regime internazionale di Gerusalemme conferendogli una veste giuridica.
è necessaria una trasformazione radicale nell’approccio alla questione di Gerusalemme che si conformi alle leggi internazionali in accordo alla filosofia pluralista del Mediterraneo. Lo status internazionale della città deve essere garantito, sia a livello simbolico sia materiale, per tutte e tre le religioni mondiali. Dal punto di vista diplomatico c’è bisogno di riconoscere una rappresentanza della componente cristiana al tavolo dei negoziati.
Nel campo del diritto c’è bisogno di una precisa condivisione di sovranità per riconoscere il particolare regime internazionale della Città Santa. In mancanza di queste due condizioni non c’è futuro per una Gerusalemme cristiana e tanto meno per un Mediterraneo pluralista.
Considerando la realtà della sparizione fisica dei cristiani dalla Terra Santa, parte di quella costruzione giuridica deve essere fatta dall’esterno. Ed è la scelta di questo importante Forum richiamare ciò che serve nelle coste orientali del Mediterraneo per renderlo pluralista e cosmopolita.
Cosa si dovrebbe fare? La dimensione tecnica della legge internazionale - con la abbondante redazione di testi, a partire dall’obsoleto corpus separatum -, non dovrebbe pregiudicare una risoluzione che riconosca Gerusalemme una città per tutte e tre le religioni, governata dai membri di ciascuna di esse.
Anche nel serrato dibattito fra il governo israeliano ed il Vaticano, il concetto di uguaglianza dei cristiani rispetto alle altre religioni è stato attentamente tutelato nel Trattato. Questo concetto è stato sistematicamente ostacolato però attraverso una attiva politica di discriminazione contro gli abitanti di Gerusalemme di qualsiasi fede non ebraica - attraverso l’introduzione di una serie di misure amministrative e riduzioni di budget, vessazioni fisiche, limitazioni alla libertà di movimento, limitazioni alla possibilità di ritorno in patria, limitazioni di concessioni edilizie, espropriazioni di terreni - e, d’altra parte, con un’attiva politica di promozione degli insediamenti ebraici. Di fronte a tutto ciò è auspicabile che il governo israeliano venga indotto dalla maggioranza dei cittadini ebrei israeliani onesti, ad affrontare prima o poi queste violazioni.
La discriminazione non è limitata alla sola parte orientale di Gerusalemme, ma si estende fino alle zone limitrofe e a quelle occupate e annesse nel 1967. In particolare, i cittadini cristiani di Gerusalemme sanno bene che le violazioni maggiori si sono verificate nella Gerusalemme occidentale fin dalla fine del XIX secolo, e che le proprietà confiscate a seguito della loro fuga, nel 1948, non sono limitate alla sola città vecchia.
Gli esperti di legge, come me, certamente potranno trovare una soluzione a questo insieme di cose, ma solo a patto che i principi della convivenza, del pluralismo, dell’umanesimo, della tolleranza, vengano ritenuti il punto essenziale nel conflitto arabo-israeliano.
La stessa Unione Europea offre molti modelli, l’ultimo dei quali, non per ordine di importanza, è quello di Cipro; è possibile far sì che il processo di allargamento comprenda Libano ed Israele - come da proposta del sionismo tradizionale -, per rendere quella terra nuovamente Santa.
Concluderei, signore e signori, dicendo che, ancora più di Parigi, Gerusalemme val bene una Messa.
Grazie.
Al Seminario Internazionale di Studi che si è tenuto a Palermo (Hotel Portorais Sport Club – Carini – Palermo) il 2, 3 e 4 aprile 2004, hanno preso parte delegazioni provenienti, oltre che dall’Italia, dalla Germania, dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia, da Malta, da Cipro, dal Libano, dalla Tunisia e dal Marocco.
Hanno svolto relazioni il prof. Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, il prof. Chibli Mallat, docente all’Università di Saint Joseph di Beirut (Libano), S.E.R. Mons. Foad Twal, Vescovo di Tunisi e Presidente della Conferenza Episcopale del Nord Africa, S.E.R. Mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e, inoltre, il prof. Ranier Fsadni, docente dell’Università di Malta, l’europarlamentare PPE-UDC Raffaele Lombardo, l’Onorevole Jesù Lopez Medel Bascones, già presidente della Commissione Giustizia e Interni del Congresso dei Deputati di Spagna.
Hanno portato il loro contributo Francisco Rivas, vicesegretario EZA, Mustapha Azmany, presidente del Cefa-Marocco, Miguel Angel Garcia, Direttore della Fondazione Umanesimo e Democrazia di Madrid, il Senatore Domenec Sesmilo, presidente CEEFT di Barcellona, Antonio Torres, presidente del Centro Social de Trabajadores di Madrid, Horst Langes, presidente onorario della Fondazione Robert Schuman, Stefano Ceci, presidente nazionale EFAL, Antonio Costanzo, presidente Mcl-Germania, Antonio Di Matteo, vicepresidente generale Mcl.