Se davvero si vuole sottoscrivere un patto di solidarietà tra le generazioni, allora va ridotta (se possibile azzerata) la distanza fra quanti potrebbero essere chiamati a fare i sacrifici (i pensionati) e i destinatari degli aiuti (i giovani). Dunque, padri e nonni da una parte. Figli e nipoti dall’altra. Diversamente, in tempi di sospetti generalizzati, soprattutto nei confronti della politica, il risultato sarebbe segnato in partenza. Tutti scontenti e benzina sul fuoco del disagio sociale e dei populismi. Ma c’è qualcosa che non convince nella guerra sotterranea fra i giovani di oggi e quelli dell’altro ieri. Da una parte i millennials (e non solo) e dall’altra i baby boomers, cioè i nati nel secondo Dopoguerra e cresciuti nel boom economico. Quelli che, secondo una disinvolta pubblicistica, come cavallette avrebbero rastrellato tutto a scapito delle generazioni successive. Peccato che i baby boomers siano anche le “vittime” principali della legge Fornero. Dunque, un po’ di prudenza non guasterebbe.
Ma procediamo con ordine. L’ultimo allarme è venuto dalla Fondazione Bruno Visentini che ha puntato l’indice sul divario generazionale fra questi gruppi di italiani: figli e nipoti da una parte; genitori maturi e nonni dall’altra. Una vera bomba sociale che non scoppia solo perché in Italia il sistema famiglia funziona ancora come principale ammortizzatore sociale. Ma i lunghissimi anni della recessione iniziano ora a pesare in misura considerevole e per intere classi sociali del nostro Paese la situazione si è fatta davvero difficile. In particolare per i giovani, sui quali grava come un macigno la mancanza di lavoro e perciò di reddito. Il Rapporto ipotizza che, senza adeguati e solleciti interventi correttivi, nel 2020 un giovane italiano potrà raggiungere l’indipendenza economica a 40 anni. Più grave la proiezione sul 2030 con l’indipendenza raggiungibile addirittura a 50 anni. Uno scenario terrificante sotto ogni aspetto. La situazione demografica del Paese sarebbe irrimediabilmente compromessa (chi metterebbe al mondo dei figli con lo spettro della povertà assoluta?); il Welfare italiano già solo proiettandosi sul 2020 (cioè dopodomani) non avrebbe le risorse disponibili per fronteggiare nuove e imponenti classi di poveri; l’impoverimento generale unito alla mancanza di inclusione di nuove generazioni sia nel sistema produttivo sia nelle dinamiche sociali più virtuose, condannerebbero l’Italia al declino.
Dunque, motivi per intervenire con sollecitudine ci sono tutti. Ovviamente dubitiamo che la strada del conflitto generazionale sia utile e produttiva. Occorre prendere in seria considerazione la prospettiva della solidarietà intergenerazionale, ma con un discorso pubblico di verità. E soprattutto non consentendo a nessuno di speculare sull’esclusione sociale e generazionale, indirizzando i giovani verso scorciatoie populiste.
Allo stato dell’arte, l’unica proposta di intervento maturata è quella di Tommaso Nannicini, consigliere economico dell’ex premier Matteo Renzi. L’ipotesi è quella di un intervento fiscale triennale che prevederebbe un’Irpef più pesante per i detentori di pensioni considerate generose (si ipotizza una platea di 2 milioni di pensionati) e di un contestuale intervento a favore dei 2 milioni di giovani (i cosiddetti Neet) parcheggiati in una zona di sospensione sociale, nella quale non lavorano, non studiano e non si qualificano. Sotto il profilo numerico l’operazione sembrerebbe facile. Per ogni pensionato “ricco” (ma c’è da stabilire quale sia la soglia della “ricchezza” pensionistica) un giovane in difficoltà otterrebbe un aiuto. Facile? Niente affatto. Innanzitutto per una ragione: la sfiducia nelle istituzioni e il sospetto che il sacrificio non porti ad alcun risultato tangibile per i “propri” giovani, figli o nipoti che siano. O giovani almeno del proprio territorio di appartenenza. Ben sapendo peraltro che non è automatica territorialmente la sovrapposizione tra pensionati “ricchi” e giovani bisognosi di aiuto. Più facile che i pensionati siano a Nord e i giovani al Centro-Sud. Quindi bisognerebbe operare, anche sul piano legislativo, su due fronti: ridurre al massimo le distanze fra chi è chiamato al sacrificio e chi concretamente riceve l’aiuto, predisporre un meccanismo solidale in grado di rendere tracciabile il sostegno.
Un piccolo suggerimento: perché non introdurre un semplice meccanismo che restituisca fiducia ai cittadini proprio attraverso le famiglie? Perché non immaginare che al pensionato (sino a una certa fascia di reddito che dovrebbe escludere le vere grandi ricchezze) al quale venga sottratta una quota dalla pensione, venga attribuito un “buono solidarietà” da lui stesso destinabile a un componente della famiglia, sia esso un figlio o un nipote ricompreso fra quei due milioni di giovani che aspettano un segnale di attenzione dalla società intera? E qualora non ci fosse un familiare, potrebbe valere il criterio della vicinanza territoriale. Quasi una forma di adozione a distanza, ma con nomi e cognomi del pensionato-donatore e del giovane-ricevente. Naturalmente il “buono solidarietà” andrebbe speso in aziende disponibili a dare una chance ai giovani, in formazione specializzata, in recupero scolastico. Insomma, la formula “un pensionato un giovane” all’interno dello stesso nucleo familiare (o di prossimità territoriale) potrebbe essere lo strumento di garanzia per disarmare quanti vedono nel solo reddito di cittadinanza lo strumento contro le nuove povertà. Senza considerare la circostanza che per distribuire la ricchezza bisogna prima produrla e che finanziare il reddito di cittadinanza con il debito pubblico sarebbe a dir poco pericoloso, considerate le difficili condizioni della finanza statale.
In ogni caso, dare la certezza al singolo pensionato che il suo sacrificio non sarà una mera operazione di facciata e che davvero suo figlio o suo nipote riceveranno un aiuto concreto, sarebbe la garanzia di riuscita di un progetto di solidarietà tra le generazioni. Diversamente, lasciamo che i pensionati continuino ad aiutare figli e nipoti così come stanno facendo già da tanti anni. E soprattutto non dipingiamoli come pensionati “ricchi” perché se già stanno aiutando figli e nipoti forse non lo sono affatto. Anzi, rischierebbero due volte: di continuare ad aiutare in prima persona i propri giovani e di bissare con il prelievo sulla pensione. Magari senza vedere alcun figlio o nipote beneficiario dell’aiuto pubblico. Sarebbe una beffa insopportabile che i fautori del progetto pensionistico di solidarietà pagherebbero a caro prezzo. Nelle urne e non solo.
Domenico Delle Foglie