Il tentativo di formare un governo con un accordo tra Di Maio e Salvini, secondo una formula non ancora definita, qualora giunga a compimento, avrebbe il risultato di evitare il probabile ricorso ad elezioni in piena estate e, soprattutto, l’impegno per affrontare i passaggi politico istituzionali decisivi della seconda metà dell’anno: dal documento di finanza, agli incontri europei e il bilancio per il 2019 con le manovre volte a impedire l’incremento dell’IVA.
Per la verità anche questa XVIII legislatura è apparsa segnata da una contraddizione di fondo. Pur in presenza di una legge elettorale proporzionale, il capo dei 5 Stelle, a lungo, ha sostenuto di essere legittimato a premier dal voto elettorale. In sostanza, cancellate le regole maggioritarie, dichiarate incostituzionali, era rimasto l’equivoco per il quale sopravviveva l’idea di una designazione diretta dell’elettorato e restava come variabile dipendente la necessità di accordi e maggioranze tra diversi, peraltro unica modalità attraverso la quale costruire, in sede parlamentare, il governo del Paese.
La strada per un accordo si è presentata quindi particolarmente complessa, poiché si era considerato solo parzialmente il fatto rilevante e decisivo che la Costituzione stabilisce che l’Italia è una democrazia parlamentare e nessuna regola elettorale può cancellare questa centralità del Parlamento, fino a quando non si abbia il coraggio e la capacità di modificare la forma di governo prevista dalla legge fondamentale della Repubblica.
L’impossibilità di comporre una maggioranza politica, ad un certo punto, aveva determinato la scelta di Mattarella per un “governo neutro”, neologismo istituzionale al quale si sarebbe ricorsi, al di fuori delle forze parlamentari, per registrare quel malessere istituzionale che corrisponde, alla difficoltà dei partiti ad aprirsi al confronto, abbandonando asprezze, veti e contrapposizioni radicali che comportano una campagna elettorale permanente, pericolosa per il Paese.
Rispetto a tale prospettiva l’accordo, recuperando il ruolo del Parlamento nel produrre il nuovo governo, appare un passaggio positivo. Non positive, invece, le letture di questa svolta che la motiverebbero proprio in contrapposizione alla indicazione del Capo dello Stato, addirittura interpretata come “minaccia” o “provocazione” verso gli “inconcludenti” partiti.
Il protrarsi dei termini per la richiesta dell’incarico dimostra come si debbono ancora superare alcuni passaggi decisivi come le questioni fondamentali della premiership, della scelta dei ministri decisivi (esteri, interni ed economia) e, soprattutto, del programma nel quale comporre proposte elettorali anche opposte. Un solo esempio: riduzione delle tasse e reddito di cittadinanza. Ma anche e non ultime, le tesi alternative sulle politiche relative ai “valori” e quelle sull’immigrazione.
Restano, poi, alcune questioni di natura politica che dovranno essere chiarite nei prossimi giorni. Innanzitutto la sopravvivenza o meno di una compattezza del centrodestra e il reale significato del “via libera” di Berlusconi all’accordo. Ciò al fine di evitare che la nuova composizione governativa produca una rottura, accentuando le derive intransigenti e alterando il necessario equilibrio. Soprattutto i riferimenti europei richiedono che il centrodestra al governo mantenga un collegamento col popolarismo, sicura garanzia della conferma di una politica europeista che, nel rispetto delle prospettive di integrazione, sappia far valere le ragioni della specificità dell’Italia.
Sul piano programmatico, come confermato dalla relazione del Presidente Costalli al Consiglio Generale, oltre all’Europa, le scelte necessarie riguardano il prioritario rilancio del lavoro che assicuri dignità per i lavoratori, spazi risolutori per la piaga della disoccupazione giovanile e libertà dalla oppressione fiscale per le imprese. Il tema deve prevalere rispetto ad una campagna elettorale del M5Stelle che, invece, ha esaltato gli aspetti assistenziali, come quello del reddito di cittadinanza; mentre la questione del ritorno ad una tutela dell’articolazione sociale (corpi intermedi, famiglia, terzo settore ed enti local), segnerebbe una novità forte che porrebbe termine alle tendenze verticistiche e destrutturanti portate avanti dai governi a guida del Pd.
Le attese di quel mondo cattolico impegnato nel sociale che ha ritenuto di offrire un contributo programmatico nella campagna elettorale chiedono risposte adeguate. La valutazione avverrà esclusivamente sulle concrete scelte programmatiche e la loro idoneità ad affrontare i problemi. Il difficile percorso della costruzione del governo, la sussistenza di asprezze polemiche e l’avvicendarsi delle manovre di palazzo non hanno comportato, per il momento, l’abbandono della speranza che si apra una fase di attenzione e di risposte ai reali problemi del Paese.
Pietro Giubilo